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Una straordinaria testimonianza di fraternità.

In giugno (1886) Vincent (Van Gogh) si trasferisce col fratello (Theo) in un appartamento di… Rue Lepic 54 (a Parigi).

(…)

La convivenza tra i due fratelli giova non poco all’umore di Vincent, ma crea… numerosi problemi a Theo, che in una lettera a Willemien la definisce “pressoché insopportabile…

Io gli chiedo soltanto di non farmi del male e invece la sua stessa presenza mi è terribilmente penosa…

È come se in lui ci fossero due persone distinte: la prima tenera, sensibile, straordinariamente dotata; la seconda egoista e di cuore duro.”.

Theo sopporta però ogni mortificazione, nutre la più grande fiducia nelle doti di Vincent.

È realmente un artista…

Un giorno i suoi dipinti potrebbero essere sublimi, e mi sentirei colpevole di averlo distolto da uno studio regolare.”.”

(da “Notizia sulla vita e le opere di Vincent Van Gogh”; in Vincent Van Gogh; “Lettere a Theo”; Ugo Guanda editore 2022)

Trovo in questa mezza paginetta una straordinaria, bellissima, testimonianza di cosa è, di cosa può arrivare ad essere la fraternità.

Theo non è un genio, non è posseduto dal demone dell’arte, come il fratello Vincent.

Però ama, ama Vincent di un amore puro (fraterno, appunto!), quindi disinteressato.

Perciò è disposto a sopportare “ogni mortificazione”, anche quando la convivenza col fratello gli risulta insopportabile.

Non solo; ma l’amore lo rende anche saggio, sapiente, acuto e preveggente critico d’arte; gli fa vedere quello che gli altri, i più, non vedevano, non riuscivano a vedere.

E cioè che Vincent era un genio, che prima o poi avrebbe dipinto quadri sublimi.

Cosa che fu; la Storia gli ha dato meritoriamente ragione.

A lui, pertanto, alla sua abnegazione, dobbiamo essere tutti immensamente grati.

In questo caso – ne traggo qui spunto per fare una ulteriore breve riflessione – la (apparente) mortificazione di un uomo ha avuto un senso; perché era sostenuta da una “fede”.

Una fede “oscura” perché smentita dai continui insuccessi del fratello: Vincent Van Gogh, fin quando è stato in vita, non è stato apprezzato quasi da nessuno, ha venduto pochissimo, quelli che riconoscevano il suo valore artistico si contavano sulle dita di una mano.

La mortificazione di Theo ha avuto un senso, perché era finalizzata ad uno scopo: prima o poi il genio di Vincent sarebbe stato finalmente riconosciuto.

Non aveva, quindi, nulla a che fare col masochismo, per il quale la mortificazione e il sacrifico sono fini a sé stessi, obbediscono solo ad un istinto di morte.

© Giovanni Lamagna

Vero e falso.

Non tutto ciò che non siamo in grado di capire, comprendere, in un dato momento è falso.

Questo però non significa affatto che tutto ciò che non siamo in grado di comprendere sia vero.

Su ciò che non siamo in grado di comprendere dobbiamo, quindi, sospendere il giudizio.

Non possiamo accettarlo per fiducia cieca in qualcuno che ci dice che è vero.

Né possiamo rifiutarlo semplicemente perché noi non siamo in grado di capirlo.

© Giovanni Lamagna

La cattiva madre.

La cattiva madre tende a trattenere il figlio con sé, a impedirne l’autonomia e il distacco.

Certo, perché non ha fiducia nel figlio!

Ma, prima di tutto, perché non ha fiducia in sé stessa.

Ha paura di ogni separazione.

© Giovanni Lamagna

Speranza ed azione.

Non c’è azione che non coltivi una speranza.

Un’azione disperata è un ossimoro.

La disperazione ha, infatti, come esito fatale l’inazione.

Al limite, come esito estremo, ma in fondo coerente, il suicidio.

Non certo l’azione, che, per definizione, presuppone, sempre e comunque, una (qualche, sia pure labile) fiducia nella vita.

© Giovanni Lamagna

Amore genitoriale, amore erotico e amore fraterno universale.

L’amore che un figlio riceve (o dovrebbe ricevere) dai propri genitori (specie quello della madre) è, in genere, un amore incondizionato; non condizionato da alcunché; un amore – potremmo dire – addirittura “immotivato”, un amore a prescindere, inscritto nella natura, nei cromosomi.

I genitori, infatti, tranne rari casi degeneri, amano i loro figli non per le loro qualità, ma perché sono “i loro figli”.

Un proverbio napoletano rende molto bene questo sentimento, questa realtà relazionale: “ogni scarrafone è bell’ ‘a mamma soja” (ogni scarafaggio è bello per la sua mamma).

L’amore che un uomo e una donna ricevono in età adulta dal loro amante è, invece, un amore per sua natura condizionato, quindi non scontato, come lo è al contrario, in genere, quello dei genitori nei confronti dei “loro” figli.

Condizionato ad alcune caratteristiche: la bellezza, la simpatia, l’intelligenza, le qualità morali e chi più ne ha più ne metta.

L’amore – dice Lacan, che in questo caso, a mio avviso, si riferisce chiaramente e direi esclusivamente all’amore erotico – è sempre “amore per un nome proprio”, cioè per certe caratteristiche particolari che sono di una persona e non di altre.

Senza queste caratteristiche, che attraggono e provocano il desiderio che si prova per l’altro, l’amore erotico manco nascerebbe.

E’ quindi un amore allo stesso tempo più fragile e più forte di quello che danno (in genere) i genitori ai loro figli; più motivato e, quindi, più narcisisticamente ambito.

E’ più fragile perché può venire meno in qualsiasi momento, se vengono meno le qualità che hanno spinto il nostro amante a innamorarsi di noi, a provare attrazione per noi.

O se nel tempo cambiano i suoi gusti, per cui quelle che una volta erano delle qualità ad un certo momento diventano per lui oggetto di indifferenza o, addirittura, di repulsione e rifiuto.

E’, però, allo stesso tempo un amore più forte e narcisisticamente più ambito perché – come nessun altro – rinforza la nostra fiducia in noi stessi, ci fa sentire speciali, meritevoli di amore per delle ragioni particolari, singolari, e non semplicemente per il fatto di essere venuti al mondo.

E’ questa d’altronde la caratteristica principale che contraddistingue questo amore, l’amore erotico, dall’amore universale, il cosiddetto amore fraterno, che predicano alcune religioni, specie quella cristiana.

L’amore universale fraterno si riferisce e indirizza ad ogni uomo, a prescindere dal sesso, dal colore della pelle, dell’etnia, del carattere, del modo di pensare e comportarsi dell’individuo a cui viene indirizzato.

E’ un amore motivato dal “semplice” fatto che l’altro è un uomo come me, è un mio simile, non dal fatto che ha determinate caratteristiche e qualità particolari.

L’amore erotico è, invece, come (l’ho già ricordato) ha detto Lacan, “amore per il nome proprio”, per quello che l’altro è nella sua singolarità, anzi nella sua unicità.

E’ un amore che posso provare solo per lui/lei, per come è fatto lui/lei, e non posso provare per altri.

Per questo è un amore così ambito da ciascuno di noi, che rinforza come nessun altro il nostro Io.

Anche se è un amore così fragile e precario, a rischio incombente di logoramento e, persino, di esaurimento.

© Giovanni Lamagna

Non c’è alcun futuro per una visione religiosa dell’esistenza?

L’umanità (o, meglio, questa parte dell’umanità di cui faccio parte, l’umanità dell’Occidente “avanzato” e “progredito”, l’umanità del Primo Mondo, a evidenziare e sottolineare l’esistenza di una gerarchia tra diversi mondi, gerarchia stabilita ovviamente da chi si sente orgogliosamente, anzi presuntuosamente, diciamo pure narcisisticamente, parte del Primo Mondo) ha stabilito ad un certo punto (a partire decisamente dalla fine del 1800, ma il percorso che ha portato a questo esito era iniziato già tre o quattro secoli prima) che, tenuto conto dei progressi delle scienze e delle filosofie, che avevano evidenziato con un sufficiente grado di attendibilità l’inesistenza di Dio o, quantomeno, l’impossibilità di una dimostrazione razionale della sua esistenza, non solo le religioni storiche tradizionali non avevano più senso, che erano poco più che delle credenze mitologiche o, addirittura, superstiziose, ma che non aveva neanche più senso un qualsiasi atteggiamento religioso nei confronti del mondo e della vita.

Il mio pensiero, molto deciso e forte, è che un tale convincimento (almeno quello più radicale: il senso e lo spirito religioso non hanno oramai più alcuna prospettiva di sopravvivenza e nessun diritto di cittadinanza nelle nostre società “progredite”) non ha nessun serio fondamento, né teorico né, tantomeno, pratico.

A meno che l’umanità, perlomeno questa umanità, di questa epoca e di questa parte del mondo, questa umanità di cui anche io mi sento parte e che allo stesso tempo sento aliena, non voglia infilarsi non tanto in un vicolo cieco (cosa che ha già fatto, come dicevo, da tempo, cioè oramai da almeno un secolo e mezzo), ma in una via senza più ritorno, che la porterebbe all’annichilimento (qui il riferimento al “nichilismo” di tanta parte della filosofia contemporanea è consapevole e voluto), ovverossia all’autodistruzione insieme teorica e morale e, quindi, quasi sicuramente, come sua ovvia e tragica conseguenza, anche fisica e materiale.

La mia idea convinta è:

 1) che le scienze e le filosofie hanno indubbiamente dimostrato che non è possibile argomentare (al contrario di quanto riteneva la maggior parte dei filosofi nell’antichità e fino al Medioevo) razionalmente l’esistenza di Dio;

 2) che anzi non sia più possibile credere seriamente, sulla base cioè di convinzioni filosofiche aggiornate e non di vecchie filosofie oramai superate, nell’esistenza di un Dio personale, di un mondo ultraterreno e di una vita futura dopo la morte, come, invece, le religioni tradizionali vorrebbero ancora farci credere;

 3) ma che questo non comporti affatto il tramonto definitivo dell’idea stessa di “religione”; o, meglio, che questo dato di realtà non debba comportare affatto la rinuncia a, la dismissione di quell’atteggiamento spirituale di fronte al mondo e alla vita che per millenni abbiamo definito come “religioso”.

Questa mia idea forte e convinta si basa:

 1) sulla constatazione inoppugnabile che tutte le culture, almeno fino a due secoli fa, hanno elaborato e professato un credo religioso e praticato riti, cerimoniali e regole morali a quel credo collegati;

 2) sulla deduzione, semplice ed evidente, che da questa constatazione deriva: evidentemente le religioni non nascono a caso, non sorgono per un capriccio della storia, ma perché corrispondono a bisogni profondi dell’umanità.

Certo, al bisogno profondo di trovare conforto contro le paure e le angosce dell’esistenza, in primis contro le forze per lungo tempo misteriose della natura, di cercare quindi protezione in figure mitiche paterne o materne e, soprattutto, di esorcizzare l’idea angosciosa della morte con la speranza di una vita post mortem.

Ma anche al bisogno altrettanto profondo di trovare un senso alla propria esistenza individuale e di regolare la vita sociale, con delle norme il più possibile condivise, rese convincenti, persuasive, anche attraverso il ricorso a simbologie, mitologie, rituali e cerimoniali dal forte impatto emotivo-affettivo.

Ora è mia idea forte, salda, che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico abbiano dato indubbiamente grosse picconate negli ultimi cinque secoli alle risposte che le religioni tradizionali (soprattutto quelle teiste; non tutte le religioni, come sappiamo sono teiste; ad esempio, il buddhismo non lo è) avevano fornito al primo bisogno di cui sopra.

E’ mia idea forte che la modernità abbia, in altre parole, demolito i miti su cui la maggior parte delle religioni storiche, tradizionali, si fondavano; e che quindi sia impossibile oggi continuare a dar credito a certe credenze religiose, a meno di non voler rimanere fermi (“fissati” direbbe Freud) ad uno stadio evolutivo primitivo, mi verrebbe di dire infantile, della storia dell’umanità.

Ma è mia idea altrettanto forte che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico non abbiano affatto dato delle risposte migliori di quelle date, fino a quattro-cinque secoli fa, dalle religioni, al secondo bisogno da cui quelle religioni nascevano: il bisogno di senso, di significato, di una motivazione al vivere.

Con la conseguenza che, mentre il progresso scientifico ha almeno in parte rassicurato l’essere umano rispetto ad alcune sue paure ancestrali e fornito “farmaci” adeguati al riguardo, il pensiero filosofico (almeno quello prevalente ed egemone) lo ha deprivato dei fondamenti metafisici, su cui si basavano le sue antiche sicurezze, senza però offrirgliene altri; con esiti che sono stati fatalmente (e non potevano non esserlo) nichilisti.

Così che la tecnologia (figlia, anche se parecchio degenere, delle scienze) è diventata – come ci hanno fatto vedere benissimo due pensatori, tra molti altri, quali Martin Heidegger e Gunther Anders – la nuova religione del tempo contemporaneo, sottraendosi, sfuggendo – in maniera che, a mio avviso, ci porterà prima o poi al disastro – al controllo e alla guida del pensiero filosofico.

Un po’ come (sia detto per inciso) l’economia o, per meglio dire, i poteri economici forti sfuggono oramai al controllo e alla guida della politica; una politica che, senza una visione del mondo e quindi senza un pensiero filosofico alle spalle, diventa cieca e muta e, perciò, impotente nei confronti dell’economia.

Qual è allora la conclusione, dopo questa lunga premessa, della riflessione che ho fin qui svolto?

Lo dico con molta nettezza e chiarezza: bisogna recuperare sul piano filosofico le ragioni e i fondamenti (certo, quelli possibili, razionali, del tutto immanenti e non più metafisici) di una visione religiosa del mondo.

Senza dubbio, tenendo conto di alcune acquisizioni (anche per me irreversibili) del pensiero scientifico e filosofico moderno!

Ma senza buttare (come ha fatto invece una buona parte della filosofia moderna e contemporanea, senza grandi eccezioni, soprattutto a partire da Feuerbach e Marx per arrivare a Nietzsche e infine a Cioran) il bambino con tutta l’acqua sporca.

Occorre che la filosofia ridia in altre parole speranza e fiducia all’umanità; altrimenti ci sarà presto o tardi (più presto che tardi) la fine del pensiero filosofico e con esso la fine della stessa umanità.

© Giovanni Lamagna

Competenze e fiducia nelle competenze

Pensiero scritto nel 2018, quindi non influenzato dall’odierna attualità

Io non credo che chi è privo di competenze non apprezzi, in prima battuta, chi (almeno in teoria: per i titoli che vanta) le competenze le ha.

La fiducia nelle “competenze” viene meno (in seconda battuta e direi giustamente) quando esse non riescono a risolvere i problemi, ma, addirittura, li aggravano.

Quando queste competenze si rivelano, col tempo e con tutta evidenza, solo presunte e non reali.

Allora può succedere che gli incompetenti si affidino ai maghi, ai ciarlatani, a chi promette loro miracoli.

Ma questo succede quando i cosiddetti competenti si sono rivelati falsi competenti, se non, addirittura, degli imbroglioni.

© Giovanni Lamagna

Fiducia in sé

Ci sono persone che hanno così poca fiducia in se stesse che non si tirano su manco di fronte ai più grandi riconoscimenti e agli elogi più calorosi che vengono loro elargiti.

Perché manca loro la fiducia di base.

Che si acquisisce durante l’infanzia.

Se non la si acquisisce in questa fase, dopo diventa difficile (e forse impossibile) recuperarla.

© Giovanni Lamagna

Cosa distingue un soggetto melanconico da chi melanconico non è

Nel suo libro “Le nuove melanconie” Massimo Recalcati, a pag. 13, così afferma: “La colpa del soggetto melanconico non si riferisce… realmente a nessun atto del soggetto ma alla sua stessa esistenza: è colpa di esistere. E’ colpa di un’esistenza che si trova gettata nel mondo in una condizione insormontabile di inermità e di sconforto radicale…

All’origine del vivente non è il senso ma la vita fuori dal senso, la vita come pura esistenza, eccesso insensato del vivente… dove l’esistenza appare come una protuberanza priva di valore, presenza senza senso, angoscia assoluta”.

Il primo pensiero che mi è venuto leggendo questo testo è il seguente: quella di ritrovarsi “gettata nel mondo in una condizione di insormontabile inermità” è la condizione di ogni essere umano che viene al mondo, non solo quella del soggetto melanconico.

Non c’è essere umano che venga al mondo in una condizione di forza, se non proprio di onnipotenza.

Da questo primo pensiero ne sono seguiti di gli altri che seguono, concatenati tra di loro; almeno a me così sembra.

Ciò che fa la differenza tra il soggetto cosiddetto “normale” e quello melanconico sta nel fatto che il soggetto melanconico della sua condizione di debolezza, fragilità, precarietà strutturale, “contingenza illimitata”, come dice spesso Recalcati, comune a tutti gli esseri umani, senza nessuna distinzione, si fa addirittura una colpa.

E questo lo porta a sperimentare non solo la pena e la fatica del vivere che sono “normali”, perché connaturate all’esistenza di qualsiasi essere umano, ma uno “sconforto radicale”, un’angoscia assoluta, originati dalla percezione di una mancanza totale di senso.

La condizione umana – quella di tutti gli uomini, paradossalmente anche e addirittura di quelli che professano una fede religiosa – è strutturalmente priva di senso, se per senso intendiamo un quid che sta fuori dell’esistenza, qualcosa che ne è causa metafisica e ragione etica estrinseca.

Semplicemente perché questo quid non ha nessun fondamento filosofico e meno che mai scientifico.

E, però, la maggior parte degli uomini, una volta “gettati” nel mondo, sono in grado di trovare un senso alla loro vita, anche se un senso tutto interno ad essa, che non ha cioè niente di metafisico e di trascendente.

Un senso che è legato, infondo, al piacere del vivere, pur con tutte le sue interne e molteplici contraddizioni.

Per la maggior parte degli uomini (i cosiddetti “sani”) è “la volontà di vivere” che si impone emozionalmente sulla consapevolezza intellettuale che la vita non ha senso. E dà un senso comunque alla loro vita, oltrepassando la sua fondamentale e strutturale insensatezza.

In questo la maggior parte degli uomini sono stati e sono aiutati, sostenuti, dal clima di amore e di fiducia, che li ha accolti al momento di nascere e ne ha alimentato la voglia di vivere nei primi anni di vita.

Il senso nasce, può nascere, solo dalla presenza dell’Altro, di qualcuno che al momento della nostra nascita ci accoglie con amore e ci sostiene con affetto per tutta la fase (molto prolungata) della nostra crescita fino a quando non diventiamo adulti.

Senza questo clima (e a volte, purtroppo, succede che questo clima il bambino e poi il fanciullo e poi l’adolescente non lo incontrino) l’essere umano non solo è incapace di trovare un senso alla sua esistenza, ma si sente ospite indesiderato di questo mondo, si sente addirittura in colpa di essere nato.

Qui trova origine la condizione psicologica del soggetto malinconico, che aggiunge alla mancanza di senso strutturale e oggettiva del vivere (che – ripeto – è propria di tutti gli uomini) quella soggettiva e individuale, che è sua propria e che perciò assume i connotati della patologia, se per patologia intendiamo (come di solito si intende) tutto ciò che non rientra nella norma statistica.

© Giovanni Lamagna

Dialoghi attorno al volere e non volere

Tempo fa ho pubblicato su facebook un post che ha dato origine ad un dialogo con alcuni amici, dialogo che reputo di un qualche interesse. E per questo lo ripropongo.

Il post iniziale era il seguente:

Volere e non volere

Per quanto mi riguarda, per “volere il giusto” occorre (paradossalmente) non volere; occorre, cioè, sospendere la propria volontà; o, meglio, la volontà dell’Ego.

E affidarsi alla volontà dell’Alter-Ego, cioè del nostro “maestro interiore”, che ci ispirerà e suggerirà, momento per momento, cosa sarà giusto fare.

A seguire il dialogo che ne è scaturito.

P. R. : Il tuo è un modo ateistico di affidarsi a chi non si conosce, come fa il credente; due idealizzazioni distinte: una dentro me e l’altra fuor di me. È solo una questione di scelta, ma il risultato è identico.

Giovanni Lamagna: Nel mio caso io conosco bene chi è colui a cui mi affido, il mio “maestro interiore”.

E’ la sintesi, la sovrapposizione simbolica di tutti i maestri in carne ed ossa che ho conosciuto, incontrato nel corso della mia vita.

E’, dunque, esterno ed interno allo stesso tempo: un esterno che è diventato interno, interiore.

B. C. : Giovanni cosa ti fa supporre che il “maestro interiore” sia più giusto dell’Ego? E cosa intendi per Ego? L’io cosciente (e quindi anche senziente e volente) o qualche altra cosa?

G. L. : In questo caso per Ego intendo qualcosa che sta a metà tra l’ES freudiano e l’EGO sempre freudiano.

Qualcosa che non è più il puro istinto o la pura pulsione (l’Es freudiano), ma non è neanche la piena coscienza (l’Ego freudiano).

E’ qualcosa che ha preso consapevolezza della realtà, dei limiti che la realtà pone all’Es. E quindi è già coscienza, non è più inconscio.

Ma non ha ancora preso consapevolezza di quali sono tutte le sue potenzialità.

Queste, a mio avviso, non ce le rende consapevoli solo la realtà (che in molti casi, invece, tende a mortificare le nostre potenzialità), ma ce le fanno intravedere i Maestri, quando e se abbiamo la fortuna di incontrarli e riconoscerli (perché non basta solo incontrarli, bisogna pure riconoscerli come tali) nel corso della nostra vita.

L’insieme, la sovrapposizione simbolica (diciamo pure la sintesi di tutti questi Maestri in carne ed ossa), forma, costituisce dentro di noi una sorta di Maestro interiore, che è quello che io chiamo l’Alter Ego.

Che può guidarci con la sua saggezza, non facendoci appiattire semplicemente su ciò che chiamiamo (spesso un po’ troppo frettolosamente) “la realtà”. A questo “Maestro interiore” io affido la mia volontà.

Non certo per una sorta di fede religiosa, ma perché ho una fiducia, più volte confermata dall’esperienza, in lui.

Almeno fino a prova contraria. Fino a quando cioè un altro/nuovo maestro non metterà in discussione (ai miei occhi) gli insegnamenti del mio attuale “maestro interiore”. Cosa che segnerebbe (come a volte mi è successo in passato) una svolta nella mia vita.

B. C. :Allora nella tua topica abbiamo:

– l’ego freudiano (la piena coscienza),

– l’ego “lamagnano” (a metà tra l’ego freudiano e l’es freudiano)

– il super-io freudiano

– l’es freudiano

– l’alter-ego (il maestro interiore, sintesi di tutti gli altri ego)

Corretto? E’ una tua concezione originale o l’hai presa da qualche autore?

Rimane la mia domanda: cosa ti fa supporre che il maestro interiore sia il più saggio di tutti? Solo una “fiducia sperimentata”?

Giovanni Lamagna: La tua mi sembra una ricostruzione abbastanza corretta, nella quale mi riconosco abbastanza.

A parte la definizione dell’Ego freudiano come “piena coscienza”. Per me l’Ego freudiano è troppo appiattito sulla cosiddetta (presunta) “realtà”. E’ insomma più realista del Re.

Per me la “piena coscienza” è fatta anche degli insegnamenti dei Maestri, che mi hanno insegnato non solo a tener conto dei limiti della cruda realtà, ma anche delle sue (non sempre visibili ed esplicite) potenzialità.

No, questa mia “concezione” non l’ho presa da nessuna parte: è il frutto della mia esperienza e della mia riflessione.

Se poi, prima di me (come è probabile), altri sono arrivati alle stesse idee, non è da loro che ho ricavato le mie. Vuol dire che in questo caso ho sfondato, senza saperlo, delle porte già aperte.

Quanto alla tua ultima domanda: il “mio maestro interiore” è PER ME il più saggio di tutti, perché, se ritenessi che ce n’è un altro più saggio, ovviamente seguirei questo.

Non ho la pretesa, però, che sia il più saggio in assoluto, che cioè lo sia anche per gli altri: mi basta che lo sia PER ME.

In ogni caso la mia fiducia in lui (come già scrivevo prima) è sempre condizionata: la sottopongo a verifiche continue e mai definitive, valevoli cioè una volta e per sempre.

In altre parole, ho fiducia, ma allo stesso tempo sto all’erta e in un certo senso diffido. Anche di quello che considero il mio Maestro interiore. Dubito ergo sum!

© Giovanni Lamagna