Archivi Blog

Si può essere non comunisti, non più giovani e vivere ugualmente ideali ed emozioni forti?

Nel suo bel libro “Soli eravamo…” (2014; editore: ad est dell’equatore)), Fabrizio Coscia nel capitolo intitolato “il giorno che diventai comunista” così scrive (pag. 162-163):

Ai tempi del liceo mi consideravo a tutti gli effetti un postsessantottino, benché nel ’68 avessi solo un anno. Ma tant’è. Erano sottigliezze anagrafiche a cui non badavo. Ho votato per Democrazia Proletaria e continuato a studiare Marx per qualche anno. Simpatizzavo per l’Olp e le Black Panthers, mi piaceva Dario Fo, ascoltavo “La locomotiva” di Guccini”, leggevo “Le ceneri di Gramsci” di Pasolini e divenni un fanatico di Bertolt Brecht.

Per poi proseguire con una domanda:

Oggi che non sono più comunista, mi chiedo come abbia fatto, in quegli anni, a sopportare tanta retorica ideologica, uscendone più o meno indenne.

E darsi la seguente risposta:

Sarà che ero giovane, e che forse comunisti davvero, con tutto l’ardore e la passione dell’idea comunista lo si può essere soltanto da giovani.

E subito dopo:

Però non capisco perché, oggi, nonostante non sia più comunista e non abbia più vent’anni, le immagini dei caccia che bombardano il Palacio de la Moneda, l’11 settembre 1973 a Santiago del Cile, e quelle di Salvador Allende assediato che si difende con l’elmetto e il fucile mitragliatore regalatogli da Fidel Castro suscitano in me una grande emozione. Così come il “sorriso aperto” di Victor Jara e il canto popolare di Violeta Parra. O come “El pueblo unido jamas serà vencido”, quando lo canto in macchina, ancora adesso, insieme a mia figlia.

E darsi la seguente spiegazione:

Magari sarà solo nostalgia dei tempi andati, oppure il rimpianto di qualcosa, in quell’idea meravigliosamente utopistica, che poteva andare in maniera molto diversa da come poi è andata.

Queste parole di Fabrizio Coscia mi hanno particolarmente colpito per almeno due motivi che vorrei qui di seguito illustrare.

Il primo motivo è che io (al contrario di Fabrizio Coscia) non sono mai diventato e stato comunista, perché non ho mai condiviso (manco da giovane) l’idea che per realizzare la piena eguaglianza sociale bisognasse instaurare una dittatura, fosse anche quella del proletariato.

Non sono mai diventato e stato comunista, pur avendo molto amato le canzoni degli Inti-illimani (tra le quali, ovviamente, “El pueblo unido…”) e quelle di Violeta Parra. Pur avendo conosciuto e apprezzato molto il pensiero di Carl Marx (che considero uno dei massimi pensatori economico-sociali della storia). Pur avendo votato sempre a sinistra (prima il PCI di Enrico Berlinguer, poi il Pdup di Lucio Magri, poi – a varie riprese – Rifondazione Comunista…). Pur avendo amato molto Dario Fo e Pier Paolo Pasolini, meno le canzoni di Guccini (che giudico deboli e noiose musicalmente per i miei gusti) e le opere di Brecht (che però – confesso la mia ignoranza– conosco ben poco).

Il secondo è che ho vissuto le vicende del Cile di Allende quando ero un uomo già adulto, non più giovanissimo e meno che mai un ragazzino (come era invece in quegli anni Fabrizio Coscia). Le ho vissute, quindi, intensamente; e non solo con grande partecipazione emotiva ma anche con grande consapevolezza politica.

Ricordo benissimo, dunque, che Allende non era affatto comunista, bensì un socialista democratico e, tuttavia, pienamente conseguente con le sue idee: voleva cioè realizzare il socialismo in maniera pacifica e non violenta, attraverso riforme democraticamente approvate in Parlamento (a cominciare dalla sacrosanta nazionalizzazione delle miniere di rame, prima in mano alle multinazionali); e in questo modo scatenò la reazione dei “democraticissimi” Stati Uniti d’America.

Questi due dati di fatto (anagrafici, anzi biografici) hanno quindi stimolato in me le riflessioni che seguono:

1. Si può essere giovani senza per questo sentire il bisogno di diventare comunisti, senza dunque per forza di cose diventare vittime della “retorica ideologica” che il Coscia diventato adulto giudica oramai insopportabile.

2. Non è necessario essere giovani per coltivare degli ideali e, persino, delle utopie. Gli ideali senz’altro, ma forse anche le utopie, possono entrare a far parte a pieno titolo dei bagagli che una persona si può portare appresso anche in età adulta e perfino da anziano: non sta scritto da nessuna parte che la maturità e persino la vecchiaia debbano essere fatalmente le età del disincanto e delle amare disillusioni, madri e padri del cinismo, se non della disperazione.

3. Quelli che cadono in età adulta (ed è giusto sia così) sono i falsi ideali e le utopie senza nessun contatto con la realtà. Non è destino, invece, che debbano tramontare gli ideali e persino le utopie che hanno un fondamento nella realtà, cioè nella universale esigenza umana di libertà, uguaglianza, fratellanza, ideali che saranno pure utopici, ma che, come dice bene Galeano, hanno la funzione ben reale di aiutare gli uomini a camminare sulla strada del progresso sociale e civile.

4. Non c’è quindi alcuna contraddizione tra l’essere diventati oramai persone mature o (come nel mio caso) addirittura anziane e continuare a provare emozioni ancora molto forti al ricordo dei fatti cileni del 1973 o ascoltando le canzoni di Violeta Parra e degli Inti-illimani.

Anzi continuare a provarle in tarda età è segno di buona salute psicologica.

Queste emozioni (almeno nel mio caso) non possono essere ridotte dunque (come pensa di sé Fabrizio Coscia) alla nostalgia o al rimpianto per i bei tempi andati. Perché affondano le radici in ideali e convinzioni che sono ancora in me ben presenti, vive e vitali, niente affatto tramontate.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “The place”.

Ho appena visto al cineforum un bel film, un film che mi è piaciuto molto E’ “The place”, uscito a novembre 2017, girato dal regista romano Paolo Genovese (anni 52, autore di altri lungometraggi, tra i quali quello che ricordo meglio e con più piacere è “Perfetti sconosciuti”).

Paolo Genovese è un regista fondamentalmente brillante, autore di commedie, che però non evita nei suoi film passaggi drammatici, che in alcuni casi sfociano in vera e propria tragedia. E’, insomma, un regista che vuole far divertire, i cui toni sono apparentemente leggeri, ma che allo stesso tempo intende far riflettere. E, a mio avviso, ci riesce molto bene.

Il cast di questo film annovera tra i migliori attori italiani di questi anni. In primis Valerio Mastandrea, l’assoluto, intenso, superbo, protagonista. E poi, a seguire, uno più bravo/a dell’altro/a: Marco Giallini, Alba Rohrwacher, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo, Silvio Muccino, Silvia D’Amico, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi, Sabrina Ferilli e Giulia Lazzarini.

Il film è tutto girato in un ristorante romano: “The place”, appunto. E’ un’opera, quindi molto statica, la cui “azione” (per modo di dire!) si svolge in un solo posto (l’allusione al nome del ristorante è evidente) e perciò ha bisogno di una sola scena, assomiglia per questo più ad un lavoro teatrale che cinematografico.

In cosa consiste la trama? Il film non ha una vera e propria trama. Descrive la giornata di un uomo di mezza età, piacente ma piuttosto malinconico, in buona salute ma allo stesso tempo stanco, come uno che si porta appresso un peso misterioso, piuttosto chiuso e poco comunicativo.

L’uomo in questione trascorre gran parte della sua giornata seduto ad un tavolo del ristorante (sempre lo stesso): ogni tanto sorseggia un caffè (si scola molti caffè al giorno), beve una bibita, mangia qualcosa. Ma soprattutto riceve persone (una alla volta, tranne nel caso di una coppia), che vanno da lui per manifestargli un desiderio e per riceverne un compito: se realizzeranno il compito, si realizzerà anche il loro desiderio.

E così il film ci racconta la girandola delle persone che vengono ricevute dall’uomo seduto al tavolo: uno va via ed un altro gli subentra, in una sequela interminabile, quasi parossistica, a tratti spassosa e divertente, a tratti dura e conflittuale.

Perché l’uomo (tra il santone, il mago e un confessore laico) ascolta impassibile, prende appunti su una vecchia e corposa agenda e, seguendo una specie di logica algoritmica, infine, lapidario, impartisce compiti e talvolta consigli.

Ma i clienti non sempre sono soddisfatti del compito ricevuto, che in genere è cinico e spietato (del tipo: fare una rapina, uccidere una bambina, violentare una donna, insabbiare una denuncia, mettere una bomba in un locale, perdere la propria verginità, tradire il marito…).

Come se il messaggio di fondo che l’uomo misterioso volesse passare ai suoi interlocutori fosse: “ mors tua, vita mea”; ovverossia: per realizzare un tuo desiderio occorre che paghi dei costi oppure bisogna farlo pagare a qualcun altro, fosse anche un estraneo.

Come se il mondo vivesse in un precario equilibrio omeostatico: per realizzare una situazione di benessere e di piacere in un posto e per qualcuno occorre sottrarlo o toglierlo da qualche altro posto o a qualcun altro: per far guarire tuo figlio da un cancro devi uccidere un’altra bambina, per far guarire tuo marito dall’alzheimer devi mettere una bomba e far morire decine di persone…

Una visione cinica del mondo che può apparire (ed è) perversa, ma che, se ci pensiamo bene, non è molto distante da quella che guida le azioni di molti uomini, se non della maggioranza di essi, compresi (forse) noi stessi.

La prima cosa che sorprende è che l’uomo viene preso sul serio, tremendamente sul serio da coloro che si rivolgono a lui, nonostante le resistenze e le ribellioni iniziali. A cosa può spingere la disperazione!

La seconda cosa sorprendente è che, come quando si ricostruisce un puzzle, le vicende di coloro che si rivolgono all’uomo seduto al tavolo un poco alla volta vengono a intrecciarsi, a ricomporsi, in certi casi pacificamente e armoniosamente, in altri attraverso conflitti irresolubili. Come appunto succede spesso nella vita.

La terza cosa che il film sembra suggerirci è che per conoscere il mondo in fondo non occorre poi viaggiare tanto. Basta stare fermi in un posto e rimanere aperti ad ascoltare gli uomini che ti girano attorno: il mondo viene lui da te.

E, infatti, alla fine il protagonista (Valerio Mastandrea) sembra stanco, molto stanco, come se venisse da un lungo viaggio, come se il suo “lavoro” fosse non quello di uno che sta sempre fermo allo stesso posto, ma quello di un commesso viaggiatore.

Allora, finalmente, cede alle lusinghe e alla corte gentile e amorevole della cameriera del ristorante (una brava Sabrina Ferilli), che da tempo gli gira attorno, un po’incuriosita dal suo mistero e un po’ innamorata.

L’uomo misterioso, infine, sembra scendere dal treno sul quale ha lungamente (e metaforicamente) viaggiato e si accasa. Finalmente si lascia andare ad un sorriso e sembra abbandonare il suo cinismo e il suo disincanto per sposare un po’ di amore.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Loro 1” di Paolo Sorrentino.

Ho appena visto la prima parte dell’ultimo film di Paolo Sorrentino “Loro”, liberamente ispirato alla vicenda umana e politica di Silvio Berlusconi.

Non posso dire che mi è piaciuto, non posso dire che è un bel film. Posso dire, però, che è un film che va visto, è un film che mi ha intrigato.

Questa prima parte dura 104 minuti. Lo dico, perché per un buon 90 minuti è rivoltante, provoca un sentimento di rigetto, ripugnanza, ripulsa. Negli ultimi 10/15 minuti, invece, sfiora addirittura la tenerezza e quasi commuove.

Il film è liberamente ispirato alla vita di Silvio Berlusconi: la scritta iniziale che precede l’avvio delle immagini ci tiene a evidenziarlo. Ma la sostanza della vicenda umana e politica di Berlusconi vi è perfettamente narrata nella sostanza.

“Tutto documentato. Tutto arbitrario”: ci dice Sorrentino, citando la frase di Manganelli.

Nel film viene descritto un Berlusconi (Toni Servillo) quasi pensionato. Che ha appena perso le redini del governo, conquistato dal centro sinistra. Ma resta, ovviamente, un uomo di grande potere economico e politico.

Circondato da uomini senza scrupoli, che lo venerano esteriormente, mentre cercano (almeno qualcuno ci prova) di fargli le scarpe ed assumerne l’eredità.

In ogni caso cercano di sfruttarne il potere e la ricchezza, per guadagnarne a loro volta.

In questa prima lunga parte del film fondamentale è il ruolo svolto dal personaggio interpretato da un grande Riccardo Scamarcio, Sergio Morra, uomo spregiudicato, che facendo leva sulle debolezze da vizioso erotomane del leader di Forza Italia si mette in testa di avvicinarlo per proporgli le visite di ragazze rampanti disposte a tutto pur di entrare nelle grazie del Silvio nazionale.

Questa prima parte del film è, dunque, molto giocata sull’intreccio sesso/potere. E mostra molto bene come il sesso possa essere utilizzato quale arma di seduzione e quindi di potere. E come il potere sia uno strumento a sua volta di seduzione, in grado di procurare sesso facile, anche se a prezzi (in denaro e favori) elevatissimi.

E’ la parte del film che, come dicevo prima, provoca disgusto e rigetto: sia di fronte al sistema di corruzione politica dilagante, sia di fronte al consumo di sesso orgiastico a fini di semplice utilizzo del potere, senza alcuna forma vera e disinteressata di relazione benché minima.

Per questo gli ultimi dieci minuti del film sfiorano la tenerezza. Perché vi si mostra un Berlusconi lontano dalle stanze del potere romano, in buen retiro in Sardegna, con la moglie e i nipoti, ai quali sembra sinceramente legato.

Per carità, è sempre il Berlusconi becero, incapace di condividere gli interessi culturali della moglie (Elena Sofia Ricci), accanita lettrice (di Saramago).

E’ il Berlusconi che ama le canzoni napoletane (non certo le migliori) cantate dal suo chansonier preferito Mariano Apicella (Giovanni Esposito).

E’ il Berlusconi che parlando con il nipote adolescente si manifesta in tutto il suo cinismo di uomo potente e spregiudicato. “La verità è frutto del tono e della convinzione con cui la affermiamo”: in sintesi è questo l’insegnamento che cerca di trasmettere come nonno al ragazzo.

E però è comunque un Berlusconi che, approfittando del periodo dorato delle vacanze e del bellissimo contesto naturale che lo circonda (la splendida villa in Sardegna), cerca di recuperare il rapporto in crisi con la moglie Veronica.

E sembra esserci quasi riuscito. C’è un momento in cui i due si allontanano dall’enorme yacht su cui sono ospiti e fanno una passeggiata da soli con una moto d’acqua. Questa ad un certo punto si blocca in mezzo al mare: i due restano abbracciati e ripensano ai momenti iniziali del loro primo incontro.

C’è una canzone che poco dopo fa da sottofondo musicale alla scena finale di Silvio e Veronica che si raccontano e sembrano aver recuperato un po’ dell’antica intimità perduta: Fabio Concato che canta “Una domenica bestiale”, la canzone che avevano ascoltato la prima volta che avevano ballato insieme e si erano dati un bacio.

In lontananza si vede Apicella che li guarda deluso e un po’ mortificato.

La scena sembra un po’ la metafora del rapporto ritrovato. Ma qui il film si interrompe.

Il seguito alla seconda parte, che uscirà tra pochi giorni.

In conclusione.

Che ha voluto dire Sorrentino con questo film? Da quale suo bisogno interiore esso è nato?

A me sembra che il film nasca dalla curiosità di indagare innanzitutto un personaggio (“Lui”, come viene chiamato dai suoi “devoti”), che, al di là del giudizio (umano e politico) che se ne possa avere (e quello del regista – si intuisce – non è affatto positivo e benevolo), ha indubbiamente avuto un ruolo importantissimo, anzi fondamentale nella storia economica, sociale, culturale e politica italiana (soprattutto) degli ultimi 25 anni. Un uomo, quindi, dotato di un indubbio (anche se ovviamente del tutto particolare) carisma.

Il film si propone poi di indagare (anzi all’inizio si propone di fare soprattutto questo) una parte della società italiana, profondamente amorale (la figura del faccendiere tarantino Sergio Morra e quella del ministro-poeta, interpretata mirabilmente da Fabrizio Bentivoglio, ne sono la metafora perfetta), disposta a tutto pur di conquistare potere e sesso (non si capisce bene se dando la precedenza al sesso o al potere): il sesso attraverso il potere e il potere attraverso il sesso.

Non a caso il film si intitola “Loro”. Loro sono tutti coloro che circondano Silvio Berlusconi, sono la sua corte, che non si capisce bene fino a che punto si rispecchiano in lui, si riconoscono in lui, vorrebbero essere come lui, e fino a che punto lo utilizzano, lo sfruttano e sono capaci e disposti anche a ingannarlo e tramare contro di lui, pur di raggiungere la sua stessa ricchezza, il suo stesso potere, la sua capacità di godimento (sessuale) sfrenato e senza limiti.

Il film nasce, dunque, a mio avviso dal bisogno-desiderio del regista (e dell’altro sceneggiatore Umberto Contarello) di raccontare la vicenda umana e politica di un personaggio, che è stata, però, (e, per certi versi, è ancora) l’autobiografia di un’intera nazione o, perlomeno, di una parte consistente di essa.

Anzi forse l’intento principale del regista è soprattutto quello di raccontare l’Italia di fine secolo XX e inizi secolo XXI. Come a dire: Berlusconi è la perfetta metafora dell’Italia di questo periodo storico. Non a caso (ripeto) il film si intitola “Loro” e non “Lui”, come ci si poteva aspettare, visto che il film è (apparentemente) incentrato sulla figura del Berlusca.

E’ riuscito Sorrentino a realizzare il suo intento? A giudicare questa prima parte del suo film (che non potrà essere valutato compiutamente senza aver visto anche la seconda parte, in uscita il 10 maggio prossimo), a mio avviso, c’è riuscito abbastanza. L’Italia che egli voleva descrivere è stata da lui guardata con una specie di lente di ingrandimento e con occhio spietato. E, a mio giudizio, ne esce a pezzi. Addirittura (forse) peggio del signore-mito nel quale essa si è rispecchiata in questi ultimi 25 anni. Particolare questo sul quale si potrà discutere e che si potrà anche non condividere: è, infatti, la parte del film più opinabile.

In ogni caso non mi pare ci siano state indulgenze da parte di Sorrentino né nei confronti dell’una né nei confronti dell’altro. Il giudizio implicito che se ne ricava è spietato e severo: basta guardare dentro di sé, ai sentimenti di rigetto, ripulsa e ripugnanza che il film provoca. Ma è, appunto, un giudizio implicito, espresso con eleganza e misura dall’autore, senza condanne moralistiche. Lo spettatore se lo forma, a sua volta, da solo, senza che nessuno (apparentemente) lo abbia guidato o indotto: l’autore si è semplicemente limitato a descrivere i fatti, la realtà (per quanto, in parte, ma solo molto in parte, elaborata e trasfigurata).

E’ riuscito il film dal punto di vista estetico? A mio avviso, sì. Sorrentino indubbiamente lo conduce con la solita grande padronanza tecnica. I contenuti non sono gradevoli, quindi il film non può piacere perché racconta una storia che piace. Ma sono raccontati con grande realismo e quindi in maniera che a me è risultata efficace. Alla fine il risultato comunicativo che Sorrentino voleva raggiungere è stato raggiunto. E in un prodotto artistico questo è ciò che conta.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Les souvenirs”.

19 ottobre 2016

Recensione del film “Les souvenirs”.

Ieri pomeriggio al cineforum ho visto un bel film francese di quest’anno che mi ero perso. Titolo: “Les souvenirs”; Regia: Jean-Paul Rouve; Cast: Annie Coordy, Audrey Lamy, Chantal Lauby, Daniel Morin; Soggetto e sceneggiatura: Jean-Paul Rouve e David Foenkinos.

Perché è un bel film?

Innanzitutto perché è bella la storia, anche se molto semplice, potrei dire perfino banale.

E poi perché è una storia ben raccontata, con tenerezza e allo stesso tempo ironia, con leggerezza ma anche senso del dramma. Il dramma che c’è in ogni esistenza.

E’ la storia di tre generazioni presenti e interagenti nella stessa famiglia. Un ragazzo, Romain, dall’età non meglio precisata, ma ad occhio e croce più o meno ventenne. I suoi genitori, piuttosto attempati, vicini a (o che hanno superato, come nel caso del padre) la sessantina. E una nonna, ottantacinquenne, madre del padre del ragazzo.

Il film si apre con l’immagine di una sepoltura, quella del nonno di Romain, che arriva in ritardo al cimitero e tutto di corsa, trafelato. Ma in tempo per abbracciare la nonna, il cui sguardo triste al suo arrivo si apre in un sorriso radioso. Segno immediato e inequivocabile che tra la nonna e il nipote c’è un feeling particolare.

Il padre del ragazzo e figlio del defunto è, invece, una figura sbiadita: un appassito direttore di un ufficio delle poste che è da poco andato in pensione e vive quindi una forte crisi di identità e di adattamento, che si riverbera anche nel rapporto con la moglie, una matura ma ancora piacente insegnante, delusa dalla mediocrità del marito e dal triste tran tran del rapporto con lui.

La nonna di Romain, invece, nonostante l’età avanzata, è una signora ancora arzilla e amante della vita. Che abita una casa ridente come lei: piena di piante e di fiori. E reagisce alla morte del marito con energia e vitalità.

Ma dopo un po’ cade, mentre è da sola in casa, e viene ricoverata in ospedale. Per fortuna la caduta non ha conseguenze particolarmente gravi.

I suoi tre figli però (specialmente il papà di Romain, che nonostante tutto è quello che se ne occupa di più e con maggiore senso di responsabilità) sono ugualmente preoccupati e decidono di metterla in una casa di riposo.

Sulle prime la signora ci rimane male. Forse si aspettava un trattamento diverso da parte dei figli. Poi si rassegna al suo destino e si fa accompagnare presso la sua nuova residenza: tristissima e squallida, come tutte le case per anziani e vecchi.

I figli non sembrano particolarmente compresi del dolore della mamma. Forse le loro uniche preoccupazioni erano quelle di non doversene occupare in prima persona e allo stesso tempo quella di sentirsi rassicurati che la mamma fosse adeguatamente assistita ed eventualmente curata in caso di bisogno.

Ovviamente (conoscendo il suo carattere) la signora non si adatta alla nuova situazione. E un giorno scappa dalla casa di riposo.

A questo punto tragedie da parte del padre di Romain, che si sente sommerso dai sensi di colpa e piange come un bambino cercando conforto nel figlio, quasi in una inversione dei ruoli.

Centrale diventa qui il ruolo di quest’uomo, che vive in contemporanea tre crisi esistenziali: quella legata al suo nuovo stato di pensionato, quella legata al rapporto con la moglie (la vera ragione d’essere della sua vita, che le confessa di essere innamorata di un altro uomo e di voler divorziare dal marito), quella infine legata al rapporto con la madre (che egli crede di aver “ucciso” con la decisione di ricoverarla nella casa di riposo).

Ma centrale diventa anche il ruolo del ragazzo, che si assume la responsabilità dell’intera famiglia e, dopo aver ricevuto una cartolina dalla nonna e aver quindi individuato il luogo dove la nonna era “scappata” (un paesino della Normandia), si mette sulla macchina del padre e va alla ricerca della vecchia signora.

La ritrova serena e quasi felice. Dice di essere venuta lì perché quello era il paese dove lei aveva vissuto per qualche anno, quando durante la guerra la sua famiglia era dovuta scappare da Parigi. Evidentemente il periodo più felice della sua vita!

Tra nipote e nonna in questo momento matura un’intesa e una complicità ancora più tenere e forti di quanto non fossero prima. Romain accompagna la nonna nella scuola elementare da lei frequentata ai tempi della guerra.

La vecchia signora tutta contenta si siede tra i banchi insieme ai bambini e si fa “istruire” come una scolaretta da una giovane maestra simpatica e carina.

Tra Romain e questa giovane maestra scatta un’attrazione immediata. I genitori di Romain ritrovano l’antico amore, grazie anche ad un’inattesa scenata di gelosia di lui nei confronti del presunto amante della moglie, che fa capire alla donna quanto il marito fosse ancora innamorato di lei.

Tutto sembra risolversi in un lieto fine, quando la nonna, proprio quando sta per tornare a Parigi, ha un colpo apoplettico, cade a terra e muore.

Il film si conclude così come si era aperto: con un funerale, quello della nonna di Romain. Chi corre per raggiungere il cimitero è però questa volta la giovane maestrina della Normandia, che è venuta non solo per partecipare al funerale, ma anche per dichiarare il suo amore al ragazzo.

Il film è bello, come lo sanno essere solo certe favole, perché racconta in modo credibile non solo le debolezze e le defaillances delle relazioni umane, ma anche le loro incredibili e importantissime risorse. E in un contesto insolito: quello dei rapporti intergenerazionali.

Laddove oggi tra generazioni ci sono fratture che sembrano incolmabili, il film ci fa credere (forse sognare) che queste fratture non sono fatali, impossibili e incomponibili. Che forse tra genitori e figli ci può essere lo stesso amore che si manifesta tra Romain e i suoi genitori e perfino tra il papà di Romain e sua mamma.

E che addirittura tra nonni e nipoti può realizzarsi un legame non formale, ma profondo, intenso, tenero, ricco di comunicazione e di amore. Anche nell’epoca del postmoderno.

Lo so che questo discorso può apparire irrealistico, retorico, forse addirittura melenso. Ma io contesto l’ironia cinica che di solito accompagna questi discorsi. Perché credo che per tornare a vivere certe esperienze occorre innanzitutto che le crediamo ancora possibili. E le storie che vengono raccontate in film come questo alimentano questa speranza. Anche se sotto forma di sogno.

Chi non sogna non è vero che non sogna. Semplicemente rimuove i sogni, li dimentica subito appena si sveglia. Forse perché è diventato troppo cinico. Ben vengano allora i sogni, se servono a svelenire questo nostro cinismo!

Giovanni Lamagna

Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.

Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.

“La femmina nuda”, l’ultimo romanzo di Elena Stancanelli, è il racconto di una grande, profonda, prolungata ossessione.

L’ossessione di una donna, di nome Anna, abbandonata dal suo uomo, Davide, dopo cinque anni di un amore vissuto tra alti e bassi.

Ossessione che si manifesta nell’incapacità di Anna di farsene una ragione, nella perdita di ogni motivazione significativa a vivere, nella forma di anoressia che la porta in breve tempo a perdere chili su chili di peso, ma soprattutto nel rancore profondo, acuto, acido, malato, verso colei, Cane, che Anna (come – quasi – tutti gli innamorati abbandonati) ritiene la causa (unica) della fine del suo amore. Cane è, infatti, la nuova donna del “suo” Davide.

Dal momento in cui Anna scopre l’esistenza di Cane inizia la ricerca ossessiva di questa donna. Prima virtuale, attraverso i telefonini, le pagine facebook e le email. Poi reale, con appostamenti (giornalieri e notturni), pedinamenti e, infine, incontri veri e propri, provocati a insaputa della “vittima” e del nuovo amante di lei, Davide.

Il romanzo si conclude con una scena madre finale, in cui si scatena, esplode tutto l’odio viscerale e accumulato nel tempo della protagonista nei confronti della sua inconsapevole rivale. In questo modo Anna finalmente si libera dall’ossessione che si è impossessata di lei per svariati mesi.

Non si capisce bene però dalle parole finali della protagonista (che per tutto il romanzo – sia detto per inciso – racconta le sue storie alla sua amica più intima), come si conclude questa vicenda emotiva.

Anna si libera, certamente e finalmente, dalla ossessione in cui era precipitata. Ma sembra cadere (almeno questo io ho capito) in una specie di cinismo e di disincanto nei confronti di tutti i rapporti.

A parole scrive: “Adesso mi piacciono tutti… Ho una grande pietà e rispetto per i corpi… tutti i corpi, compreso il mio, mi ispirano una grande tenerezza.”

In realtà l’impressione (ma neanche solo l’impressione) è che lei non sia più disposta ad innamorarsi e ad amare più veramente qualcuno.

Fa l’amore un po’ con tutti, senza andare troppo per il sottile, belli e brutti(ni), uomini e donne. Ma di “innamoramenti e amori” non vuole occuparsi più.

Il racconto quindi si conclude in maniera alquanto amara e triste, come del resto triste, pesante, era stato il tono complessivo e prevalente di tutta la vicenda narrata.

Non è un bel romanzo questo ultimo della Stancanelli. E’ scritto, sì, abbastanza bene, si legge in scioltezza. Ma non se ne coglie la “necessità interiore”.

Colpisce abbastanza il linguaggio disinibito, crudo, perfino sboccato, con cui l’autrice descrive parti anatomiche, organi e desideri sessuali maschili e femminili, come se volesse dimostrare che lei ha superato (pur essendo una donna) le inibizioni classiche. Ma questo francamente non risulta più essere una grande novità di questi tempi. Molte scrittrici e da tempo l’hanno preceduta in una simile performance.

La storia inoltre non ha una sua vera originalità. Ricalca lo stereotipo delle dipendenze affettive classiche, tipiche, soprattutto femminili, Con in più un qualcosa che la rende poco credibile.

Anna si capisce è una professionista piuttosto affermata, abbastanza colta e piuttosto benestante.

Davide, l’uomo di cui lei è invaghita, è un meccanico di auto, viene da immaginare piuttosto rozzo e volgare, di quelli muscolosi e dongiovanni, che ci provano con tutte, pronti e desiderosi solo di scopate rapide e senza coinvolgimenti emotivi, con i manifesti delle donnine di Playboy attaccati alle pareti dell’officina.

Viene da chiedersi: può una donna come Anna perdere la testa, fino alla dipendenza e all’ossessione, per un uomo simile?

Se, infine, la storia ha voluto descrivere la tristezza e lo squallore di un certo mondo romano, frequentatore di locali, dove si beve champagne a fiumi e si sniffa cocaina in gran quantità, dove si rimorchia e si scopa solo per esorcizzare la noia, ci è riuscita abbastanza bene.

L’esito finale per il lettore è, però, un certo disgusto, simile proprio a quello che deve aver provato Cane nelle pagine finali, quando si vomita continuamente addosso, ubriaca e strafatta.

Giovanni Lamagna

Sul film di Gabriele Muccino “Padri e figlie”.

31 marzo 2016

Sul film di Gabriele Muccino “Padri e figlie”.

“Padri e figlie” (2015), di Gabriele Muccino, è un bel film. Nonostante le numerose cadute di stile e di tenuta narrativa dovute alle molte sdolcinature e al sentimentalismo debordante che in alcuni momenti hanno preso la mano allo scrittore della sceneggiatura (Brad Desch), prima, e al regista, poi.

Che va accettato così com’è, con i suoi pregi e i suoi difetti. Prendere o lasciare! In questo caso , almeno per me, va preso.

Racconto brevemente la trama del film, anzi le due trame che si sovrappongono e intrecciano.

Prima trama. Jake Davis è uno scrittore affermato e famoso, già vincitore di un premio Pulitzer. Sposato, rimane solo con una bambina, Katie, di pochi anni di età, in seguito alla morte della moglie in un incidente d’auto, mentre lui era alla guida.

Anche Jake, nell’incidente, ha riportato un grave trauma cranico, che gli procura continue crisi epilettiche. E’ costretto perciò ad un ricovero ospedaliero di sette mesi e ad affidare, in questo tempo, la figlia Katie alle cure della sorella della moglie morta e al di lei marito.

Quando viene dimesso dall’ospedale, va a riprendere la figlia dai cognati, ma questi gli fanno resistenza: un po’ lo ritengono responsabile della morte della moglie, un po’ si sono affezionati alla bambina; quindi non vorrebbero restituirgliela; gli dicono brutalmente che vorrebbero adottarla.

Egli rifiuta in maniera categorica la richiesta dei cognati e riporta con sé la bambina, che cresce riempita dall’amore del padre, il quale contemporaneamente si danna l’anima per riprendere a scrivere e pubblicare, anche perché, dopo la degenza in ospedale, è rimasto piuttosto squattrinato.

Per contro i cognati non si sono rassegnati al suo rifiuto della loro proposta di adozione della bambina e gli intentano causa. Il primo libro pubblicato, dopo l’incidente, non va bene: viene stroncato dalla critica e non vende. Questo rafforza gli argomenti dei cognati che pretendono l’affidamento di Katie.

Jake è costretto allora a trovarsi un avvocato di prestigio, che gli chiede un capitale, per poterne patrocinare la causa. Lo scrittore quindi si costringe ad un superlavoro ancora maggiore per poter pubblicare un nuovo romanzo e trovare i soldi per pagare l’avvocato.

Nel frattempo, i due cognati, in seguito alla scoperta dell’adulterio del lui della coppia, si separano e rinunciano a portare avanti la causa nei confronti di Jake. Che oramai lavora di giorno e di notte, per scrivere il suo nuovo romanzo dedicato al suo rapporto con la figlia. In una di queste notti viene colpito da un nuovo attacco di epilessia, batte la testa e muore.

La figlia viene quindi affidata alla sorella della madre, che, nel frattempo, dopo aver divorziato definitivamente dal marito, è diventata una donna più consapevole e si è addolcita. Il romanzo di Jake esce postumo e vince il premio Pulitzer.

Questa è la trama prima del film, che però attraverso una serie continua di flashback e di flash forward, si intreccia con una seconda trama, che è la storia di Katie, oramai giovane adulta, prima universitaria e poi laureata in psicologia, alle sue prime esperienze di lavoro, presso un centro di recupero di bambini molto difficili.

Katie, nonostante l’amore ricevuto dal padre e da lei ricambiato, ha risentito fortemente dei traumi subiti. E’ venuta su, quindi, con un senso di vuoto, che non riesce a riempire. Nonostante gli studi e il training fatto per diventare una psicologa. Nonostante il lavoro appena iniziato le piaccia e l’appassioni molto.

Vive così una doppia vita. Al lavoro è irreprensibile, tenace, competente, abile, piena di dedizione e di amore. Nel privato, specie nelle relazioni affettive e sessuali, è una vera e propria sbandata: si concede facilmente a tutti e passa da un ragazzo all’altro, con molta superficialità, senza riuscire a soddisfare il suo affamato bisogno di amore.

Il lavoro, però, l’aiuta a dare una svolta anche alla sua vita privata. La presa in terapia di una bambina particolarmente difficile, il cui caso sembrava senza speranze, e i successi che ottiene (la bambina che non parlava con nessuno, grazie a lei, piano piano si apre e riprende a comunicare), è come una forma di autoterapia. Forse nella bambina che le è stata affidata ella rivede e cura se stessa.

E, infatti, quasi in contemporanea, incontra un ragazzo, che si innamora sinceramente di lei e che non vuole approfittare soltanto delle sue prestazioni sessuali.

All’inizio anche il rapporto con questo ragazzo non scorre del tutto facile: Katie è succube degli antichi mostri. E’ terrorizzata all’idea che, se si lega e ricambia l’amore appena incontrato, possa prima o poi sperimentare un nuovo e traumatico abbandono, simile a quelli che ha già conosciuto più volte nella sua vita. Quindi fa molte resistenze prima di lasciarsi definitivamente andare.

Addirittura un giorno va in un bar, si ubriaca, incontra un tipo, se lo porta a casa e ci scopa. Quando torna il ragazzo a cui è legata oramai da qualche tempo, Katie fa di tutto perché egli scopra il suo “tradimento”. Ovviamente la reazione del ragazzo è istintiva e violenta: la lascia pieno di rabbia e di delusione.

Katie, insomma, ha fatto di tutto perché si avverasse proprio ciò di cui lei aveva angoscia. Disperata, sembra per qualche tempo riprendere la vita di sbandata da cui era da poco uscita. Ma oramai le energie vitali e positive che si erano attivate in lei avevano messo radici. Le basta poco per riprendersi e tornare all’amore da poco perso.

Il finale del film è lieto, positivo, come nelle belle favole. Ma non del tutto banale e incredibile. Perché è vero che non sempre il male vince: talvolta vince anche il bene. Talvolta l’amore (sia quello ricevuto che quello dato) riesce a sconfiggere il cinismo e la sofferenza. Se l’amore ricevuto supera almeno di poco il dolore sofferto.

Mi sembra questo il messaggio che voleva dare il film. E, mi pare che, pur con tutti i suoi limiti e difetti, sia riuscito a trasmetterlo abbastanza bene.

Un’ultima riflessione sul ruolo che riveste l’attività terapeutica nel riscatto personale di Katie. Riflessione che parte da una domanda: come è possibile che una persona con tanti vuoti affettivi, addirittura una sbandata, come è Katie quando comincia a fare la psicoterapeuta, possa riuscire ad aiutare gli altri, addirittura a guarirli?

La risposta a questa domanda sta in un’affermazione di Aldo Carotenuto, il quale diceva più o meno questo: chi sceglie di fare il mestiere di psicoterapeuta è sempre uno che ha qualche conto in sospeso con se stesso, è uno quindi che, aiutando gli altri, aiuta in fondo anche se stesso.

A patto, ovviamente, di averne consapevolezza. Di aver consapevolezza dei traumi da lui stesso vissuti e che l’hanno spinto ad intraprendere questa professione. Che è in fondo un continuo lavoro su se stessi, una interminabile autoterapia.

Anche questa mi sembra una bella lezione che ci viene da questo film.

Giovanni Lamagna