Si può essere non comunisti, non più giovani e vivere ugualmente ideali ed emozioni forti?

Nel suo bel libro “Soli eravamo…” (2014; editore: ad est dell’equatore)), Fabrizio Coscia nel capitolo intitolato “il giorno che diventai comunista” così scrive (pag. 162-163):

Ai tempi del liceo mi consideravo a tutti gli effetti un postsessantottino, benché nel ’68 avessi solo un anno. Ma tant’è. Erano sottigliezze anagrafiche a cui non badavo. Ho votato per Democrazia Proletaria e continuato a studiare Marx per qualche anno. Simpatizzavo per l’Olp e le Black Panthers, mi piaceva Dario Fo, ascoltavo “La locomotiva” di Guccini”, leggevo “Le ceneri di Gramsci” di Pasolini e divenni un fanatico di Bertolt Brecht.

Per poi proseguire con una domanda:

Oggi che non sono più comunista, mi chiedo come abbia fatto, in quegli anni, a sopportare tanta retorica ideologica, uscendone più o meno indenne.

E darsi la seguente risposta:

Sarà che ero giovane, e che forse comunisti davvero, con tutto l’ardore e la passione dell’idea comunista lo si può essere soltanto da giovani.

E subito dopo:

Però non capisco perché, oggi, nonostante non sia più comunista e non abbia più vent’anni, le immagini dei caccia che bombardano il Palacio de la Moneda, l’11 settembre 1973 a Santiago del Cile, e quelle di Salvador Allende assediato che si difende con l’elmetto e il fucile mitragliatore regalatogli da Fidel Castro suscitano in me una grande emozione. Così come il “sorriso aperto” di Victor Jara e il canto popolare di Violeta Parra. O come “El pueblo unido jamas serà vencido”, quando lo canto in macchina, ancora adesso, insieme a mia figlia.

E darsi la seguente spiegazione:

Magari sarà solo nostalgia dei tempi andati, oppure il rimpianto di qualcosa, in quell’idea meravigliosamente utopistica, che poteva andare in maniera molto diversa da come poi è andata.

Queste parole di Fabrizio Coscia mi hanno particolarmente colpito per almeno due motivi che vorrei qui di seguito illustrare.

Il primo motivo è che io (al contrario di Fabrizio Coscia) non sono mai diventato e stato comunista, perché non ho mai condiviso (manco da giovane) l’idea che per realizzare la piena eguaglianza sociale bisognasse instaurare una dittatura, fosse anche quella del proletariato.

Non sono mai diventato e stato comunista, pur avendo molto amato le canzoni degli Inti-illimani (tra le quali, ovviamente, “El pueblo unido…”) e quelle di Violeta Parra. Pur avendo conosciuto e apprezzato molto il pensiero di Carl Marx (che considero uno dei massimi pensatori economico-sociali della storia). Pur avendo votato sempre a sinistra (prima il PCI di Enrico Berlinguer, poi il Pdup di Lucio Magri, poi – a varie riprese – Rifondazione Comunista…). Pur avendo amato molto Dario Fo e Pier Paolo Pasolini, meno le canzoni di Guccini (che giudico deboli e noiose musicalmente per i miei gusti) e le opere di Brecht (che però – confesso la mia ignoranza– conosco ben poco).

Il secondo è che ho vissuto le vicende del Cile di Allende quando ero un uomo già adulto, non più giovanissimo e meno che mai un ragazzino (come era invece in quegli anni Fabrizio Coscia). Le ho vissute, quindi, intensamente; e non solo con grande partecipazione emotiva ma anche con grande consapevolezza politica.

Ricordo benissimo, dunque, che Allende non era affatto comunista, bensì un socialista democratico e, tuttavia, pienamente conseguente con le sue idee: voleva cioè realizzare il socialismo in maniera pacifica e non violenta, attraverso riforme democraticamente approvate in Parlamento (a cominciare dalla sacrosanta nazionalizzazione delle miniere di rame, prima in mano alle multinazionali); e in questo modo scatenò la reazione dei “democraticissimi” Stati Uniti d’America.

Questi due dati di fatto (anagrafici, anzi biografici) hanno quindi stimolato in me le riflessioni che seguono:

1. Si può essere giovani senza per questo sentire il bisogno di diventare comunisti, senza dunque per forza di cose diventare vittime della “retorica ideologica” che il Coscia diventato adulto giudica oramai insopportabile.

2. Non è necessario essere giovani per coltivare degli ideali e, persino, delle utopie. Gli ideali senz’altro, ma forse anche le utopie, possono entrare a far parte a pieno titolo dei bagagli che una persona si può portare appresso anche in età adulta e perfino da anziano: non sta scritto da nessuna parte che la maturità e persino la vecchiaia debbano essere fatalmente le età del disincanto e delle amare disillusioni, madri e padri del cinismo, se non della disperazione.

3. Quelli che cadono in età adulta (ed è giusto sia così) sono i falsi ideali e le utopie senza nessun contatto con la realtà. Non è destino, invece, che debbano tramontare gli ideali e persino le utopie che hanno un fondamento nella realtà, cioè nella universale esigenza umana di libertà, uguaglianza, fratellanza, ideali che saranno pure utopici, ma che, come dice bene Galeano, hanno la funzione ben reale di aiutare gli uomini a camminare sulla strada del progresso sociale e civile.

4. Non c’è quindi alcuna contraddizione tra l’essere diventati oramai persone mature o (come nel mio caso) addirittura anziane e continuare a provare emozioni ancora molto forti al ricordo dei fatti cileni del 1973 o ascoltando le canzoni di Violeta Parra e degli Inti-illimani.

Anzi continuare a provarle in tarda età è segno di buona salute psicologica.

Queste emozioni (almeno nel mio caso) non possono essere ridotte dunque (come pensa di sé Fabrizio Coscia) alla nostalgia o al rimpianto per i bei tempi andati. Perché affondano le radici in ideali e convinzioni che sono ancora in me ben presenti, vive e vitali, niente affatto tramontate.

© Giovanni Lamagna

Pubblicato il 18 ottobre 2020, in costume, personalità autorevoli, personalità storiche, politica, Psicologia, società, sociologia, Spiritualità con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , . Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.

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