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Innamorarsi da anziani o da vecchi.

Ci si può innamorare a 15, a 30, a 45, a 60 e persino a 75 anni: non c’è niente di sconveniente in questo.

Ma si diventa ridicoli, patetici, se si pretende di vivere l’amore a 75 anni allo stesso modo e nelle stesse forme con cui lo si viveva a 15 o a 30 o a 45 o a 60 anni.

© Giovanni Lamagna

Morte graduale… morte desiderata…

La morte, come dice Montaigne, tranne rari casi, non ci coglie mai d’improvviso, cioè nel pieno delle nostre forze.

In genere è l’atto finale, la conclusione di un più o meno graduale lento declino, di un progressivo logoramento del nostro fisico.

Per cui non uccide mai l’uomo intero che eravamo da giovani e, perfino, nella piena maturità (ovverossia tra i 40 e i 50 anni), ma solo “una metà o un quarto” dell’uomo che fummo da giovani o anche da anziani, prima di giungere cioè (semmai vi giungeremo) alla tarda età.

La morte – in certi casi – potrà giungere persino come consolazione, cioè come conclusione desiderata di una vita capace oramai di offrire solo pene e nessuna o ben poche gioie.

© Giovanni Lamagna

La misura del nostro grado di umanità.

Dal modo in cui ci rapportiamo ai bambini, alle donne, agli ammalati, ai portatori di handicap, agli omosessuali, agli stranieri, agli anziani, ai vecchi (e non c’è in me nessuna intenzione o volontà, neanche inconsce, di assimilare tali categorie di persone) si misura il nostro grado di civiltà.

Anzi il nostro grado di umanità.

© Giovanni Lamagna

Esiste la possibilità di una difesa nonviolenta di fronte ad un’aggressione armata?

Qualche giorno fa ho pubblicato su facebook il seguente pensiero: “Chi è consapevole di essere parte di un Tutto indivisibile non può concepire (e, meno che mai, fare) la guerra.”

Un amico così lo ha commentato: “E se la guerra te la fanno? Non ti difendi?”.

E’ questa, a mio avviso, la domanda fondamentale alla quale i pacifisti “senza se e senza ma”, coloro (tra i quali mi annovero anche io) che hanno fatto la scelta della nonviolenza, devono dare una risposta convincente e non (solo) ideologica, in grado pertanto di sensibilizzare le coscienze a livello di massa e provocare comportamenti conseguenti, non solo di piccole avanguardie ma di un popolo intero.

Ovviamente – sia detto per inciso – il pacifista nonviolento non prende nemmeno in considerazione il ricorso alla violenza di attacco; se rinuncia alla difesa violenta, per quanto legittima, come potrebbe prendere in considerazione l’azione violenta di attacco?

E però il pacifista nonviolento non può evadere, invece, gli argomenti che gli vengono opposti rispetto alla difesa nonviolenta, da lui ipotizzata, nei confronti di un attacco violento ricevuto: “che fai, se la guerra te la fanno, tu non ti difendi?”

A questa domanda bisogna necessariamente rispondere, non la si può evadere.

E la prima risposta che mi viene di dare è che, certo, anche il pacifista, anche il nonviolento hanno il diritto di difendersi; è non solo legittimo, ma naturale, anzi persino doveroso, che lo facciano.

Solo che il pacifista non violento si difende senza fare ricorso alla violenza, senza rispondere alla violenza con altra violenza.

Allo stesso modo di come fanno, del resto, la gran parte dei cittadini civili in una comunità civile.

Anche in una società complessivamente civile si verificano, infatti, talvolta episodi di violenza, ovverossia episodi di inciviltà; e ciascuno di noi corre il rischio di rimanerne vittima.

Io, ad esempio, una volta (era quasi mezzanotte) sono stato rapinato da una piccola banda armata di giovinastri mentre mi ritiravo a casa.

Ma non per questo andiamo in giro armati, per poterci difendere con le armi, nell’ipotesi di trovarci in una situazione simile a quella nella quale mi sono trovato io tempo fa.

Nella gran parte dei casi quasi tutti noi reagiamo a queste forme di violenza senza opporre resistenza, consapevoli che il gioco non varrebbe la candela; e solo successivamente ricorrendo alla denuncia dell’accaduto in un posto di polizia.

Questo è ciò che avviene in una società evoluta, quella che noi definiamo normalmente e sanamente civile.

Le società, nelle quali moltissimi cittadini si armano per poter fronteggiare autonomamente e privatamente situazioni simili a quelle che ho sopra descritto e nelle quali la legge permette o addirittura incoraggia tale tipo di autodifesa, appaiono alla maggior parte di noi più simili al Far West che a delle società compiutamente civili.

Il problema che sembra oramai risolto al livello delle comunità civili, al loro interno, si pone però (bisogna riconoscerlo!) quando la violenza si affaccia al livello dei rapporti tra le diverse comunità, tra i diversi Stati, tra le Nazioni.

Innanzitutto perché la violenza a questo livello assume dimensioni ben maggiori di quelle che normalmente sono toccate al livello delle relazioni interpersonali o tutt’al più delle relazioni tra gruppi all’interno di una stessa comunità.

Sia perché in questo caso mancano norme, legislazioni condivise, che tutelino efficacemente chi subisce violenza; sia (soprattutto) perché, anche quando queste norme e le Istituzioni che dovrebbero farle rispettare almeno formalmente ci sono, esse sono deboli o del tutto inadeguati gli strumenti e le forze per far rispettare queste norme (vedi ONU).

Come ci si può difendere allora a questi livelli, senza fare ricorso alle armi, senza rispondere alla violenza con la violenza, alla guerra con la guerra; e senza nello stesso tempo arrendersi passivamente all’avversario/nemico che ci ha assalito, che ha invaso e occupato i nostri territori?

Esistono risposte nonviolente alla violenza, che non siano la pura e semplice resa? A mio avviso, sì!

La prima è la non-collaborazione; un esercito nemico potrà invadere il nostro territorio, occuparlo, ma non potrà mai invadere ed occupare le nostre coscienze (nota 1); un popolo che non si arrende è un popolo che non collabora col nemico nella gestione del territorio occupato.

La seconda risposta possibile è il boicottaggio di tutte le iniziative che l’esercito nemico proverà a intraprendere sul territorio occupato; boicottaggio innanzitutto psicologico e poi anche materiale.

La terza risposta è quella dello sciopero di protesta nonviolenta; la discesa in campo aperta, con manifestazioni pubbliche, più o meno spontanee, meglio se organizzate, preparate magari in modo clandestino.

La quarta risposta è quella della ricerca il più possibile ampia della solidarietà internazionale, la quale potrà esprimersi con forme di sanzioni e prese di posizione formali diplomatiche da parte di altre nazioni, in modo da isolare il più possibile a livello internazionale la nazione occupante. (nota 2)

Certo, nessuna di queste risposte nonviolente ad un attacco violento è in grado di fermare l’avanzata e – ancora meno – provocare la ritirata e, quindi, la sconfitta militare dell’esercito nemico: di questo sono pienamente consapevole.

Ma d’altra parte è forse in grado di offrire migliori garanzie la risposta violenta?

Non mi sembra! A giudicare dalle immagini che la televisione ci trasmette ogni giorno, quasi ad ogni ora, della guerra attualmente in corso in Ucraina: intere città rase al suolo, migliaia di morti non solo tra i militari ma anche tra i civili, un apparato economico, soprattutto industriale, in gran parte distrutto, milioni di persone costrette a vivere in condizioni inumane da oramai più di tre mesi o ad abbandonare la loro patria per trovare rifugio all’estero.

Immagini di una tale violenza distruttiva non dovrebbero insinuarci qualche dubbio sul tipo di risposta che sia il popolo ucraino che la comunità (?) internazionale (almeno quella occidentale) hanno dato finora all’invasione russa e indurci a ipotizzare e immaginare (quantomeno ipotizzare e immaginare) altri scenari possibili?

© Giovanni Lamagna

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(nota 1): Ricordo a tale proposito la risposta che diede l’attuale Dalai Lama a chi gli chiedeva come mai non incitasse il proprio popolo ad una ribellione armata contro l’occupazione cinese del Tibet: “I cinesi hanno già occupato il nostro territorio; non posso permettere loro di occupare anche la mia anima.”

(nota 2) Ovviamente perché queste risposte possano risultare efficaci occorre che esse vengano preparate bene e anzitempo, cioè in tempo di pace; né più e né meno di come gli eserciti si addestrano ad azioni militari di guerra, quando la guerra non c’è.

E che tutto il popolo (o almeno la gran parte di esso) vi partecipi: non solo i giovani, bene in salute e prevalentemente maschi, ma anche le donne, le persone con handicap fisici e gli anziani; per alcune azioni, perfino i bambini e i vecchi.

Sulle età della vita (parafrasando Schopenhauer)

Nella prima parte della vita abbiamo le forze, l’energia e perfino l’entusiasmo per realizzare le nostre aspirazioni e i nostri ideali, ma non abbiamo altrettanta esperienza.

Per cui commettiamo una quantità di errori – alcuni grossolani, altri molto ingenui – che spesso ci impediscono di realizzare quelle aspirazioni, quei desideri, quei progetti e quegli ideali.

Nella seconda parte della nostra vita, se siamo “bravi”, maturiamo l’esperienza che ci consentirebbe di evitare gli errori che abbiamo commesso nella sua prima parte, ma progressivamente ci vengono meno l’energia e le circostanze favorevoli per realizzare molti di quei desideri e di quelle aspirazioni che avevamo da giovani.

Come sarebbe bello (chi non l’ha mai desiderato?) poter riavvolgere la pellicola del nostro film: tornare non solo giovani (cosa che ci farebbe commettere gli stessi errori già compiuti negli anni trascorsi), ma con l’esperienza che abbiamo maturato da anziani!

Sappiamo fin troppo bene, però, che questo desiderio, purtroppo, è contro natura: destinato a rimanere, quindi, un sogno irrealizzabile.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di anziani

La terza età non è la stessa, inesorabilmente uguale per tutti: vi si può arrivare in due modi molto diversi e distanti tra di loro. Per cui possiamo parlare a buon ragione di due tipi di anziani.

L’uomo o la donna giunti alla terza età (una volta per terza età si intendeva quella che incominciava dopo la soglia dei 50 anni; oggi questa soglia – considerate le migliorate condizioni di vita e, quindi, di salute della popolazione e il conseguente allungamento della vita media – la si può situare anche dopo i 60 anni) tendono a irrigidirsi non solo nel corpo e quindi nei movimenti, come è fisiologico che accada, ma anche nei modi di sentire, di pensare e nei comportamenti, nei modi di essere, che ne conseguono.

L’uomo anziano, in genere, è schiavo delle sue abitudini; poco aperto alle novità, anzi tendenzialmente chiuso, giudicante: non solo verso le nuove mode (cosa che per certi aspetti sarebbe addirittura un dato positivo), ma anche nei confronti delle ovvie e naturali evoluzioni scientifiche, tecniche, economiche, sociali, culturali, politiche (e questo non sempre è positivo, anzi – a dire il vero – non lo è quasi mai).

Non a caso frasi tipiche pronunciate dagli anziani sono: “Ai miei tempi queste cose non si vedevano, non succedevano…”, “bei tempi andati!”.

Insomma, l’uomo anziano nella maggioranza dei casi ha lo sguardo rivolto all’indietro, verso il passato, e il sentimento che lo domina è quello della nostalgia, accompagnata spesso da un cinico disincanto, se non da una vera e propria mancanza di fiducia verso il futuro e verso le generazioni che vengono dopo di lui.

E tuttavia questo, anche se molto frequente, non è affatto l’esito scontato e inevitabile della evoluzione (o, meglio, involuzione) psicologica dell’uomo anziano.

Ci sono, infatti, uomini anziani (anche molto anziani) che restano vigili e aperti di fronte alle novità, che ancora si incuriosiscono e vogliono apprendere e imparare. Che non disprezzano i giovani e meno che mai le persone di mezza età, ma amano confrontarsi con loro, non per sposarne acriticamente i modi di pensare e i comportamenti, ma per in alcuni casi continuare a testimoniare i propri, in altri arrivare invece a metterli in discussione e, perfino, rivederli.

Questi anziani, proprio perché ben consapevoli della fragilità fisica ma anche emotiva e psicologica in senso lato della loro età, anziché difendersi, irrigidendosi nella nostalgia del tempo che fu, nella difesa di idee e scelte passate, con l’avanzare dell’età, si ammorbidiscono e sono aperti a mediazioni e compromessi ai quali da giovani non erano neanche lontanamente disponibili.

Sono capaci pertanto di aprirsi a visioni del mondo che sarebbero state inconcepibili per loro quando erano giovani e che in alcuni casi lo sono perfino per quelli molto più giovani di loro.

Ad esempio, divengono molto più tolleranti ed aperti sulle questioni dell’amore e, perfino, del sesso. Sono ben consapevoli che per loro si è esaurita la stagione dell’amore romantico, unico ed eterno, ed in fondo non ne hanno manco così tanta nostalgia, perché sono adesso in grado di vederne tutti i limiti, le ingenuità, gli aspetti perfino un po’ patetici e ridicoli.

Si aprono allora magari ad una visione più promiscua e comunitaria dei rapporti tra i sessi, in cui prevale meno il senso del possesso e più quello della condivisione, dell’amicizia più che della sessualità in senso stretto, anche se questi rapporti non escludono né la sessualità né, tantomeno, l’erotismo.

Insomma questi anziani sono capaci, forse ancora più di quando erano giovani e perfino più di tanti giovani di oggi, di aprirsi ad una visione giocosa e allegra dell’esistenza, ben lontana da quella cupa e a volte addirittura lugubre che spesso affligge la vita degli anziani del primo tipo, quelli che ho provato a descrivere all’inizio.

Anziani che sono restati o tornano ad essere, con l’avanzare degli anni, un po’ bambini o fanciulli, ma nel senso positivo e non regressivo del termine: capaci di stupirsi, gioire e divertirsi ancora, senza per questo scadere nell’incoscienza, nell’imprudenza, nella impulsività o mancanza di discernimento che caratterizza i bambini e i fanciulli.

Sul ruolo sociale degli anziani

Fino a due/tre generazioni fa questo ruolo era scontato. I giovani, ma anche le persone della generazione di mezzo, non solo lo riconoscevano, ma garantivano agli anziani come minimo il rispetto, in alcuni casi il prestigio delle competenze accumulate negli anni, in qualche caso perfino il carisma della saggezza.

Oggi (ma tale fenomeno è iniziato da almeno una diecina di anni) questi riconoscimenti non solo non sono più scontati, ma sembrano addirittura evaporati; “rottamati” nel senso comune, a voler usare un termine inaugurato da un giovane politico italiano, che col suo linguaggio e ancor più coi suoi comportamenti sembra aver sdoganato definitivamente ed emblematicamente tale fenomeno.

Conviene allora chiedersi se tale cambiamento del modo di pensare e di vivere delle società contemporanee rispetto a quelle trascorse sia positivo o no?

La mia risposta è che no, non lo è per nulla. Anzi, a volerla dire tutta, rappresenta un fenomeno di grave regressione.

E credo che questa mia tesi abbia una sua validità oggettiva, non sia inficiata cioè dal fatto che essa venga sostenuta da uno, come il sottoscritto, che oramai appartiene alla categoria degli anziani.

La mia risposta è no, ed è no per svariati motivi, che proverò qui di seguito ad argomentare.

Il primo motivo è che tale fenomeno rappresenta, a mio avviso, un ulteriore fattore di disgregazione (e non ce ne era di certo bisogno!) che si aggiunge a quelli già presenti da secoli nelle nostre società. La rottura (o, quantomeno, lo iato) tra le generazioni si aggiunge, infatti, a quelli ultra-storici della stratificazione tra classi e ceti e della divisione tra i sessi.

Qualcuno in questi ultimi anni è arrivato addirittura a mettere la generazione dei giovani contro quella degli anziani, colpevoli di voler andare troppo presto in pensione, con livelli di previdenza insostenibili per la casse pubbliche, di godere insomma di diritti (da considerare anzi privilegi) che danneggiavano di fatto la condizione economica e sociale dei giovani.

E i giovani, parecchi giovani, hanno abboccato a questi argomenti di pura propaganda neoliberista, finendo per prendersela con le generazioni anziane, invece che con il vero avversario: quello di classe.

Il quale nel frattempo toglieva comunque diritti acquisiti agli anziani, ma non li riconosceva certo in cambio ai giovani, e ovviamente non spiegava come avrebbe potuto assicurare nell’immediato nuovi posti di lavoro ai giovani nel momento in cui costringeva gli anziani a lavorare fino alle soglie dei 70 anni.

Il secondo motivo per cui reputo il fenomeno di svalutazione del ruolo degli anziani fortemente negativo è che con esso si viene a perdere (o viene notevolmente sottovalutato) un notevole capitale di risorse umane: quello legato all’esperienza e alla saggezza, che (non sempre, ma spesso) è figlia dell’esperienza e, quindi, dell’età avanzata.

Questa “verità” mi è venuta particolarmente in evidenza qualche sera fa vedendo e sentendo parlare per televisione un medico ultrasettantenne, uno dei più illustri immunologi italiani, scienziato di fama mondiale, che veniva intervistato sull’epidemia di corona virus in corso.

Mi hanno colpito, infatti, non solo e (forse) non tanto la sua scienza e le sue competenze, quanto piuttosto il tono e l’atteggiamento complessivo con cui egli rispondeva alle domande dell’intervistatrice, una nota giornalista che tiene un programma televisivo ogni sera all’ora di cena.

Il professore parlava con tono molto pacato, con un atteggiamento estremamente posato, misurando con grande prudenza le sue parole, in certi momenti addirittura confessando la sua incapacità a dare una risposta netta, precisa, senza ombra di dubbi, perché “io sono solo un immunologo e non un virologo”.

Ecco – prendo a supporto questo episodio – per evidenziare che pacatezza, posatezza, prudenza, modestia e umiltà sono in genere caratteristiche/qualità che è dato riscontrare – anche senza voler stupidamente generalizzare – più negli anziani che nei giovani.

I giovani, infatti, senza nulla voler togliere ad altre loro caratteristiche positive, tipiche della loro età (energia, audacia, forza fisica, entusiasmo, prontezza, sveltezza, agilità e immaginazione emotiva e intellettuale…), sono in genere, sui grandi numeri e fatte le debite eccezioni, portati ad essere impulsivi, precipitosi, a volte anche un po’ avventati e persino sfrontati, guasconi, arroganti (vedi il politico cui facevo riferimento in precedenza).

Sottovalutare o addirittura ignorare il ruolo degli anziani significa allora lasciare inutilizzato, accantonare un capitale di doti, qualità, risorse, che sono più tipiche (anche se non esclusive, per carità) degli anziani. E non mi pare onestamente una grande scelta dal punto di vista antropologico-culturale.

Il terzo motivo per cui reputo il fenomeno di svalutazione del ruolo degli anziani fortemente negativo è che esso si regge sull’ideologia (vera e propria ideologia!), connaturata alla società dei consumi diventata sempre più egemone in Occidente nel secondo dopoguerra, secondo la quale “il nuovo è sempre meglio del vecchio”.

Questa ideologia (come tutte le ideologie, del resto!) non ha ovviamente nessuna base scientifica, ma si alimenta solo delle suggestioni pubblicitarie, che da alcuni decenni mirano a convincerci che ogni bene di consumo deve durare lo spazio di un mattino, in modo che noi possiamo buttarlo presto nella spazzatura e comprarne uno nuovo.

In base a questa ideologia, dunque, i giovani sarebbero sempre e comunque migliori degli anziani (per non parlare dei vecchi).

Ora io (anziano) non direi mai (mi sembrerebbe una grande sciocchezza) che gli anziani e i vecchi sono sempre e comunque meglio dei giovani. Ma perché, di grazia, dovrei invece dire che i giovani sono sempre e comunque meglio degli anziani e dei vecchi? Non sarebbe meglio valutarli quantomeno di volta in volta e caso per caso?

Invece oggi succede in Italia (ma, a dire il vero non solo in Italia) che uno diventi primo ministro di un governo prima ancora di compiere 40 anni, ministro degli esteri a poco più di 30 anni, ministra della Pubblica istruzione a 36 anni, avendo nel suo curriculum nient’altro che pochi anni di insegnamento nella Scuola Pubblica, di cui dovrebbe essere invece la massima responsabile politica a livello nazionale.

Faccio qui notare, per inciso, che il ministero della Pubblica Istruzione in Italia è stato retto in passato da “personaggetti” del calibro di Francesco De Sanctis, Quintino Sella, Ruggero Bonghi, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Guido De Ruggiero, Aldo Moro, Oscar Luigi Scalfaro, Giovanni Spadolini, Sergio Mattarella, Tullio De Mauro (per citare solo i più noti), i quali non ci arrivarono di certo da giovani, ma dopo un lungo, regolare e, per giunta, autorevolissimo cursus honorum.

Eppure, all’età della nostra attuale ministra della Pubblica Istruzione, avevano già parecchi titoli in più di Lei.

Ora mi chiedo: è possibile che le doti naturali dei tanti personaggi, che oggi, ancora giovanissimi, ricoprono tanti ruoli pubblici di grande responsabilità, siano talmente elevate da riuscire a pareggiare (anzi superare) le qualità accertate di chi, in passato, dopo aver fatto una naturale e ovvia gavetta, arrivava a ricoprire ruoli di tale prestigio, se non proprio in età anziana, quantomeno in tarda maturità?

Mi permetto di nutrire qualche dubbio.

La mia tesi, che vado sostenendo da tempo, è che le persone, almeno la maggior parte delle persone, diano il meglio di loro, da tutti i punti di vista (emotivo, intellettuale, culturale, professionale e spirituale, tranne quello fisico, procreativo e sportivo) a partire dai 45 anni e almeno fino ai 65.

Tra l’altro, proprio visti l’elevarsi dell’età media della vita e la buona salute fisica e psicologica di cui si gode oggi normalmente almeno fino ai 65 anni di età, che è argomento tratto a pretesto (guarda caso!) dalle ideologie e politiche neoliberiste per tenere impiegati i lavoratori fino alle soglie dei 70 anni.

Per cui non capisco proprio perché gli incarichi di responsabilità, via, via crescenti come grado di importanza, non debbano essere assegnati tenendo conto anche (seppur non solo, ovviamente) del criterio dell’anzianità.

Come avveniva normalmente nelle epoche passate (pensiamo ai “senatores” romani) e come avveniva anche nelle nostre società fino a non molti decenni orsono.

© Giovanni Lamagna

Allievo e maestro.

Ogni maestro è stato a suo tempo allievo; ha avuto quindi bisogno di un maestro.

Non c’è sapienza che non sia figlia di un qualche insegnamento.

Anche se ogni buon allievo elabora e trasforma l’insegnamento del suo maestro.

Nessun buon allievo trasmette a sua volta gli insegnamenti ricevuti senza averli in qualche modo rielaborati e trasformati.

Nessun buon allievo è uguale al suo maestro.

Ogni buon allievo ha avuto bisogno, ad un certo punto, di “uccidere” il suo maestro.

La sequela di “insegnamento/apprendimento/nuovo insegnamento” presuppone, però, che l’allievo rispetti profondamente il maestro, anche quando lo supera, anche quando lo “tradisce”.

Il “tradimento” dell’allievo nei confronti del maestro è un “andare oltre” gli insegnamenti del maestro. Non è mai una negazione assoluta e radicale del maestro e dei suoi insegnamenti.

Le generazioni più giovani hanno (o dovrebbero avere) quindi un profondo rispetto verso le generazioni più anziane.

Anche quando prendono strade del tutto diverse, come è avvenuto in alcuni passaggi particolarmente significativi della Storia (ad esempio, nel 1968).

Oggi (a dire il vero, già da qualche decennio) questo rispetto tende a venir meno. Anzi, forse, è già del tutto venuto meno. Non è più considerato un valore, anzi è oggi considerato quasi un disvalore.

In nome di un progresso che tende non solo a superare, ma a cancellare il passato, prevale, si è affermato, il concetto di “rottamazione”.

Per cui l’allievo non vede l’ora di sostituire il maestro, di prenderne il posto.

Gli anziani (per non parlare dei vecchi) vengono considerati inutili, da buttare, da “rottamare” (appunto!).

Anche se poi, paradossalmente, il sistema economico pretende che essi continuino a lavorare fino ad un’età ogni anno più avanzata.

Gli anziani non sono più considerati buoni a trasmettere conoscenze e saggezza. Sono considerati buoni, invece, per produrre dal punto di vista economico-materiale.

Tutto il contrario di quello che avveniva in passato.

E (a me pare) tutto il contrario di quello che ha previsto la natura, cioè la fisiologia e la psicologia del singolo uomo, dei piccoli gruppi, ma anche dei grandi gruppi che sono le società umane.

“In natura non fit salta”.

Giovanni Lamagna

Un breve commento allo spettacolo “Si nota all’imbrunire” di Lucia Calamaro.

Domenica scorsa ho visto al teatro Bellini di Napoli la commedia “Si nota all’imbrunire (solitudine da paese spopolato)” di Lucia Calamaro. Attore protagonista Silvio Orlando.

Il testo è molto lungo: lo spettacolo dura più di due ore. Ed è un po’ faticoso quindi seguirlo, anche perché attraversa più di un momento in cui la tensione narrativa cala.

Affronta però senza dubbio una problematica molto interessante: la solitudine esistenziale (l’autrice la chiama “solitudine sociale”), specie quella degli anziani, ma soprattutto (a mio avviso) la difficoltà di comunicazione tra gli esseri umani, spesso nevroticamente scissi tra due opposti: il bisogno (persino fisico) di contatto con gli altri e la paura, il fastidio, quasi la ripugnanza di essere invasi dagli altri, della rottura della propria privacy, dell’intralcio alle proprie abitudini e perfino manie.

Il testo racconta in maniera molto ricercata e dettagliata, ironica e allo stesso tempo triste e perfino amara, le dinamiche connesse al problema affrontato. Ma (più che troppo lungo) è troppo parlato.

Le dinamiche relazionali sono troppo descritte a parole, analizzate, quasi sminuzzate in lunghi discorsi, anziché mostrate, raffigurate, rappresentate scenicamente.

A mio avviso la commedia è troppo parlata e poco vissuta; avrebbe avuto bisogno di più silenzio e gestualità e meno battute, per comunicare meno idee e pensieri e più emozioni e sentimenti.

C’è, però, una situazione in cui questo avviene; la indico a mo’ di esempio: quando il protagonista deve spegnere la candelina della torta. Lì si ferma in silenzio – indeciso, insicuro, esitante – per un lungo momento sospeso, che dice più di cento parole.

Si esce, quindi, dal teatro con la sensazione di aver assistito ad un evento incompiuto. Che poteva essere, ma non è stato fino in fondo.

Gli attori sono bravi. Eccellente (come al solito) Silvio Orlando. Ma bravi anche gli altri, in particolare Roberto Nobile.

Giovanni Lamagna