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“Verità” e insicurezze.

Molti uomini hanno bisogno di credere in “verità” certe, assolute, senza ombre e dubbi; “verità” totalizzanti, al limite del dogma e dell’irrazionale.

Con queste “certezze” puntellano, mascherano, a volte in modo grossolano, perfino pacchiano, il loro profondo senso di insicurezza, fragilità, precarietà.

© Giovanni Lamagna

Autenticità.

Una persona è tanto più autentica quanto più è capace di confessare e non nascondere le proprie paure, le proprie fragilità, le proprie insicurezze.

Una persona troppo sicura di sé, che ostenta solo gioia ed allegria, che vanta solo i propri successi e nasconde le eventuali cadute, non è una persona autentica.

E, forse, non è neanche una persona tanto forte e sicura di sé come vuole apparire.

© Giovanni Lamagna

Cosa distingue un soggetto melanconico da chi melanconico non è

Nel suo libro “Le nuove melanconie” Massimo Recalcati, a pag. 13, così afferma: “La colpa del soggetto melanconico non si riferisce… realmente a nessun atto del soggetto ma alla sua stessa esistenza: è colpa di esistere. E’ colpa di un’esistenza che si trova gettata nel mondo in una condizione insormontabile di inermità e di sconforto radicale…

All’origine del vivente non è il senso ma la vita fuori dal senso, la vita come pura esistenza, eccesso insensato del vivente… dove l’esistenza appare come una protuberanza priva di valore, presenza senza senso, angoscia assoluta”.

Il primo pensiero che mi è venuto leggendo questo testo è il seguente: quella di ritrovarsi “gettata nel mondo in una condizione di insormontabile inermità” è la condizione di ogni essere umano che viene al mondo, non solo quella del soggetto melanconico.

Non c’è essere umano che venga al mondo in una condizione di forza, se non proprio di onnipotenza.

Da questo primo pensiero ne sono seguiti di gli altri che seguono, concatenati tra di loro; almeno a me così sembra.

Ciò che fa la differenza tra il soggetto cosiddetto “normale” e quello melanconico sta nel fatto che il soggetto melanconico della sua condizione di debolezza, fragilità, precarietà strutturale, “contingenza illimitata”, come dice spesso Recalcati, comune a tutti gli esseri umani, senza nessuna distinzione, si fa addirittura una colpa.

E questo lo porta a sperimentare non solo la pena e la fatica del vivere che sono “normali”, perché connaturate all’esistenza di qualsiasi essere umano, ma uno “sconforto radicale”, un’angoscia assoluta, originati dalla percezione di una mancanza totale di senso.

La condizione umana – quella di tutti gli uomini, paradossalmente anche e addirittura di quelli che professano una fede religiosa – è strutturalmente priva di senso, se per senso intendiamo un quid che sta fuori dell’esistenza, qualcosa che ne è causa metafisica e ragione etica estrinseca.

Semplicemente perché questo quid non ha nessun fondamento filosofico e meno che mai scientifico.

E, però, la maggior parte degli uomini, una volta “gettati” nel mondo, sono in grado di trovare un senso alla loro vita, anche se un senso tutto interno ad essa, che non ha cioè niente di metafisico e di trascendente.

Un senso che è legato, infondo, al piacere del vivere, pur con tutte le sue interne e molteplici contraddizioni.

Per la maggior parte degli uomini (i cosiddetti “sani”) è “la volontà di vivere” che si impone emozionalmente sulla consapevolezza intellettuale che la vita non ha senso. E dà un senso comunque alla loro vita, oltrepassando la sua fondamentale e strutturale insensatezza.

In questo la maggior parte degli uomini sono stati e sono aiutati, sostenuti, dal clima di amore e di fiducia, che li ha accolti al momento di nascere e ne ha alimentato la voglia di vivere nei primi anni di vita.

Il senso nasce, può nascere, solo dalla presenza dell’Altro, di qualcuno che al momento della nostra nascita ci accoglie con amore e ci sostiene con affetto per tutta la fase (molto prolungata) della nostra crescita fino a quando non diventiamo adulti.

Senza questo clima (e a volte, purtroppo, succede che questo clima il bambino e poi il fanciullo e poi l’adolescente non lo incontrino) l’essere umano non solo è incapace di trovare un senso alla sua esistenza, ma si sente ospite indesiderato di questo mondo, si sente addirittura in colpa di essere nato.

Qui trova origine la condizione psicologica del soggetto malinconico, che aggiunge alla mancanza di senso strutturale e oggettiva del vivere (che – ripeto – è propria di tutti gli uomini) quella soggettiva e individuale, che è sua propria e che perciò assume i connotati della patologia, se per patologia intendiamo (come di solito si intende) tutto ciò che non rientra nella norma statistica.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di anziani

La terza età non è la stessa, inesorabilmente uguale per tutti: vi si può arrivare in due modi molto diversi e distanti tra di loro. Per cui possiamo parlare a buon ragione di due tipi di anziani.

L’uomo o la donna giunti alla terza età (una volta per terza età si intendeva quella che incominciava dopo la soglia dei 50 anni; oggi questa soglia – considerate le migliorate condizioni di vita e, quindi, di salute della popolazione e il conseguente allungamento della vita media – la si può situare anche dopo i 60 anni) tendono a irrigidirsi non solo nel corpo e quindi nei movimenti, come è fisiologico che accada, ma anche nei modi di sentire, di pensare e nei comportamenti, nei modi di essere, che ne conseguono.

L’uomo anziano, in genere, è schiavo delle sue abitudini; poco aperto alle novità, anzi tendenzialmente chiuso, giudicante: non solo verso le nuove mode (cosa che per certi aspetti sarebbe addirittura un dato positivo), ma anche nei confronti delle ovvie e naturali evoluzioni scientifiche, tecniche, economiche, sociali, culturali, politiche (e questo non sempre è positivo, anzi – a dire il vero – non lo è quasi mai).

Non a caso frasi tipiche pronunciate dagli anziani sono: “Ai miei tempi queste cose non si vedevano, non succedevano…”, “bei tempi andati!”.

Insomma, l’uomo anziano nella maggioranza dei casi ha lo sguardo rivolto all’indietro, verso il passato, e il sentimento che lo domina è quello della nostalgia, accompagnata spesso da un cinico disincanto, se non da una vera e propria mancanza di fiducia verso il futuro e verso le generazioni che vengono dopo di lui.

E tuttavia questo, anche se molto frequente, non è affatto l’esito scontato e inevitabile della evoluzione (o, meglio, involuzione) psicologica dell’uomo anziano.

Ci sono, infatti, uomini anziani (anche molto anziani) che restano vigili e aperti di fronte alle novità, che ancora si incuriosiscono e vogliono apprendere e imparare. Che non disprezzano i giovani e meno che mai le persone di mezza età, ma amano confrontarsi con loro, non per sposarne acriticamente i modi di pensare e i comportamenti, ma per in alcuni casi continuare a testimoniare i propri, in altri arrivare invece a metterli in discussione e, perfino, rivederli.

Questi anziani, proprio perché ben consapevoli della fragilità fisica ma anche emotiva e psicologica in senso lato della loro età, anziché difendersi, irrigidendosi nella nostalgia del tempo che fu, nella difesa di idee e scelte passate, con l’avanzare dell’età, si ammorbidiscono e sono aperti a mediazioni e compromessi ai quali da giovani non erano neanche lontanamente disponibili.

Sono capaci pertanto di aprirsi a visioni del mondo che sarebbero state inconcepibili per loro quando erano giovani e che in alcuni casi lo sono perfino per quelli molto più giovani di loro.

Ad esempio, divengono molto più tolleranti ed aperti sulle questioni dell’amore e, perfino, del sesso. Sono ben consapevoli che per loro si è esaurita la stagione dell’amore romantico, unico ed eterno, ed in fondo non ne hanno manco così tanta nostalgia, perché sono adesso in grado di vederne tutti i limiti, le ingenuità, gli aspetti perfino un po’ patetici e ridicoli.

Si aprono allora magari ad una visione più promiscua e comunitaria dei rapporti tra i sessi, in cui prevale meno il senso del possesso e più quello della condivisione, dell’amicizia più che della sessualità in senso stretto, anche se questi rapporti non escludono né la sessualità né, tantomeno, l’erotismo.

Insomma questi anziani sono capaci, forse ancora più di quando erano giovani e perfino più di tanti giovani di oggi, di aprirsi ad una visione giocosa e allegra dell’esistenza, ben lontana da quella cupa e a volte addirittura lugubre che spesso affligge la vita degli anziani del primo tipo, quelli che ho provato a descrivere all’inizio.

Anziani che sono restati o tornano ad essere, con l’avanzare degli anni, un po’ bambini o fanciulli, ma nel senso positivo e non regressivo del termine: capaci di stupirsi, gioire e divertirsi ancora, senza per questo scadere nell’incoscienza, nell’imprudenza, nella impulsività o mancanza di discernimento che caratterizza i bambini e i fanciulli.

Quando la tragedia entra a gamba tesa nella tua vita

6 maggio 2015

Quando la tragedia entra a gamba tesa nella tua vita.

Che cosa può spingere un uomo ancora giovane (45 anni), bello, sano, forte, con un lavoro sicuro, di carattere aperto e gioviale, apparentemente sereno, tranquillo, mite, a tornare a casa una notte e ad uccidere la moglie 42enne e il figlio 11enne, che dormivano tranquilli e inconsapevoli nei loro letti, e poi a togliersi a sua volta la vita dopo averla tolta alle due persone a lui più care?

Che cosa deve essere successo nella testa e nel cuore di questa persona, quale fantasma deve averlo raggiunto ed essersi impadronito di lui, quale istinto perverso deve averlo spinto a compiere un gesto di una tale inaudita violenza distruttiva e autodistruttiva?

A queste domande non ci sono apparenti risposte. A maggior ragione se questa persona la conoscevi, l’avevi incontrata più volte, in situazioni serene, distese, per molti aspetti addirittura felici, in genere in vacanza (ci si incontrava da anni ogni estate, si abitava vicini, nello stesso villaggio, la nostra casa a fianco alla loro).

L’unica risposta possibile è che la nostra mente e il nostro cuore, la nostra persona insomma, la persona che ognuno di noi è, galleggiano evidentemente su un mare di fragilità, debolezze, che la precarietà, “un’illimitata contingenza” (come la definisce Recalcati) sono veramente (non sta scritto solo nei libri di psicopatologia) un dato strutturale del nostro essere umani.

Galleggiamo su questo mare, solo una misteriosa forza psichica ci tiene sospesi, ma in ogni momento possiamo affondarvi.

Nessuno di noi può affermare: “A me non potrebbe capitare!” Anche Alfredo, probabilmente, fino all’altro giorno avrebbe detto la stessa cosa: “A me non potrebbe capitare!”

Poi apri il giornale, in un tranquillo e caldo pomeriggio di quasi estate, di estate anticipata, e leggi l’articolo che descrive la tragedia avvenuta e, dopo pochi righi, scopri che i nomi dei suoi protagonisti tu li conosci.

Sulle prime non vuoi crederci: no, non è possibile, sarà un’omonimia… No, a me questo non può capitare! E non può capitare neanche a persone che io conosco, che ho frequentato e visto tante volte! No, questa assurdità non può entrare nella mia vita e manco sfiorarla!

Poi dopo qualche secondo vedi che tutto combacia (il nome dell’assassino suicida, il nome della povera giovane moglie ammazzata, la casa dove abitavano…) e sei costretto/a a prendere coscienza che, invece, questa volta è accaduto proprio a te, che una tragedia infinita è entrata nella tua casa, nella tua vita.

Ti metti nei panni di quel povero padre, che manco a farlo apposta avevi sentito al telefono qualche giorno prima e col quale avevi parlato del più e del meno ed era sereno, tranquillo, come può esserlo un uomo che aveva vissuto e viveva ancora i drammi che tutti prima o poi siamo costretti a incontrare nella nostra vita, ma che cercava di farsene una ragione e mi aveva chiesto di mia figlia e del mio nipotino, ti metti nei panni di questo padre che cercava di comunicare al telefono con la figlia dalla mattina e la figlia non gli rispondeva e, allora, allarmato si era recato a casa della figlia, aveva bussato alla porta e nessuno gli apriva e allora era andato a prendere una chiave per aprire, ha aperto e si è trovato davanti un mondo distrutto.

Mi metto nei panni di questo padre amico e mi vedo al suo posto. Sento che la tragedia è entrata nella mia vita. Sento (per la prima volta) che una cosa che “a me non poteva accadere”, invece, “è accaduta proprio a me”.

Scopro tutta la mia fragilità, quella del mondo che mi circonda, soprattutto quella dei miei affetti più cari e mi prende una sorta di ansia, di paura. Avverto sotto di me il baratro. Galleggio, ma ho paura di affondare. Chi mi garantisce più? Sento che la mia vita e quella delle persone che amo è appesa a un filo. Sento che la follia mi appartiene, non è altro da me, che fa parte della mia vita. Ne sono spaventato.

Provo a restare a galla. A rimuovere il pensiero del baratro che è sotto di me. Ma è dura, molto dura!

Giovanni Lamagna