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Femmine, maschi, tenerezza, eros e sesso.

La mia esperienza mi porta a dire che le femmine (almeno la maggior parte delle femmine) tendono a ridurre (se non da subito, prima o poi, col tempo) il loro rapporto col maschio alla dimensione della tenerezza, trascurando o limitando fortemente quella dell’eros.

Col rischio di mettere in crisi non solo la dimensione dell’eros ma anche quella della tenerezza nel rapporto con il maschio.

Il quale, invece, dell’eros ha bisogno per essere anche tenero.

Senza eros tende, infatti, a diventare aggressivo nei confronti della femmina.

Il maschio dà, per contro, l’impressione alla femmina di ricercare solo l’eros, anzi solo il sesso, nel rapporto con lei.

Ma, il più delle volte, tranne rari casi di veri assatanati sessuali, di sessuomani, malati di sesso, è un’impressione sbagliata.

Non è affatto vero che il maschio ricerchi solo l’eros nel rapporto con la femmina.

La maggior parte dei maschi desidera entrambe le cose: l’eros e la tenerezza; l’eros accompagnato dalla tenerezza e la tenerezza accompagnato dall’eros.

Anche se li ricerca, molto spesso, in maniera maldestra, per cui effettivamente dà l’impressione di ricercare solo l’eros, anzi solo il sesso, senza tenerezza.

Ma è solo un’impressione, perché in realtà il maschio, in cuor suo, ricerca sia la tenerezza che l’eros e il sesso.

E, però, quando trova solo la tenerezza, senza l’eros, molte volte si va a cercare l’eros da un’altra parte, da un’altra femmina.

Nella speranza – che il più delle volte si rivela illusoria – di trovare, nella stessa femmina, tenerezza ed erotismo insieme.

Premesso, dunque, che i maschi desiderano dalle femmine sia tenerezza che erotismo, oltre che sesso, bisogna riconoscere che spesso, molto spesso, non sanno dare né tenerezza né erotismo.

Sono capaci di dare solo un povero sesso, né tenero né, tantomeno, erotico.

Ovviamente le femmine finiscono per esserne (ed a ragione) gravemente insoddisfatte.

Per cui non solo non danno erotismo e sesso, ma ritirano anche la tenerezza (verso la quale inizialmente propendevano) e tendono a diventare, a loro volta, aggressive.

In altre parole il rapporto tra maschi e femmine è viziato da sempre, dai primordi della storia umana, da profondi equivoci e malintesi, che lo rendono complicato, oltre che complesso.

Ecco perché così spesso, passata la luna di miele iniziale, persino quando è stata appassionata e travolgente, il rapporto tra un maschio e una femmina finisce miseramente nelle secche del disincanto e della incomunicabilità.

© Giovanni Lamagna

Freud: la varietà del mondo umano e della vita della psiche.

Freud introduce “Il disagio della civiltà” (1929) con queste parole: “Non ci si può sottrarre all’impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli altri, ma sottovalutino i veri valori della vita.

Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio di questo tipo, si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo umano e della vita della psiche.

Vi sono taluni uomini a cui i contemporanei non negano l’ammirazione benché la loro grandezza poggi su doti e realizzazioni che sono completamente estranei agli scopi e agli ideali della massa.

Potremmo facilmente essere indotti a credere che solo una minoranza, alla fin fine, apprezza questi grandi uomini, mentre la gran maggioranza non se ne cura affatto.

Ma la cosa potrebbe non risultare così semplice, grazie alle discrepanze tra i pensieri e le azioni degli uomini e alla diversità dei desideri che li muovono.” (1)

In questo passo Freud fa delle affermazioni che potrebbero apparire scontate, ma che fatte da lui, senza alcun dubbio “uomo del disincanto”, tendente decisamente al pessimismo, se non proprio al relativismo etico, acquistano un peso particolare.

E per questo vorrei provare a metterle in evidenza, punto per punto, con parole mie.

Gli uomini tendono a dare valore a cose che non lo meritano (potere, successo, ricchezza…) ed a sottovalutare i veri valori della vita.

Se ne deve dedurre che anche per Freud non solo esistono valori veri e valori falsi, ma che i veri valori della vita per lui non sono certo il potere, il successo o la ricchezza.

Affermazione questa che, fatta da un campione del disincanto e del principio di realtà qual era indubitabilmente Freud, è per me di straordinaria (e addirittura sorprendente) importanza.

Di conseguenza, in base alla prima affermazione, gli uomini (o, meglio, la gran parte di essi) per Freud tendono a invidiare e ad emulare coloro che nella vita hanno ottenuto potere, successo, ricchezza, fama…

E, però, – Freud si premura di aggiungere – non tutti gli uomini hanno lo stesso sistema di valori e lo stesso metro di giudizio; il mondo umano è articolato, non può essere ridotto ad un ammasso informe, perché diverse e molto varie sono le storie psichiche dei diversi individui.

Succede allora che vi sono uomini i quali vengono ammirati e perfino esaltati, pur avendo e perseguendo valori che sono molto difformi da quelli della massa, cioè della gran parte degli uomini.

Qui il pensiero va spontaneamente a personaggi della storia quali Francesco d’Assisi, Gandhi, madre Teresa di Calcutta, per fare solo tre esempi; e non si può non dare ragione a Freud.

Si potrebbe, a questo punto, supporre che solo una minoranza apprezzi questo tipo di uomini, che sfuggono al modo di pensare e di vivere della maggioranza: la minoranza che si riconosce in un sistema di valori difforme da quello della maggioranza, della massa.

Ma anche questo non è del tutto vero, sembra dire Freud; perché ci sono moltissimi uomini che vivono secondo il modo di essere della massa, perseguono cioè potere, successo e ricchezza, eppure ammirano coloro che si distaccano da questo modo di vivere.

La gran parte degli uomini vivono una vita mediocre dal punto di vista dei valori etici, alcuni addirittura vivono nel vizio e nella degradazione morale, eppure ammirano coloro che vivono nella virtù e si distinguono dalla massa.

Ci sono, in altre parole, moltissimi uomini che apprezzano determinati valori – incarnati da determinati uomini eccezionali, nel senso che fanno eccezione, si distinguono dalla massa, non seguono il modo di pensare e di vivere comune – e però poi si comportano in maniera opposta ai valori che pur dicono di apprezzare, vivono cioè seguendo il gregge, la corrente.

Io sono completamente d’accordo con questa descrizione delle varie tipologie umane fatta da Freud.

Anzi ne sono grandemente ammirato, per l’articolazione, l’acutezza e la profonda capacità di leggere la realtà umana.

© Giovanni Lamagna

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  • da “Freud; Il disagio della civiltà e altri saggi”; 2012, Bollati Boringhieri editore; pag.199

Due tipi di anziani

La terza età non è la stessa, inesorabilmente uguale per tutti: vi si può arrivare in due modi molto diversi e distanti tra di loro. Per cui possiamo parlare a buon ragione di due tipi di anziani.

L’uomo o la donna giunti alla terza età (una volta per terza età si intendeva quella che incominciava dopo la soglia dei 50 anni; oggi questa soglia – considerate le migliorate condizioni di vita e, quindi, di salute della popolazione e il conseguente allungamento della vita media – la si può situare anche dopo i 60 anni) tendono a irrigidirsi non solo nel corpo e quindi nei movimenti, come è fisiologico che accada, ma anche nei modi di sentire, di pensare e nei comportamenti, nei modi di essere, che ne conseguono.

L’uomo anziano, in genere, è schiavo delle sue abitudini; poco aperto alle novità, anzi tendenzialmente chiuso, giudicante: non solo verso le nuove mode (cosa che per certi aspetti sarebbe addirittura un dato positivo), ma anche nei confronti delle ovvie e naturali evoluzioni scientifiche, tecniche, economiche, sociali, culturali, politiche (e questo non sempre è positivo, anzi – a dire il vero – non lo è quasi mai).

Non a caso frasi tipiche pronunciate dagli anziani sono: “Ai miei tempi queste cose non si vedevano, non succedevano…”, “bei tempi andati!”.

Insomma, l’uomo anziano nella maggioranza dei casi ha lo sguardo rivolto all’indietro, verso il passato, e il sentimento che lo domina è quello della nostalgia, accompagnata spesso da un cinico disincanto, se non da una vera e propria mancanza di fiducia verso il futuro e verso le generazioni che vengono dopo di lui.

E tuttavia questo, anche se molto frequente, non è affatto l’esito scontato e inevitabile della evoluzione (o, meglio, involuzione) psicologica dell’uomo anziano.

Ci sono, infatti, uomini anziani (anche molto anziani) che restano vigili e aperti di fronte alle novità, che ancora si incuriosiscono e vogliono apprendere e imparare. Che non disprezzano i giovani e meno che mai le persone di mezza età, ma amano confrontarsi con loro, non per sposarne acriticamente i modi di pensare e i comportamenti, ma per in alcuni casi continuare a testimoniare i propri, in altri arrivare invece a metterli in discussione e, perfino, rivederli.

Questi anziani, proprio perché ben consapevoli della fragilità fisica ma anche emotiva e psicologica in senso lato della loro età, anziché difendersi, irrigidendosi nella nostalgia del tempo che fu, nella difesa di idee e scelte passate, con l’avanzare dell’età, si ammorbidiscono e sono aperti a mediazioni e compromessi ai quali da giovani non erano neanche lontanamente disponibili.

Sono capaci pertanto di aprirsi a visioni del mondo che sarebbero state inconcepibili per loro quando erano giovani e che in alcuni casi lo sono perfino per quelli molto più giovani di loro.

Ad esempio, divengono molto più tolleranti ed aperti sulle questioni dell’amore e, perfino, del sesso. Sono ben consapevoli che per loro si è esaurita la stagione dell’amore romantico, unico ed eterno, ed in fondo non ne hanno manco così tanta nostalgia, perché sono adesso in grado di vederne tutti i limiti, le ingenuità, gli aspetti perfino un po’ patetici e ridicoli.

Si aprono allora magari ad una visione più promiscua e comunitaria dei rapporti tra i sessi, in cui prevale meno il senso del possesso e più quello della condivisione, dell’amicizia più che della sessualità in senso stretto, anche se questi rapporti non escludono né la sessualità né, tantomeno, l’erotismo.

Insomma questi anziani sono capaci, forse ancora più di quando erano giovani e perfino più di tanti giovani di oggi, di aprirsi ad una visione giocosa e allegra dell’esistenza, ben lontana da quella cupa e a volte addirittura lugubre che spesso affligge la vita degli anziani del primo tipo, quelli che ho provato a descrivere all’inizio.

Anziani che sono restati o tornano ad essere, con l’avanzare degli anni, un po’ bambini o fanciulli, ma nel senso positivo e non regressivo del termine: capaci di stupirsi, gioire e divertirsi ancora, senza per questo scadere nell’incoscienza, nell’imprudenza, nella impulsività o mancanza di discernimento che caratterizza i bambini e i fanciulli.

Si può essere non comunisti, non più giovani e vivere ugualmente ideali ed emozioni forti?

Nel suo bel libro “Soli eravamo…” (2014; editore: ad est dell’equatore)), Fabrizio Coscia nel capitolo intitolato “il giorno che diventai comunista” così scrive (pag. 162-163):

Ai tempi del liceo mi consideravo a tutti gli effetti un postsessantottino, benché nel ’68 avessi solo un anno. Ma tant’è. Erano sottigliezze anagrafiche a cui non badavo. Ho votato per Democrazia Proletaria e continuato a studiare Marx per qualche anno. Simpatizzavo per l’Olp e le Black Panthers, mi piaceva Dario Fo, ascoltavo “La locomotiva” di Guccini”, leggevo “Le ceneri di Gramsci” di Pasolini e divenni un fanatico di Bertolt Brecht.

Per poi proseguire con una domanda:

Oggi che non sono più comunista, mi chiedo come abbia fatto, in quegli anni, a sopportare tanta retorica ideologica, uscendone più o meno indenne.

E darsi la seguente risposta:

Sarà che ero giovane, e che forse comunisti davvero, con tutto l’ardore e la passione dell’idea comunista lo si può essere soltanto da giovani.

E subito dopo:

Però non capisco perché, oggi, nonostante non sia più comunista e non abbia più vent’anni, le immagini dei caccia che bombardano il Palacio de la Moneda, l’11 settembre 1973 a Santiago del Cile, e quelle di Salvador Allende assediato che si difende con l’elmetto e il fucile mitragliatore regalatogli da Fidel Castro suscitano in me una grande emozione. Così come il “sorriso aperto” di Victor Jara e il canto popolare di Violeta Parra. O come “El pueblo unido jamas serà vencido”, quando lo canto in macchina, ancora adesso, insieme a mia figlia.

E darsi la seguente spiegazione:

Magari sarà solo nostalgia dei tempi andati, oppure il rimpianto di qualcosa, in quell’idea meravigliosamente utopistica, che poteva andare in maniera molto diversa da come poi è andata.

Queste parole di Fabrizio Coscia mi hanno particolarmente colpito per almeno due motivi che vorrei qui di seguito illustrare.

Il primo motivo è che io (al contrario di Fabrizio Coscia) non sono mai diventato e stato comunista, perché non ho mai condiviso (manco da giovane) l’idea che per realizzare la piena eguaglianza sociale bisognasse instaurare una dittatura, fosse anche quella del proletariato.

Non sono mai diventato e stato comunista, pur avendo molto amato le canzoni degli Inti-illimani (tra le quali, ovviamente, “El pueblo unido…”) e quelle di Violeta Parra. Pur avendo conosciuto e apprezzato molto il pensiero di Carl Marx (che considero uno dei massimi pensatori economico-sociali della storia). Pur avendo votato sempre a sinistra (prima il PCI di Enrico Berlinguer, poi il Pdup di Lucio Magri, poi – a varie riprese – Rifondazione Comunista…). Pur avendo amato molto Dario Fo e Pier Paolo Pasolini, meno le canzoni di Guccini (che giudico deboli e noiose musicalmente per i miei gusti) e le opere di Brecht (che però – confesso la mia ignoranza– conosco ben poco).

Il secondo è che ho vissuto le vicende del Cile di Allende quando ero un uomo già adulto, non più giovanissimo e meno che mai un ragazzino (come era invece in quegli anni Fabrizio Coscia). Le ho vissute, quindi, intensamente; e non solo con grande partecipazione emotiva ma anche con grande consapevolezza politica.

Ricordo benissimo, dunque, che Allende non era affatto comunista, bensì un socialista democratico e, tuttavia, pienamente conseguente con le sue idee: voleva cioè realizzare il socialismo in maniera pacifica e non violenta, attraverso riforme democraticamente approvate in Parlamento (a cominciare dalla sacrosanta nazionalizzazione delle miniere di rame, prima in mano alle multinazionali); e in questo modo scatenò la reazione dei “democraticissimi” Stati Uniti d’America.

Questi due dati di fatto (anagrafici, anzi biografici) hanno quindi stimolato in me le riflessioni che seguono:

1. Si può essere giovani senza per questo sentire il bisogno di diventare comunisti, senza dunque per forza di cose diventare vittime della “retorica ideologica” che il Coscia diventato adulto giudica oramai insopportabile.

2. Non è necessario essere giovani per coltivare degli ideali e, persino, delle utopie. Gli ideali senz’altro, ma forse anche le utopie, possono entrare a far parte a pieno titolo dei bagagli che una persona si può portare appresso anche in età adulta e perfino da anziano: non sta scritto da nessuna parte che la maturità e persino la vecchiaia debbano essere fatalmente le età del disincanto e delle amare disillusioni, madri e padri del cinismo, se non della disperazione.

3. Quelli che cadono in età adulta (ed è giusto sia così) sono i falsi ideali e le utopie senza nessun contatto con la realtà. Non è destino, invece, che debbano tramontare gli ideali e persino le utopie che hanno un fondamento nella realtà, cioè nella universale esigenza umana di libertà, uguaglianza, fratellanza, ideali che saranno pure utopici, ma che, come dice bene Galeano, hanno la funzione ben reale di aiutare gli uomini a camminare sulla strada del progresso sociale e civile.

4. Non c’è quindi alcuna contraddizione tra l’essere diventati oramai persone mature o (come nel mio caso) addirittura anziane e continuare a provare emozioni ancora molto forti al ricordo dei fatti cileni del 1973 o ascoltando le canzoni di Violeta Parra e degli Inti-illimani.

Anzi continuare a provarle in tarda età è segno di buona salute psicologica.

Queste emozioni (almeno nel mio caso) non possono essere ridotte dunque (come pensa di sé Fabrizio Coscia) alla nostalgia o al rimpianto per i bei tempi andati. Perché affondano le radici in ideali e convinzioni che sono ancora in me ben presenti, vive e vitali, niente affatto tramontate.

© Giovanni Lamagna

La consapevolezza della morte.

La consapevolezza della morte.

Essere consapevoli della realtà della morte non equivale a “sapere” semplicemente, cioè intellettualmente, che la morte esiste.

Il concetto di morte è un prerequisito ovvio di questa consapevolezza, ma questa non si riduce a quello.

Se io so (intellettualmente) che la morte esiste, che prima o poi verrà a prendere anche me, ma poi questo sapere non influenza in nulla di significativo il corso della mia vita, allora l’idea della morte non è per me vera consapevolezza della morte.

E’ un concetto come un altro. Come quello di quadrato. Come quello di “due più due fanno quattro”. Ma non è un concetto che ha una ricaduta esistenziale nella mia vita.

Il concetto di morte diventa per me vera, reale consapevolezza della morte quando si traduce in senso vissuto della mia finitudine, del mio essere limitato e mortale, non assoluto e non eterno.

Quando genera una sorta di disincanto rispetto ai miei piccoli (o grandi) deliri di onnipotenza, rispetto al possesso delle cose (che, prima o poi, dovrò lasciare), rispetto agli attaccamenti alle persone (che pure, prima o poi, dovrò lasciare o loro lasceranno me).

Quando si trasforma cioè in scelte, comportamenti, stili di vita coerenti con questa consapevolezza.

Quando, in buona sostanza, il desiderio, pur vivo, non è un’ossessione, non è cioè dipendenza dagli oggetti del desiderio.

Altresì la consapevolezza della morte non equivale affatto ad essere dominati dalla cupa angoscia e dal terrore paralizzanti della morte.

Manco la morte è, infatti, un assoluto.

Farsi dominare dall’angoscia e dal terrore del suo incombere equivale, invece, a farne un assoluto. Come se la vita, la vita presente, quella nella quale pure siamo immersi, fosse un nulla, solo pura illusione.

La vita, invece, è una realtà come lo è la morte. Affermare l’una e negare l’altra (o viceversa) è una distorsione ottica e logica.

Bisogna dunque vivere la vita con il senso del limite, che ci deriva dalla consapevolezza dell’esistenza della morte.

Ma, allo stesso tempo, non bisogna diventare mortiferi, anticipare in sé la morte, vivere da morti, come se la vita non avesse altrettanta realtà della morte.

Dobbiamo insomma impedire che la morte ci prenda (e domini la nostra vita psichica) ben prima del giorno che il destino le consegni la nostra vita fisica.

Avere consapevolezza della morte non equivale perciò a morire psichicamente prima di morire fisicamente.

Perché anzi la vera e sana consapevolezza della morte acuisce il desiderio di vivere, nel senso che ci dà maggiormente il senso del tempo che passa e quindi del suo valore, della necessità di non sprecarlo, ma di utilizzarlo bene.

La vera e sana consapevolezza della morte aiuta, può aiutare a vivere.

Vivere con l’incubo della morte, farsi dominare mentalmente dalla sua idea, invece, ci uccide psicologicamente e può addirittura anticipare i tempi della nostra morte fisica.

Giovanni Lamagna

Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.

Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.

“La femmina nuda”, l’ultimo romanzo di Elena Stancanelli, è il racconto di una grande, profonda, prolungata ossessione.

L’ossessione di una donna, di nome Anna, abbandonata dal suo uomo, Davide, dopo cinque anni di un amore vissuto tra alti e bassi.

Ossessione che si manifesta nell’incapacità di Anna di farsene una ragione, nella perdita di ogni motivazione significativa a vivere, nella forma di anoressia che la porta in breve tempo a perdere chili su chili di peso, ma soprattutto nel rancore profondo, acuto, acido, malato, verso colei, Cane, che Anna (come – quasi – tutti gli innamorati abbandonati) ritiene la causa (unica) della fine del suo amore. Cane è, infatti, la nuova donna del “suo” Davide.

Dal momento in cui Anna scopre l’esistenza di Cane inizia la ricerca ossessiva di questa donna. Prima virtuale, attraverso i telefonini, le pagine facebook e le email. Poi reale, con appostamenti (giornalieri e notturni), pedinamenti e, infine, incontri veri e propri, provocati a insaputa della “vittima” e del nuovo amante di lei, Davide.

Il romanzo si conclude con una scena madre finale, in cui si scatena, esplode tutto l’odio viscerale e accumulato nel tempo della protagonista nei confronti della sua inconsapevole rivale. In questo modo Anna finalmente si libera dall’ossessione che si è impossessata di lei per svariati mesi.

Non si capisce bene però dalle parole finali della protagonista (che per tutto il romanzo – sia detto per inciso – racconta le sue storie alla sua amica più intima), come si conclude questa vicenda emotiva.

Anna si libera, certamente e finalmente, dalla ossessione in cui era precipitata. Ma sembra cadere (almeno questo io ho capito) in una specie di cinismo e di disincanto nei confronti di tutti i rapporti.

A parole scrive: “Adesso mi piacciono tutti… Ho una grande pietà e rispetto per i corpi… tutti i corpi, compreso il mio, mi ispirano una grande tenerezza.”

In realtà l’impressione (ma neanche solo l’impressione) è che lei non sia più disposta ad innamorarsi e ad amare più veramente qualcuno.

Fa l’amore un po’ con tutti, senza andare troppo per il sottile, belli e brutti(ni), uomini e donne. Ma di “innamoramenti e amori” non vuole occuparsi più.

Il racconto quindi si conclude in maniera alquanto amara e triste, come del resto triste, pesante, era stato il tono complessivo e prevalente di tutta la vicenda narrata.

Non è un bel romanzo questo ultimo della Stancanelli. E’ scritto, sì, abbastanza bene, si legge in scioltezza. Ma non se ne coglie la “necessità interiore”.

Colpisce abbastanza il linguaggio disinibito, crudo, perfino sboccato, con cui l’autrice descrive parti anatomiche, organi e desideri sessuali maschili e femminili, come se volesse dimostrare che lei ha superato (pur essendo una donna) le inibizioni classiche. Ma questo francamente non risulta più essere una grande novità di questi tempi. Molte scrittrici e da tempo l’hanno preceduta in una simile performance.

La storia inoltre non ha una sua vera originalità. Ricalca lo stereotipo delle dipendenze affettive classiche, tipiche, soprattutto femminili, Con in più un qualcosa che la rende poco credibile.

Anna si capisce è una professionista piuttosto affermata, abbastanza colta e piuttosto benestante.

Davide, l’uomo di cui lei è invaghita, è un meccanico di auto, viene da immaginare piuttosto rozzo e volgare, di quelli muscolosi e dongiovanni, che ci provano con tutte, pronti e desiderosi solo di scopate rapide e senza coinvolgimenti emotivi, con i manifesti delle donnine di Playboy attaccati alle pareti dell’officina.

Viene da chiedersi: può una donna come Anna perdere la testa, fino alla dipendenza e all’ossessione, per un uomo simile?

Se, infine, la storia ha voluto descrivere la tristezza e lo squallore di un certo mondo romano, frequentatore di locali, dove si beve champagne a fiumi e si sniffa cocaina in gran quantità, dove si rimorchia e si scopa solo per esorcizzare la noia, ci è riuscita abbastanza bene.

L’esito finale per il lettore è, però, un certo disgusto, simile proprio a quello che deve aver provato Cane nelle pagine finali, quando si vomita continuamente addosso, ubriaca e strafatta.

Giovanni Lamagna