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Innamorarsi da anziani o da vecchi.
Ci si può innamorare a 15, a 30, a 45, a 60 e persino a 75 anni: non c’è niente di sconveniente in questo.
Ma si diventa ridicoli, patetici, se si pretende di vivere l’amore a 75 anni allo stesso modo e nelle stesse forme con cui lo si viveva a 15 o a 30 o a 45 o a 60 anni.
© Giovanni Lamagna
Morte graduale… morte desiderata…
La morte, come dice Montaigne, tranne rari casi, non ci coglie mai d’improvviso, cioè nel pieno delle nostre forze.
In genere è l’atto finale, la conclusione di un più o meno graduale lento declino, di un progressivo logoramento del nostro fisico.
Per cui non uccide mai l’uomo intero che eravamo da giovani e, perfino, nella piena maturità (ovverossia tra i 40 e i 50 anni), ma solo “una metà o un quarto” dell’uomo che fummo da giovani o anche da anziani, prima di giungere cioè (semmai vi giungeremo) alla tarda età.
La morte – in certi casi – potrà giungere persino come consolazione, cioè come conclusione desiderata di una vita capace oramai di offrire solo pene e nessuna o ben poche gioie.
© Giovanni Lamagna
La misura del nostro grado di umanità.
Dal modo in cui ci rapportiamo ai bambini, alle donne, agli ammalati, ai portatori di handicap, agli omosessuali, agli stranieri, agli anziani, ai vecchi (e non c’è in me nessuna intenzione o volontà, neanche inconsce, di assimilare tali categorie di persone) si misura il nostro grado di civiltà.
Anzi il nostro grado di umanità.
© Giovanni Lamagna
Esiste la possibilità di una difesa nonviolenta di fronte ad un’aggressione armata?
Qualche giorno fa ho pubblicato su facebook il seguente pensiero: “Chi è consapevole di essere parte di un Tutto indivisibile non può concepire (e, meno che mai, fare) la guerra.”
Un amico così lo ha commentato: “E se la guerra te la fanno? Non ti difendi?”.
E’ questa, a mio avviso, la domanda fondamentale alla quale i pacifisti “senza se e senza ma”, coloro (tra i quali mi annovero anche io) che hanno fatto la scelta della nonviolenza, devono dare una risposta convincente e non (solo) ideologica, in grado pertanto di sensibilizzare le coscienze a livello di massa e provocare comportamenti conseguenti, non solo di piccole avanguardie ma di un popolo intero.
Ovviamente – sia detto per inciso – il pacifista nonviolento non prende nemmeno in considerazione il ricorso alla violenza di attacco; se rinuncia alla difesa violenta, per quanto legittima, come potrebbe prendere in considerazione l’azione violenta di attacco?
E però il pacifista nonviolento non può evadere, invece, gli argomenti che gli vengono opposti rispetto alla difesa nonviolenta, da lui ipotizzata, nei confronti di un attacco violento ricevuto: “che fai, se la guerra te la fanno, tu non ti difendi?”
A questa domanda bisogna necessariamente rispondere, non la si può evadere.
E la prima risposta che mi viene di dare è che, certo, anche il pacifista, anche il nonviolento hanno il diritto di difendersi; è non solo legittimo, ma naturale, anzi persino doveroso, che lo facciano.
Solo che il pacifista non violento si difende senza fare ricorso alla violenza, senza rispondere alla violenza con altra violenza.
Allo stesso modo di come fanno, del resto, la gran parte dei cittadini civili in una comunità civile.
Anche in una società complessivamente civile si verificano, infatti, talvolta episodi di violenza, ovverossia episodi di inciviltà; e ciascuno di noi corre il rischio di rimanerne vittima.
Io, ad esempio, una volta (era quasi mezzanotte) sono stato rapinato da una piccola banda armata di giovinastri mentre mi ritiravo a casa.
Ma non per questo andiamo in giro armati, per poterci difendere con le armi, nell’ipotesi di trovarci in una situazione simile a quella nella quale mi sono trovato io tempo fa.
Nella gran parte dei casi quasi tutti noi reagiamo a queste forme di violenza senza opporre resistenza, consapevoli che il gioco non varrebbe la candela; e solo successivamente ricorrendo alla denuncia dell’accaduto in un posto di polizia.
Questo è ciò che avviene in una società evoluta, quella che noi definiamo normalmente e sanamente civile.
Le società, nelle quali moltissimi cittadini si armano per poter fronteggiare autonomamente e privatamente situazioni simili a quelle che ho sopra descritto e nelle quali la legge permette o addirittura incoraggia tale tipo di autodifesa, appaiono alla maggior parte di noi più simili al Far West che a delle società compiutamente civili.
Il problema che sembra oramai risolto al livello delle comunità civili, al loro interno, si pone però (bisogna riconoscerlo!) quando la violenza si affaccia al livello dei rapporti tra le diverse comunità, tra i diversi Stati, tra le Nazioni.
Innanzitutto perché la violenza a questo livello assume dimensioni ben maggiori di quelle che normalmente sono toccate al livello delle relazioni interpersonali o tutt’al più delle relazioni tra gruppi all’interno di una stessa comunità.
Sia perché in questo caso mancano norme, legislazioni condivise, che tutelino efficacemente chi subisce violenza; sia (soprattutto) perché, anche quando queste norme e le Istituzioni che dovrebbero farle rispettare almeno formalmente ci sono, esse sono deboli o del tutto inadeguati gli strumenti e le forze per far rispettare queste norme (vedi ONU).
Come ci si può difendere allora a questi livelli, senza fare ricorso alle armi, senza rispondere alla violenza con la violenza, alla guerra con la guerra; e senza nello stesso tempo arrendersi passivamente all’avversario/nemico che ci ha assalito, che ha invaso e occupato i nostri territori?
Esistono risposte nonviolente alla violenza, che non siano la pura e semplice resa? A mio avviso, sì!
La prima è la non-collaborazione; un esercito nemico potrà invadere il nostro territorio, occuparlo, ma non potrà mai invadere ed occupare le nostre coscienze (nota 1); un popolo che non si arrende è un popolo che non collabora col nemico nella gestione del territorio occupato.
La seconda risposta possibile è il boicottaggio di tutte le iniziative che l’esercito nemico proverà a intraprendere sul territorio occupato; boicottaggio innanzitutto psicologico e poi anche materiale.
La terza risposta è quella dello sciopero di protesta nonviolenta; la discesa in campo aperta, con manifestazioni pubbliche, più o meno spontanee, meglio se organizzate, preparate magari in modo clandestino.
La quarta risposta è quella della ricerca il più possibile ampia della solidarietà internazionale, la quale potrà esprimersi con forme di sanzioni e prese di posizione formali diplomatiche da parte di altre nazioni, in modo da isolare il più possibile a livello internazionale la nazione occupante. (nota 2)
Certo, nessuna di queste risposte nonviolente ad un attacco violento è in grado di fermare l’avanzata e – ancora meno – provocare la ritirata e, quindi, la sconfitta militare dell’esercito nemico: di questo sono pienamente consapevole.
Ma d’altra parte è forse in grado di offrire migliori garanzie la risposta violenta?
Non mi sembra! A giudicare dalle immagini che la televisione ci trasmette ogni giorno, quasi ad ogni ora, della guerra attualmente in corso in Ucraina: intere città rase al suolo, migliaia di morti non solo tra i militari ma anche tra i civili, un apparato economico, soprattutto industriale, in gran parte distrutto, milioni di persone costrette a vivere in condizioni inumane da oramai più di tre mesi o ad abbandonare la loro patria per trovare rifugio all’estero.
Immagini di una tale violenza distruttiva non dovrebbero insinuarci qualche dubbio sul tipo di risposta che sia il popolo ucraino che la comunità (?) internazionale (almeno quella occidentale) hanno dato finora all’invasione russa e indurci a ipotizzare e immaginare (quantomeno ipotizzare e immaginare) altri scenari possibili?
© Giovanni Lamagna
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(nota 1): Ricordo a tale proposito la risposta che diede l’attuale Dalai Lama a chi gli chiedeva come mai non incitasse il proprio popolo ad una ribellione armata contro l’occupazione cinese del Tibet: “I cinesi hanno già occupato il nostro territorio; non posso permettere loro di occupare anche la mia anima.”
(nota 2) Ovviamente perché queste risposte possano risultare efficaci occorre che esse vengano preparate bene e anzitempo, cioè in tempo di pace; né più e né meno di come gli eserciti si addestrano ad azioni militari di guerra, quando la guerra non c’è.
E che tutto il popolo (o almeno la gran parte di esso) vi partecipi: non solo i giovani, bene in salute e prevalentemente maschi, ma anche le donne, le persone con handicap fisici e gli anziani; per alcune azioni, perfino i bambini e i vecchi.
Sulle età della vita (parafrasando Schopenhauer)
Nella prima parte della vita abbiamo le forze, l’energia e perfino l’entusiasmo per realizzare le nostre aspirazioni e i nostri ideali, ma non abbiamo altrettanta esperienza.
Per cui commettiamo una quantità di errori – alcuni grossolani, altri molto ingenui – che spesso ci impediscono di realizzare quelle aspirazioni, quei desideri, quei progetti e quegli ideali.
Nella seconda parte della nostra vita, se siamo “bravi”, maturiamo l’esperienza che ci consentirebbe di evitare gli errori che abbiamo commesso nella sua prima parte, ma progressivamente ci vengono meno l’energia e le circostanze favorevoli per realizzare molti di quei desideri e di quelle aspirazioni che avevamo da giovani.
Come sarebbe bello (chi non l’ha mai desiderato?) poter riavvolgere la pellicola del nostro film: tornare non solo giovani (cosa che ci farebbe commettere gli stessi errori già compiuti negli anni trascorsi), ma con l’esperienza che abbiamo maturato da anziani!
Sappiamo fin troppo bene, però, che questo desiderio, purtroppo, è contro natura: destinato a rimanere, quindi, un sogno irrealizzabile.
© Giovanni Lamagna
Due tipi di anziani
La terza età non è la stessa, inesorabilmente uguale per tutti: vi si può arrivare in due modi molto diversi e distanti tra di loro. Per cui possiamo parlare a buon ragione di due tipi di anziani.
L’uomo o la donna giunti alla terza età (una volta per terza età si intendeva quella che incominciava dopo la soglia dei 50 anni; oggi questa soglia – considerate le migliorate condizioni di vita e, quindi, di salute della popolazione e il conseguente allungamento della vita media – la si può situare anche dopo i 60 anni) tendono a irrigidirsi non solo nel corpo e quindi nei movimenti, come è fisiologico che accada, ma anche nei modi di sentire, di pensare e nei comportamenti, nei modi di essere, che ne conseguono.
L’uomo anziano, in genere, è schiavo delle sue abitudini; poco aperto alle novità, anzi tendenzialmente chiuso, giudicante: non solo verso le nuove mode (cosa che per certi aspetti sarebbe addirittura un dato positivo), ma anche nei confronti delle ovvie e naturali evoluzioni scientifiche, tecniche, economiche, sociali, culturali, politiche (e questo non sempre è positivo, anzi – a dire il vero – non lo è quasi mai).
Non a caso frasi tipiche pronunciate dagli anziani sono: “Ai miei tempi queste cose non si vedevano, non succedevano…”, “bei tempi andati!”.
Insomma, l’uomo anziano nella maggioranza dei casi ha lo sguardo rivolto all’indietro, verso il passato, e il sentimento che lo domina è quello della nostalgia, accompagnata spesso da un cinico disincanto, se non da una vera e propria mancanza di fiducia verso il futuro e verso le generazioni che vengono dopo di lui.
E tuttavia questo, anche se molto frequente, non è affatto l’esito scontato e inevitabile della evoluzione (o, meglio, involuzione) psicologica dell’uomo anziano.
Ci sono, infatti, uomini anziani (anche molto anziani) che restano vigili e aperti di fronte alle novità, che ancora si incuriosiscono e vogliono apprendere e imparare. Che non disprezzano i giovani e meno che mai le persone di mezza età, ma amano confrontarsi con loro, non per sposarne acriticamente i modi di pensare e i comportamenti, ma per in alcuni casi continuare a testimoniare i propri, in altri arrivare invece a metterli in discussione e, perfino, rivederli.
Questi anziani, proprio perché ben consapevoli della fragilità fisica ma anche emotiva e psicologica in senso lato della loro età, anziché difendersi, irrigidendosi nella nostalgia del tempo che fu, nella difesa di idee e scelte passate, con l’avanzare dell’età, si ammorbidiscono e sono aperti a mediazioni e compromessi ai quali da giovani non erano neanche lontanamente disponibili.
Sono capaci pertanto di aprirsi a visioni del mondo che sarebbero state inconcepibili per loro quando erano giovani e che in alcuni casi lo sono perfino per quelli molto più giovani di loro.
Ad esempio, divengono molto più tolleranti ed aperti sulle questioni dell’amore e, perfino, del sesso. Sono ben consapevoli che per loro si è esaurita la stagione dell’amore romantico, unico ed eterno, ed in fondo non ne hanno manco così tanta nostalgia, perché sono adesso in grado di vederne tutti i limiti, le ingenuità, gli aspetti perfino un po’ patetici e ridicoli.
Si aprono allora magari ad una visione più promiscua e comunitaria dei rapporti tra i sessi, in cui prevale meno il senso del possesso e più quello della condivisione, dell’amicizia più che della sessualità in senso stretto, anche se questi rapporti non escludono né la sessualità né, tantomeno, l’erotismo.
Insomma questi anziani sono capaci, forse ancora più di quando erano giovani e perfino più di tanti giovani di oggi, di aprirsi ad una visione giocosa e allegra dell’esistenza, ben lontana da quella cupa e a volte addirittura lugubre che spesso affligge la vita degli anziani del primo tipo, quelli che ho provato a descrivere all’inizio.
Anziani che sono restati o tornano ad essere, con l’avanzare degli anni, un po’ bambini o fanciulli, ma nel senso positivo e non regressivo del termine: capaci di stupirsi, gioire e divertirsi ancora, senza per questo scadere nell’incoscienza, nell’imprudenza, nella impulsività o mancanza di discernimento che caratterizza i bambini e i fanciulli.
Allievo e maestro.
Ogni maestro è stato a suo tempo allievo; ha avuto quindi bisogno di un maestro.
Non c’è sapienza che non sia figlia di un qualche insegnamento.
Anche se ogni buon allievo elabora e trasforma l’insegnamento del suo maestro.
Nessun buon allievo trasmette a sua volta gli insegnamenti ricevuti senza averli in qualche modo rielaborati e trasformati.
Nessun buon allievo è uguale al suo maestro.
Ogni buon allievo ha avuto bisogno, ad un certo punto, di “uccidere” il suo maestro.
La sequela di “insegnamento/apprendimento/nuovo insegnamento” presuppone, però, che l’allievo rispetti profondamente il maestro, anche quando lo supera, anche quando lo “tradisce”.
Il “tradimento” dell’allievo nei confronti del maestro è un “andare oltre” gli insegnamenti del maestro. Non è mai una negazione assoluta e radicale del maestro e dei suoi insegnamenti.
Le generazioni più giovani hanno (o dovrebbero avere) quindi un profondo rispetto verso le generazioni più anziane.
Anche quando prendono strade del tutto diverse, come è avvenuto in alcuni passaggi particolarmente significativi della Storia (ad esempio, nel 1968).
Oggi (a dire il vero, già da qualche decennio) questo rispetto tende a venir meno. Anzi, forse, è già del tutto venuto meno. Non è più considerato un valore, anzi è oggi considerato quasi un disvalore.
In nome di un progresso che tende non solo a superare, ma a cancellare il passato, prevale, si è affermato, il concetto di “rottamazione”.
Per cui l’allievo non vede l’ora di sostituire il maestro, di prenderne il posto.
Gli anziani (per non parlare dei vecchi) vengono considerati inutili, da buttare, da “rottamare” (appunto!).
Anche se poi, paradossalmente, il sistema economico pretende che essi continuino a lavorare fino ad un’età ogni anno più avanzata.
Gli anziani non sono più considerati buoni a trasmettere conoscenze e saggezza. Sono considerati buoni, invece, per produrre dal punto di vista economico-materiale.
Tutto il contrario di quello che avveniva in passato.
E (a me pare) tutto il contrario di quello che ha previsto la natura, cioè la fisiologia e la psicologia del singolo uomo, dei piccoli gruppi, ma anche dei grandi gruppi che sono le società umane.
“In natura non fit salta”.
Giovanni Lamagna