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Due tipi di anziani

La terza età non è la stessa, inesorabilmente uguale per tutti: vi si può arrivare in due modi molto diversi e distanti tra di loro. Per cui possiamo parlare a buon ragione di due tipi di anziani.

L’uomo o la donna giunti alla terza età (una volta per terza età si intendeva quella che incominciava dopo la soglia dei 50 anni; oggi questa soglia – considerate le migliorate condizioni di vita e, quindi, di salute della popolazione e il conseguente allungamento della vita media – la si può situare anche dopo i 60 anni) tendono a irrigidirsi non solo nel corpo e quindi nei movimenti, come è fisiologico che accada, ma anche nei modi di sentire, di pensare e nei comportamenti, nei modi di essere, che ne conseguono.

L’uomo anziano, in genere, è schiavo delle sue abitudini; poco aperto alle novità, anzi tendenzialmente chiuso, giudicante: non solo verso le nuove mode (cosa che per certi aspetti sarebbe addirittura un dato positivo), ma anche nei confronti delle ovvie e naturali evoluzioni scientifiche, tecniche, economiche, sociali, culturali, politiche (e questo non sempre è positivo, anzi – a dire il vero – non lo è quasi mai).

Non a caso frasi tipiche pronunciate dagli anziani sono: “Ai miei tempi queste cose non si vedevano, non succedevano…”, “bei tempi andati!”.

Insomma, l’uomo anziano nella maggioranza dei casi ha lo sguardo rivolto all’indietro, verso il passato, e il sentimento che lo domina è quello della nostalgia, accompagnata spesso da un cinico disincanto, se non da una vera e propria mancanza di fiducia verso il futuro e verso le generazioni che vengono dopo di lui.

E tuttavia questo, anche se molto frequente, non è affatto l’esito scontato e inevitabile della evoluzione (o, meglio, involuzione) psicologica dell’uomo anziano.

Ci sono, infatti, uomini anziani (anche molto anziani) che restano vigili e aperti di fronte alle novità, che ancora si incuriosiscono e vogliono apprendere e imparare. Che non disprezzano i giovani e meno che mai le persone di mezza età, ma amano confrontarsi con loro, non per sposarne acriticamente i modi di pensare e i comportamenti, ma per in alcuni casi continuare a testimoniare i propri, in altri arrivare invece a metterli in discussione e, perfino, rivederli.

Questi anziani, proprio perché ben consapevoli della fragilità fisica ma anche emotiva e psicologica in senso lato della loro età, anziché difendersi, irrigidendosi nella nostalgia del tempo che fu, nella difesa di idee e scelte passate, con l’avanzare dell’età, si ammorbidiscono e sono aperti a mediazioni e compromessi ai quali da giovani non erano neanche lontanamente disponibili.

Sono capaci pertanto di aprirsi a visioni del mondo che sarebbero state inconcepibili per loro quando erano giovani e che in alcuni casi lo sono perfino per quelli molto più giovani di loro.

Ad esempio, divengono molto più tolleranti ed aperti sulle questioni dell’amore e, perfino, del sesso. Sono ben consapevoli che per loro si è esaurita la stagione dell’amore romantico, unico ed eterno, ed in fondo non ne hanno manco così tanta nostalgia, perché sono adesso in grado di vederne tutti i limiti, le ingenuità, gli aspetti perfino un po’ patetici e ridicoli.

Si aprono allora magari ad una visione più promiscua e comunitaria dei rapporti tra i sessi, in cui prevale meno il senso del possesso e più quello della condivisione, dell’amicizia più che della sessualità in senso stretto, anche se questi rapporti non escludono né la sessualità né, tantomeno, l’erotismo.

Insomma questi anziani sono capaci, forse ancora più di quando erano giovani e perfino più di tanti giovani di oggi, di aprirsi ad una visione giocosa e allegra dell’esistenza, ben lontana da quella cupa e a volte addirittura lugubre che spesso affligge la vita degli anziani del primo tipo, quelli che ho provato a descrivere all’inizio.

Anziani che sono restati o tornano ad essere, con l’avanzare degli anni, un po’ bambini o fanciulli, ma nel senso positivo e non regressivo del termine: capaci di stupirsi, gioire e divertirsi ancora, senza per questo scadere nell’incoscienza, nell’imprudenza, nella impulsività o mancanza di discernimento che caratterizza i bambini e i fanciulli.

Sulla seconda serie televisiva de “L’amica geniale”.

Lunedì sera si è concluso il secondo ciclo della serie televisiva “L’amica geniale”, tratta dall’omonimo romanzo in quattro volumi di Elena Ferrante. Qual è il mio giudizio?

Premesso che non ho (ancora) letto il romanzo, il mio giudizio sintetico e complessivo è che si è trattata di una bellissima opera-zione televisiva.

Sono rimasto inchiodato davanti al televisore, senza avere nessun calo di attenzione né colpo di sonno (ed io sono uno che la sera va a dormire presto), coinvolto nella trama narrativa, ma soprattutto dalle vicende esistenziali dei vari personaggi, soprattutto (come è ovvio) delle due protagoniste, Elena Greco e Lila Cerullo, interpretate (in questa seconda serie) magnificamente da due giovani attrici esordienti, Margherita Mazzucco e Gaia Girace.

Già questo fatto giustifica in larga misura il mio giudizio fortemente positivo: di solito quando una trasmissione non mi piace o non mi interessa molto, dopo un poco che la sto seguendo mi si chiudono gli occhi e la lascio perdere. Con “L’amica geniale” questo non è avvenuto in nessun momento di nessuna delle quattro puntate di questa seconda serie, come, del resto, non era avvenuto quando hanno trasmesso la prima. Segno inequivocabile che ha preso profondamente il mio cuore e la mia testa.

Espresso il mio giudizio sintetico, vorrei provare adesso ad articolarlo, motivarlo, scoprendo e manifestando le sue molteplici ragioni.

1.La prima ragione è che ho vissuto, pur nelle differenze notevoli, una grande e sostanziale identificazione.

Nella storia di queste ragazze e di questi ragazzi, ma in fondo anche in quella del quartiere Luzzatti in cui essa è ambientata, mi sono riconosciuto, come se fosse stata la mia.

Nel quartiere Luzzatti, che distava dal mio poco più di un chilometro, ho rivisto il quartiere nel quale sono nato (il quartiere Arenaccia).

Nei vari ragazzi e ragazze della storia (specie in quelle/i nate/i e vissute/i nel quartiere Luzzatti) ho rivisto me stesso bambino e adolescente, perché io avevo la loro stessa età in quegli anni (’50 e ’60). Come ho rivisto quelle dei miei amici, miei coetanei.

Ho rivisto la grande povertà di quegli anni, ma anche la grande dignità con la quale essa veniva vissuta dai più. Ho rivissuto il sentimento di amicizia, di cameratismo profondo, ma anche di semplice buon vicinato che ci legava un po’ tutti.

Ho rivisto anche gli episodi di violenza e di degrado, di cui (per mia fortuna) non sono mai stato protagonista diretto, ma che comunque sfioravano la mia vita, quella dei miei familiari e quella degli amici che frequentavo.

Qualcuno (a cominciare da mia moglie) ha avuto da ridire sulla rappresentazione così cruda ed esplicita di questa violenza e perfino sul ricorso ad un dialetto così stretto, così marcato, a tratti perfino smaccatamente e volutamente volgare.

Ma io non condivido per nulla tali rilievi. Credo, infatti, che la storia avrebbe perso forza (di realtà e di comunicazione), se non si fosse espressa anche nella forma del dialetto napoletano e della violenza esplicita e per nulla edulcorata.

Semmai mi fa meraviglia il fatto che una storia simile, così caratterizzata nel tempo e nello spazio (la Napoli degli anni ’50 e ’60, anzi di un quartiere particolarmente degradato di Napoli, non certo simile a quelli delle sue cartoline note in tutto il mondo) abbia potuto interessare, anzi appassionare, milioni di persone delle più varie parti del pianeta.

E, però, di fronte a questo dato di realtà, non posso non concluderne (e con me credo debbano farlo un poco tutti) che evidentemente le vicende de “L’amica geniale” avevano (ed hanno) un nucleo di verità essenziale di carattere universale, condivisibile e quindi comprensibile nei più vari contesti economici, sociali, culturali e, perfino, antropologici, al di là delle sue indubbie ed evidenti specificità.

  1. La seconda ragione del mio interesse così vivo e forte di fronte a questa serie televisiva sta nel fatto che essa racconta una storia di formazione. Che (come ho già detto prima) in gran parte ricalca la mia, ma che avrebbe avuto comunque per me un suo interesse intrinseco, anche se fosse stata molto diversa dalla mia.

I personaggi, che animano questo racconto (prima bambini, poi adolescenti, poi giovani adulti), sono, in fondo, un unico grande personaggio: le loro storie si intrecciano tra di loro, quasi come facce diverse di un unico prisma, l’una complementare alle altre.

Nel racconto c’è la storia di chi riesce a farcela, ad uscire dalla “prigione” di un’esistenza chiusa che poteva far preludere ad un destino segnato. E’ questa sostanzialmente la storia di Elena. E c’è quella di chi prova disperatamente a fare la stessa cosa, magari per vie diverse, ma non ce la fa. E’ la storia di Lila.

Ci sono poi le storie dei personaggi solo apparentemente secondari, alcuni dei quali affondano nel destino di miseria e degrado nel quale sono nati, altri cercano scorciatoie di riscatto sociale per le vie brevi della illegalità più o meno grave e marcata. I più si rassegnano ad una vita “banale” e del tutto conformata ai più.

Ne esce fuori un quadro perfetto e articolato delle vicende umane, nelle quali nessuno può dirsi totalmente estraneo agli altri, eppure ognuno/a è diverso/a dagli altri/e, spesso estremamente diverso/a, in certi casi (almeno apparentemente) opposto/a. E ciascuno di noi può riconoscere il suo “particolare” e ritrovarcisi.

  1. La terza ragione che ha motivato il mio forte interesse verso questa storia è da rintracciare nel modo in cui essa affronta la “questione femminile”. Intendiamoci: niente a che fare con le rivendicazioni del mondo femminile (o, meglio, di una parte di esso) per lo stato di soggezione e subalternità in cui è vissuta la donna per secoli, anzi per millenni, e ancora oggi in parte vive, soprattutto in certe zone del mondo.

Nel periodo storico in cui la vicenda de “L’amica geniale” è situata, queste rivendicazioni in fondo manco erano ancora cominciate. Iniziarono ad emergere solo verso la metà degli anni ‘60 e solo in certi contesti sociali che non erano certo quello del quartiere Luzzatti, in cui è stata ambientata la gran parte della vicenda del romanzo della Ferrante, almeno in questi primi otto capitoli della saga.

Allora cosa intendo qui per “questione femminile”? Intendo qualcosa che sovrasta la dimensione storica e geografico-spaziale. Ed ha a che fare piuttosto con la dimensione antropologica.

Sotto questo aspetto le donne hanno avuto da sempre un “potere”, che va ben al di là dei ruoli sociali, così fortemente codificati e stratificati nel tempo (e che non voglio, certo, qui disconoscere o minimizzare). Un ruolo che in fondo gli stessi uomini (dominatori e sfruttatori, chi più e chi meno) ben percepiscono e riconoscono, anche se solo ad un livello inconscio, subliminale.

E, di fronte al quale, forse in parte si spiega (anche se, ovviamente, non si giustifica per nulla) la loro violenza estrema, potremmo dire anche animalesca, bestiale, o (nel migliore dei casi) la loro invidia e la loro aggressività latenti.

Questa dimensione del “femminile” è – a mio avviso – resa in modo mirabile ne “L’amica geniale” E’, anzi, forse il fattore primo che ne spiega il fascino, mi verrebbe di dire per certi aspetti addirittura perverso.

Essa emerge in una molteplicità di situazioni e rapporti, in modi e tempi ossessivamente ricorrenti. Ma è evidenziata in particolare nel rapporto tra Lila e i fratelli Solara, prima, e poi nel rapporto tra Lila e il marito Stefano (interpretato da un magnifico Gennaro De Stefano).

Lila è oggetto di molteplici violenze (verbali e fisiche), eppure anche nelle situazioni più drammatiche di cui è vittima (in quanto femmina), emerge, è impossibile non riconoscerlo, il suo “potere di femmina”, che è forse proprio quello che scatena (intendiamoci – lo ripeto ancora una volta, a evitare facili equivoci – non la sto qui giustificando) la grande violenza che subisce.

Qui, per inciso, mi viene da dire che non saprei affermare con sicurezza e senza ombra di dubbio che Elena Ferrante è una “donna che scrive”. Per quanto mi riguarda potrebbe essere benissimo un “uomo che scrive”.

Un uomo, però, che riconosce in sé la sua “parte femminile” e, soprattutto, il potere che la donna (anzi la femmina) ha ed esercita su di sé, sul maschio, al di là dei ruoli sociali storicamente consolidatisi.

  1. Un ultima ragione di fascino che riconosco alla serie televisiva de “L’amica geniale” la rintraccio nel “rapporto/contrasto tra natura e cultura, istinto e ragione, perfino tra bestialità e umanità”, che del racconto mi sembra uno degli elementi (mi verrebbe di dire: dei protagonisti) principali.

E’ del tutto ovvio che questo rapporto/conflitto si evidenzia in tutta la sua forza nelle figure di Elena e Lila. Ma, forse, si manifesta anche in altre figure meno protagoniste e più secondarie.

Elena rappresenta il polo della riflessione, della calma, della ponderazione, del desiderio di emanciparsi culturalmente ancor prima che socialmente, fino ad apparire addirittura (e non è così) una creatura impalpabile e fredda.

Lila è il suo opposto: tutta fuoco, impulsività, istinto (al limite dell’autodistruttività), violenza, voglia di crescere in fretta, di uscire dagli schemi in cui l’ha messa l’ambiente in cui è cresciuta.

E, però, ciascuna delle due (anzi forse proprio per questo) riconosce nell’altra una parte di sé. L’una “invidia” all’altra e vorrebbe avere quello che lei non ha o ha sviluppato in maniera solo embrionale.

Questo è ciò che fa la forza del loro legame, come della maggior parte (dico io, sulla base della mia esperienza di vita) dei rapporti veramente importanti e significativi. Si allontanano più volte nel corso degli anni, come a prendere atto di una loro radicale inconciliabilità.

Ma poi sempre, in qualche modo e per le vie più traverse, si rincontrano e devono riconoscere che il loro legame ha, invece, una forza che va ben al di là delle loro profonde diversità. Come se una calamita le tenesse collegate anche nella (solo apparente) distanza.

Giovanni Lamagna