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Norme esterne e norme interne.

Tutti quanti noi siamo obbligati da certe norme e non siamo obbligati (almeno in senso stretto) da altre, che pure possiamo definire norme.

Le prime sono norme che si impongono a noi dall’esterno, le seconde ci vengono dall’interno.

Siamo sicuramente obbligati ad obbedire (anche se alcuni manco a queste si sentono vincolati) alle norme giuridiche, alle leggi che regolano la vita della società di cui siamo parte.

Siamo obbligati ad obbedire alle norme non giuridiche, ma non per questo meno stringenti (si chiamano “convenzioni sociali”), che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte, a cominciare da quelle della famiglia.

A meno che non vogliamo correre il rischio di esserne prima o poi cacciati via, espulsi; moralmente, psicologicamente, se non proprio fisicamente e materialmente.

Non siamo, invece, obbligati, in senso stretto, ad obbedire alle norme morali, che rappresentano qualcosa in più delle norme del diritto positivo che regolano le società/Stato e delle norme, più o meno formali ma non giuridiche, le convenzioni. che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte.

Voglio dire: non siamo obbligati in senso stretto, cioè nel senso letterale del termine; l’obbligo in senso stretto prevede, infatti, un vincolo, diciamo pure una minaccia esterni e delle sanzioni nel caso di sua trasgressione.

Ma siamo allo stesso tempo obbligati, anche se solo in senso metaforico.

Nel senso che la coscienza, il foro interiore (che è cosa ovviamente diversa dal foro esteriore dei tribunali civili e penali), ci pone davanti a delle norme (che definiamo morali), al cui rispetto non ci obbliga con la minaccia di sanzioni fisiche, materiali, ma facendoci sentire in colpa quando le trasgrediamo.

I sensi di colpa che proviamo quanto contravveniamo a una legge morale che ci detta la coscienza sono dunque sanzioni del tutto interiori, puramente intrapsichiche, diverse da quelle esteriori ed anche fisiche, che impongono talvolta le leggi sociali e comunitarie.

Ma sono pur sempre sanzioni, tanto che alle volte fanno stare male il soggetto che le subisce ancora più di quelle fisiche del diritto positivo o delle regole comunitarie.

A loro volta questi sensi di colpa (e le sanzioni morali che essi infliggono) sono di due tipi.

Ci sono sensi di colpa che proviamo verso gli altri: quando, ad esempio, mostriamo disattenzione o mancanza di rispetto verso la loro persona, quando non diamo loro l’amore che essi meriterebbero o si attenderebbero da noi, quando non manteniamo la parola loro data.

E questi sono i sensi di colpa che è più facile avvertire, perché se non li avvertiamo da soli (perché la nostra coscienza morale è debole, fragile, poco salda e sviluppata), sono gli altri che ce li rimandano e ce li fanno pesare.

Ma ci sono anche i sensi di colpa che a volte proviamo da soli verso noi stessi; quando, ad esempio, ci facciamo prendere dalla pigrizia, dall’indolenza, quando siamo sopraffatti dalla paura delle novità e del cambiamento.

Quando per vigliaccheria, per i sensi di colpa che proviamo verso delle regole sociali (convenzioni) che ce li vietano, non riconosciamo i nostri desideri legittimi.

O quando, per conformismo e quieto vivere con chi ci fa sentire non meritevoli di goderne, rinunciamo a realizzare aspirazioni del tutto alla nostra portata.

“Non c’è peccato più grande che cedere sul proprio desiderio”: diceva Lacan; ed è profondamente vero: lo sa bene chi lo ha sperimentato sulla propria pelle.

Proviamo, in altre parole, sensi di colpa verso noi stessi quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione fondamentale, al compito che il destino ha assegnato alla nostra vita.

Gli antichi Greci, non a caso, utilizzavano la parola composta “eudaimonia” (eu: buono + daimon: demone = fedeltà al proprio demone interiore) per indicare lo stato d’animo della felicità.

Per converso, possiamo, dunque, dire che noi ci condanniamo all’infelicità, ovverossia ad una vita piena di rimpianti e di sensi di colpa, quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione.

Questi sensi di colpa sono più difficili da avvertire, perché non insorgono in noi attraverso censori esterni.

Anzi, in genere, per non avvertirli, noi cerchiamo conforto proprio nell’approvazione degli altri, che in questo caso spesso ce la danno facilmente e ben volentieri, in nome di una solidarietà malsana, che mal cela a sua volta la propria cattiva coscienza, quella che Sartre chiamava “malafede”.

Questi sensi di colpa si manifestano però in molti casi attraverso svariati sintomi, di gravità più o meno accentuata: un’ansia e un nervosismo permanenti, una tristezza ricorrente, una malinconia diffusa, nei casi estremi una vera e propria depressione acclarata.

Sintomi che appesantiscono e, a volte addirittura, opprimono il nostro animo e non poche volte vengono anche somatizzati (mal di testa, mal di stomaco, nausea, spossatezza cronica, sonnolenza, labirintite…).

Sintomi che possono degenerare fino alla follia; ad esempio, nelle forme della paranoia e della schizofrenia; o, specie quando si invecchia, nella demenza senile.

© Giovanni Lamagna

Compagnia e solitudine.

“Non è bene che l’uomo sia solo…” dice il Signore Dio in Genesi 2,18

Ed è vero, concordo: gli uomini soli (come le donne sole, del resto) sono tristi e fanno tristezza.

Ma, c’è un ma.

Non ogni compagnia fa bene.

Ci sono compagnie che fanno male o fanno altrettanta tristezza che la solitudine.

Non a caso un vecchio adagio recita: “Meglio soli che male accompagnati”.

© Giovanni Lamagna

Lutto e nostalgia.

Giustamente Massimo Recalcati, nel suo “La luce delle stelle morte” (Feltrinelli, 2022) distingue il sentimento del lutto da quello della nostalgia; anche se questi due sentimenti hanno molte cose in comune.

Entrambi si riferiscono ad una perdita; il sentimento del lutto, però, ad una perdita recente, quello della nostalgia ad una perdita (più o meno) lontana nel tempo.

Il lutto ad una perdita che non è stata (appunto perché troppo recente) ancora elaborata.

La nostalgia ad una perdita che è stata oramai elaborata, assorbita, accettata, anche se non del tutto superata; come non lo sono mai del tutto le perdite, secondo Recalcati.

Il lutto, infatti, si riferisce ad una ferita ancora aperta, che sanguina ancora.

La nostalgia ad una ferita che oramai si è chiusa, cicatrizzata, ma che comunque ha lasciato un segno indelebile sulla pelle.

Il lutto vive di un dolore atroce, in certi casi disperato; nel lutto ci si sente mancare la terra sotto ai piedi; si può arrivare a provare la sensazione che niente abbia più senso, addirittura che non abbia più senso continuare a vivere.

La nostalgia è anch’essa accompagnata comunque da un dolore, ma un dolore che si è addolcito, che ha trovato consolazione, al termine di un tempo, di un processo, più o meno lungo, mai comunque troppo breve (dice sempre Recalcati), di elaborazione del lutto.

Con la nostalgia la perdita è vissuta ancora indubbiamente come una mancanza, ma una mancanza che il ricordo rende in qualche modo ancora – anzi di nuovo – presenza.

Il dolore della nostalgia non è più, dunque, un dolore disperato, ma è un dolore che ha ritrovato il senso e la voglia, nonostante tutto, di vivere.

Nel momento del lutto la vita di chi ha subito la perdita in qualche modo si blocca, si ripiega su stessa, ha lo sguardo tutto rivolto al passato, un passato estinto, che non tornerà mai più; il lutto è segnato dal pianto, dalle lacrime, spesso disperate.

Il sentimento della nostalgia, invece, è compatibile con la ripresa del fluire della vita, con la capacità di guardare in avanti, di sorridere al futuro, sia pure con lo sguardo velato dalla tristezza di chi – al pensiero della perdita della persona cara – continua (ancora e, forse, per sempre) a sentirne la mancanza.

© Giovanni Lamagna

Noi e la morte.

E’ bene pensare spesso alla morte.

Per diventare sempre più consapevoli che il nostro destino finale è quello di morire.

Non per vivere depressi le proprie giornate e neanche per condannarci alla tristezza, che sempre si accompagna al pensiero della morte.

Bensì per dare il giusto valore alle cose, dare alla nostra vita la giusta prospettiva.

Che non sarebbe ovviamente la stessa, se fossimo immortali o solo ci considerassimo destinati a non morire mai.

© Giovanni Lamagna

Il rapporto sessuale non esiste?

“Cosa significa affermare – come fa Lacan – che il rapporto sessuale non esiste?”: si chiede Massimo Recalcati nella prefazione al suo libro “Esiste il rapporto sessuale?” (Raffaello Cortina, 2021).

Ma, per quanti sforzi abbia fatto, io – francamente – non ho capito la sua risposta.

Perché una cosa è affermare che “la sessualità umana è un campo attraversato da onde sismiche che lo rendono instabile e precario”; e questo mi è chiaro, anzi del tutto evidente.

Altra cosa è affermare – come fa Recalcati – la radicale impossibilità e, quindi, inesistenza del rapporto sessuale; e questo non mi è per nulla evidente; anzi non riesco a comprenderlo per niente e quindi non lo condivido.

Tra l’altro è una tesi che trovo del tutto contraddittoria con le affermazioni finali di Recalcati: “La gioia non è però affatto estranea a questa instabilità e a questa precarietà. Essa può scaturire dall’Eros come una forza sorprendente, come un’affermazione della vita e della sua eccedenza.

Laddove poi questa forza conosce la convergenza con l’amore, ha la straordinaria possibilità di unire il corpo con il nome facendo esistere un erotismo capace di non restare imprigionato nell’ipnosi dell’oggetto, ma di manifestarsi come un’altra soddisfazione nella quale la pulsione sessuale non si oppone necessariamente all’amore, ma diventa una sua componente essenziale.”

Se queste ultime affermazioni sono vere (e per me lo sono), allora per potersi conciliare con quella precedente (“il rapporto sessuale non esiste”), ne dovremmo concludere che per Massimo Recalcati “manco il rapporto d’amore esiste”.

Ma è, può essere, davvero questo il pensiero di un autore, che a questo tema dell’amore ha dedicato montagne di parole in articoli, libri e perfino trasmissioni televisive? A mio avviso, no!

Ne devo dedurre allora che l’affermazione, molto perentoria, “il rapporto sessuale non esiste”, deve riferirsi al paradosso che è insito in ogni tipo di rapporto; e non solo in quello sessuale.

Quale paradosso?

Il paradosso in base al quale la pulsione libidica ci spinge verso l’altro/a con l’anelito a diventare una sola cosa con lui/lei; nel caso in cui la pulsione libidica assume (o, meglio, mantiene) le forme specifiche della sessualità, l’anelito è a diventare “una sola carne” con l’altro/a.

Anelito che, però, potrà realizzarsi solo in parte e solo per alcuni momenti, che, infatti e non a caso, vengono – da chi è riuscito, per suo merito o per sua fortuna, a sperimentarli – definiti magici.

Perché una volta che la fusione (reale o apparente, qui ha poca importanza approfondirlo) si allenta, l’incanto ad essa legato svanisce, perlomeno nella forma della (quasi) magia con cui si era presentato.

E allora si sperimenta che ciascuno essere umano è condannato ad una solitudine fondamentale, radicale, potremmo anche definire ontologica, dalla quale mai e poi mai potrà fuggire.

Questo non vuol dire che i momenti di amore, di intimità spirituale, e persino quelli di estasi carnale vissuti in certi momenti e situazioni siano (stati) puro sogno, fantasie o, addirittura, nient’altro che allucinazioni.

Vuol dire solo che l’amore e il rapporto sessuale tra due esseri umani sono realtà fragili, precarie, instabili, momentanee, onde sismiche, appunto, come lo sono tutte le realtà umane.

A cominciare dal piacere, che si alterna spesso al fastidio e persino al disgusto; dalla gioia, che si alterna alla tristezza; e, perfino, dalla felicità, che talvolta si alterna all’infelicità e, in certi momenti, addirittura alla disperazione.

Ma questo non mi porta a dire (e credo che non dovrebbe portare nessuno a dire) che non esiste il rapporto sessuale; né (tantomeno) che non esiste, non può esistere, l’amore tra due esseri umani.

© Giovanni Lamagna

Emozioni, sentimenti, passioni, ragionamenti.

Riferendosi alla tristezza e alla gioia, Montaigne così scrive: “Tali violente passioni hanno poca presa su di me. Io ho sensibilità tarda per natura. E la corazzo e ispessisco ogni giorno col ragionamento” (“Saggi”; Libro I, capitolo II; pag. 13).

Su questa affermazione dissento profondamente da Montaigne.

Sono convinto, infatti, sulla scorta delle lezioni ricevute dalla psicoanalisi in genere e dalla bioenergetica in particolare, che le emozioni e i sentimenti non vadano mai repressi, ma debbano essere liberati e lasciati fluire.

La mente, coi suoi ragionamenti, li deve tutt’al più filtrare e incanalare, mai reprimere.

Altrimenti ristagnano e imputridiscono, facendo marcire con loro tutta l’anima, quindi anche la mente.

© Giovanni Lamagna

Chi si interroga sul significato e il valore della vita è perciò stesso un nevrotico?

Freud, in una lettera a Marie Bonaparte, scrisse: “Nel momento in cui l’uomo si interroga sul significato e sul valore della vita, egli è malato, dato che oggettivamente non esiste nessuna delle due cose; col porre questa domanda uno sta semplicemente ammettendo di avere una riserva di libido insoddisfatta provocata da qualcos’altro, una specie di fermentazione che ha condotto alla tristezza e alla depressione.” (S. Freud; “Lettere 1873-1939”; Boringhieri, Torino 1960, pag.402).

Cosa pensare di fronte ad un’affermazione così drastica e lapidaria?

Personalmente penso che Freud abbia in parte ragione e in parte torto.

Ha ragione perché effettivamente, forse, l’uomo sano, cioè l’uomo non afflitto da nevrosi, non si fa di queste domande. E non ha motivi per farsele.

Perché, infatti, un uomo contento di vivere, soddisfatto della vita che conduce, si dovrebbe chiedere quale valore e significato ha la vita per lui?

Essa li ha e basta: la vita per lui ha valore e quindi significato; egli non ha bisogno di ricercarli in un altrove che non sia la sua stessa vita.

E però Freud, quando scrive le cose di cui sopra, per me ha anche torto.

Perché è vero che il valore e il significato della vita non sono da ricercare in un altrove, fuori della vita; ma non è affatto vero che la vita non abbia alcun valore e significato, come sostiene invece Freud.

Infatti, almeno per l’uomo contento e soddisfatto della sua esistenza, questo valore e questo significato – come ho già detto – stanno nella vita stessa.

D’altra parte non riesco a credere che Freud potesse immaginare un uomo sano, senza “una riserva di libido insoddisfatta”, quindi alieno da tristezza e depressione significative e importanti, che non desse valore e significato alla propria vita.

Inoltre questa idea (dell’uomo dalla libido pienamente soddisfatta, quindi ricco di joie de vivre) è più una categoria astratta e ideale che una situazione reale.

Freud stesso – che ha vissuto la sua vita a contatto continuo e profondo con la sofferenza intima degli altri (dei suoi pazienti) e al quale non sono mancate le sofferenze anche atroci nel corso della sua stessa vita – sicuramente ne era del tutto consapevole.

E allora come poteva non essere ugualmente consapevole che all’uomo – di fronte al dolore e al vero e proprio senso di estraniazione e di alienazione che egli può provare (anche spesso) nel corso della sua vita – viene spontanea, naturale e frequente porsi la domanda: che senso e significato ha la mia vita?

Che è poi la domanda – o almeno una delle domande – da cui nasce la filosofia.

A meno che Freud non considerasse la filosofia stessa una manifestazione di malattia, di nevrosi.

Cosa che non è da escludere, come ci testimonia Ludwig Binswanger nel suo libro “Ricordi di Sigmund Freud”: per Freud “la filosofia non è che una delle più acconce forme della sublimazione della sessualità rimossa”.

E, però, viene da chiedersi: la sublimazione (certamente necessaria per fare filosofia) è sempre segno di nevrosi e malattia?

Se fosse così, Freud sarebbe egli stesso un malato nevrotico (e anche piuttosto grave), visto che il suo pensiero e le sue scoperte sull’animo umano possono a buon diritto e con piena legittimità rientrare e trovare una collocazione non di poco rilievo nella storia della filosofia, di cui la psicologia come disciplina (e, quindi anche la psicoanalisi) è figlia.

Per concludere: sono portato a pensare che Freud nella lettera a Marie Bonaparte, dalla quale siamo partiti, si sia lasciato andare ad un’affermazione paradossale, per estremizzare un concetto.

Ma che non fosse neanche lui stesso del tutto convinto di quello che stava affermando, negando o meglio svalutando il senso di domande che ciascuno di noi si è posto e si pone (anche di continuo) nel corso della sua vita.

E che forse (o senza forse) lo stesso Freud si sarà posto più volte nel corso della sua.

Ora è vero che, almeno in una qualche misura, siamo tutti nevrotici. E su questo concordo pienamente. Non penso, tuttavia, che lo siamo perché ci poniamo domande di questo tipo, sul senso e sul significato della vita.

Anzi, penso esattamente il contrario: che sono proprio gli uomini che non si sono mai posti e mai se le pongono queste domande ad essere i nevrotici più gravi.

© Giovanni Lamagna

Piccola proposta per la mezzanotte del prossimo 31 dicembre

Vorrei lanciare una modesta, piccola idea/proposta.

Alla mezzanotte del prossimo 31 dicembre non possiamo stappare lo spumante, mangiare il panettone, abbracciarci per festeggiare l’inizio del nuovo anno con i nostri cari e, magari, sparare i botti, come se nulla fosse, come se si stesse concludendo un anno come un altro, come se in questo 2020 non fosse successo nulla di particolare.

Non possiamo, se siamo ancora umani, farci prendere dalla sbornia della festa per il nuovo inizio e rimuovere il pensiero che l’anno trascorso si è portato via – solo nel nostro paese – 70mila persone (uomini e donne in carne ed ossa e non semplici numeri), migliaia di morti in più rispetto a quelli che comunque ci sarebbero stati, in base alle (fredde e anonime) statistiche degli ultimi anni.

La proposta che faccio è questa: a mezzanotte, prima di festeggiare l’inizio del nuovo anno, come è giusto che sia, visto che la vita comunque continua e deve continuare, fermiamoci per un istante, un breve, piccolo istante, non più di un minuto, mettiamo magari una candela accesa fuori a un nostro balcone o ad una nostra finestra, e raccogliamo il nostro pensiero in memoria dei nostri morti.

Sarebbe un bel modo, a mio avviso, di cominciare il nuovo anno: dimostrerebbe la nostra capacità di coniugare memoria e sguardo in avanti, dolore e speranza, tristezza e fiducia, realismo e ottimismo, morte e vita.

Se a questi sentimenti aggiungessimo poi il proposito di “cambiare radicalmente rotta”, di mutare vecchie e insane abitudini in nome di una vita più a misura di umanità, perché niente più torni come prima (del Covid 19), sarebbe il non plus ultra.

Che ne dite?

© Giovanni Lamagna

C’è amore e amore.

1 ottobre 2016

C’è amore e amore.

Per alcuni amare è semplicemente donare oggetti. Fare regali. E’ quello che fanno, ad esempio, molti genitori con i loro figli.

O fare la carità: portare in parrocchia i propri abiti dismessi o dare un euro al mendicante che ci chiede l’elemosina per strada.

Per altri – stiamo già ad un livello più avanzato – amare è mettere se stessi a disposizione dell’altro (o degli altri).

Ma a prescindere da quelli che sono i desideri dell’altro.

Ad esempio, l’altro non ha voglia di stare in compagnia, desidererebbe starsene da solo. Ma siccome io penso che amare l’altro significhi fargli compagnia (sempre e comunque), allora gli impongo la mia vicinanza, nonostante egli desideri altro.

Oppure, per fare un altro esempio, l’altro è triste e vorrebbe elaborare (o, addirittura essere aiutato ad elaborare) la sua tristezza. Ma, siccome io penso che amare l’altro significhi farlo uscire dalla sua tristezza, allora gli “impongo” i miei sorrisi e la mia allegria (magari addirittura forzando il mio vero, reale e profondo stato d’animo, se in quel momento non è per niente allegro).

Per costoro l’amore è indossare una maschera o recitare una parte, un copione già scritto e imparato a memoria.

Per altri l’amore è in primo luogo mettersi dal punto di vista dell’altro, entrare (o, almeno, provarci) a entrare in contatto con lui, non solo fisicamente ma innanzitutto spiritualmente.

E’ in primo luogo capire o, meglio, intuire di che cosa l’altro ha veramente bisogno o desiderio. E poi fare quanto è possibile per soddisfare il bisogno o il desiderio dell’altro.

E’ quest’ultimo per me il vero amore.

P.S. In questi giorni si trova qui da me uno dei miei fratelli che risiede a Roma. Si è beccato una brutta influenza. Io avrei voluto, desiderato trascorrere il tempo con lui a conversare, a raccontarci di noi.

Ma lui non stava bene, si è messo a letto, chiuso quasi sempre nella camera che gli abbiamo messo a disposizione, spesso ha dormito.

Pochissima comunicazione, quindi, tra di noi. Il mio contatto con lui si è esaurito quasi del tutto nel portargli le medicine, il cibo, un bicchiere d’acqua, chiedergli ogni tanto come si sentiva: corrispondere, insomma, ai suoi desiderata.

Per me l’amore è questo: fare ciò che l’altro desidera, perché egli stia bene o (come nel caso di cui sopra) il meno male possibile; aggiornare la mia idea iniziale, rendermi plastico, flessibile; agire in base non ai miei desideri (o, perlomeno, non solo), ma anche (anzi soprattutto) in base ai desideri dell’altro.

Giovanni Lamagna

Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).

9 novembre 2014

Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).

Sono giunto al termine del mio viaggio all’interno di Genesi 2,7 – 3,24. Tiro quindi qualche conclusione.

E’ del tutto evidente che il racconto biblico non è un racconto storico. Ma non è neanche una semplice favoletta. Rientra piuttosto nella categoria dei miti, cioè di quei racconti che, pur se sotto forma di “favola” (ci sono aspetti favolistici nel mito), tendono a dire cose che hanno a che fare con “i misteri del mondo, le sue origini, i suoi valori, il suo senso”, con la natura profonda dell’uomo, addirittura con i suoi archetipi, direbbero gli junghiani.

Come tutti i miti, quindi, esso non va preso alla lettera, ma interpretato. Anche alla luce della propria cultura, quindi al di fuori del contesto storico e/o geografico nel quale esso è nato ed è stato trascritto.

Quattro sono le figure principali che animano il mito di Genesi e due i contesti spaziali nei quali esse si muovono ed agiscono. Ogni figura interpreta un ruolo ed ha un significato. Anche i due contesti spaziali lo hanno.

Il primo attore del mito è Dio il Signore, che nel mito della Genesi, a mio avviso, rappresenta la Legge o, meglio, la cattiva coscienza dell’uomo, il Super Ego, la segnalazione del Limite, oltre il quale si corre il rischio della “caduta”, della perdizione e, quindi, della condanna.

Il secondo attore è il serpente, il quale, secondo la mia interpretazione, in questo mito rappresenta il Desiderio, che è il motore di ogni azione dell’uomo.

Rappresenta, quindi, secondo il linguaggio psicoanalitico, l’Es. Che, lasciato allo sbando, cioè senza il confronto con la Realtà e quello con la Legge, condanna l’uomo alla perdizione.

L’uomo, a mio avviso, si trova ad agire, a navigare sempre tra le opposte rive di Scilla, cioè della Legge, e di Cariddi, cioè del Desiderio.

Se rinuncia del tutto al Desiderio si condanna all’inazione e alla passività.

Se vive solo in funzione della Legge e della repressione del Desiderio, diventa triste, malinconico.

Se si abbandona del tutto al Desiderio, si condanna alla dissipazione e alla disintegrazione interiore.

Se ignora del tutto la Legge, non è in grado neanche di godere pienamente del desiderio, perché l’esistenza della Legge, lungi dal deprimere il desiderio, lo esalta.

Adamo, in questo mito, rappresenta l’Uomo ad uno stadio ancora “bambino”.

E non certo perché cede alla tentazione del suo desiderio. Non sarebbe stata, infatti, una scelta saggia obbedire a una Legge che lo voleva “felice” ma, al contempo, non libero e non consapevole. Quanto perché non sa assumersi la responsabilità dell’azione commessa. Addirittura la scarica sulla sua compagna Eva.

Adamo è dunque l’Uomo ancora bambino, che deve ancora crescere. E molto!

Eva dimostra maggiore maturità rispetto al compagno Adamo. Se non altro è più coraggiosa e intraprendente. Ma anche lei, di fronte alla voce della sua coscienza che la rimprovera, non sa assumersi fino in fondo la sua responsabilità e la scarica puerilmente sul serpente.

Anche Eva è dunque una donna ancora bambina, ha bisogno di crescere. E molto!

Entrambi, Adamo ed Eva, nel mito di Genesi rappresentano dunque l’Umanità nella fase, nello stadio che potremmo definire della fanciullezza. Ci vorranno ancora alcuni millenni perché l’Umanità arrivi allo stadio della sua piena maturità, impari cioè a riconoscere fino in fondo il proprio desiderio, ad affermarlo anche di fronte alla Legge, senza farsene del tutto inibire, ma senza neanche farsi del tutto travolgere da un desiderio senza Legge.

Oggi, forse, l’Umanità (almeno quella del mondo occidentale industrializzato evoluto) si trova nella fase della sua adolescenza, in una fase in cui ha imparato a riconoscere e ad affermare il suo Desiderio, ma prescindendo totalmente dalla Legge, come se questa non avesse più nessun senso e nessuna funzione.

I due contesti spaziali del mito a cui accennavo all’inizio sono quello dell’Eden, cioè del Paradiso in terra, e quello del Mondo alla sua alba, cioè alla preistoria dell’Umanità.

L’Eden, più che il Paradiso perduto, come vorrebbe farci intendere il Mito, è il Mondo come l’Umanità lo sogna, è l’Utopia, il Mondo come l’Uomo vorrebbe che fosse o diventasse. E’ il Mondo del futuro (auspicato e sognato) e non del passato (di cui si ha nostalgia e rimpianto).

Il Mondo della preistoria, il mondo nel quale l’Uomo è stato gettato a vivere quando è comparso sulla terra, è un luogo infame, inospitale, dove l’uomo è costretto a un duro lavoro per procurarsi il cibo e la donna è costretta alle doglie tremende (talvolta mortali) del parto per assicurare continuità alla specie.

Non è il luogo a cui l’Uomo è stato condannato dopo aver commesso una colpa, ma è il luogo a cui lo ha destinato la Natura, che proprio così lo ha pensato e creato.

Sarà l’Uomo, se vorrà e se ne sarà capace, (e nessun Dio al suo posto) a renderlo un posto meno inospitale e più a dimensione dei suoi desideri.

Ma, per realizzare il suo desiderio, l’Uomo ha bisogno di coltivare un sogno, anzi un’utopia. L’utopia che nel mito della Genesi è rappresentato dall’Eden, dal Paradiso Terrestre originario.

Mai esistito nella realtà, ma della cui Idea l’uomo ha bisogno per provare a costruirlo, per farlo diventare davvero realtà.

Giovanni Lamagna