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Occidente e Oriente: confronto utile, anzi necessario.

Il confronto tra Occidente e Oriente è affascinante; perché questi due mondi sembrano essere andati, nel corso della Storia, in due direzioni contrarie, perfino opposte; mentre oggi, grazie alla globalizzazione, sembrano finalmente incontrarsi.

Il primo ha privilegiato l’azione (anzi un attivismo esagerato, addirittura esasperato), il progresso scientifico e tecnologico, la rincorsa al benessere materiale, che è sfociata negli ultimi decenni nel consumo molte volte fine a sé stesso, il consumismo.

Il secondo ha privilegiato, invece, la contemplazione (fino a sfiorare l’inazione), l’adeguamento ai ritmi lenti della natura, la messa in secondo piano, nelle gerarchie valoriali, del progresso materiale rispetto a quello spirituale.

Nessuno dei due, a mio avviso, può (e dovrebbe) vantare superiorità culturale rispetto all’altro.

Perché ciascuno di essi ha sviluppato, anche se in maniera forse troppo unilaterale, aspetti fondamentali dell’umano.

Semmai essi avrebbero bisogno (come da un po’ di decenni, in verità, sta avvenendo) di incontrarsi e integrarsi.

Prendendo ciascuno i pregi dell’altro e superando i propri limiti e le proprie unilateralità.

© Giovanni Lamagna

A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India e Cina sta tramontando (se non è già tramontato) il Buddhismo (ma lo stesso discorso lo si potrebbe fare per l’Induismo); in Occidente già da tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo (ma si può dire altrettanto dell’Ebraismo).

Tutte e quattro queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza buttare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione”, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità storica.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, ho l’impressione, ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio di Era, come lo fu quello dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.

Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio

E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…

La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…

L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”

Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.

Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.

Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.

C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.

C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.

Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.

Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.

Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.

Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.

Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.

Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.

E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.

Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.

In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.

Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.

Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.

Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).

E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.

Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.

Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.

© Giovanni Lamagna

Non c’è alcun futuro per una visione religiosa dell’esistenza?

L’umanità (o, meglio, questa parte dell’umanità di cui faccio parte, l’umanità dell’Occidente “avanzato” e “progredito”, l’umanità del Primo Mondo, a evidenziare e sottolineare l’esistenza di una gerarchia tra diversi mondi, gerarchia stabilita ovviamente da chi si sente orgogliosamente, anzi presuntuosamente, diciamo pure narcisisticamente, parte del Primo Mondo) ha stabilito ad un certo punto (a partire decisamente dalla fine del 1800, ma il percorso che ha portato a questo esito era iniziato già tre o quattro secoli prima) che, tenuto conto dei progressi delle scienze e delle filosofie, che avevano evidenziato con un sufficiente grado di attendibilità l’inesistenza di Dio o, quantomeno, l’impossibilità di una dimostrazione razionale della sua esistenza, non solo le religioni storiche tradizionali non avevano più senso, che erano poco più che delle credenze mitologiche o, addirittura, superstiziose, ma che non aveva neanche più senso un qualsiasi atteggiamento religioso nei confronti del mondo e della vita.

Il mio pensiero, molto deciso e forte, è che un tale convincimento (almeno quello più radicale: il senso e lo spirito religioso non hanno oramai più alcuna prospettiva di sopravvivenza e nessun diritto di cittadinanza nelle nostre società “progredite”) non ha nessun serio fondamento, né teorico né, tantomeno, pratico.

A meno che l’umanità, perlomeno questa umanità, di questa epoca e di questa parte del mondo, questa umanità di cui anche io mi sento parte e che allo stesso tempo sento aliena, non voglia infilarsi non tanto in un vicolo cieco (cosa che ha già fatto, come dicevo, da tempo, cioè oramai da almeno un secolo e mezzo), ma in una via senza più ritorno, che la porterebbe all’annichilimento (qui il riferimento al “nichilismo” di tanta parte della filosofia contemporanea è consapevole e voluto), ovverossia all’autodistruzione insieme teorica e morale e, quindi, quasi sicuramente, come sua ovvia e tragica conseguenza, anche fisica e materiale.

La mia idea convinta è:

 1) che le scienze e le filosofie hanno indubbiamente dimostrato che non è possibile argomentare (al contrario di quanto riteneva la maggior parte dei filosofi nell’antichità e fino al Medioevo) razionalmente l’esistenza di Dio;

 2) che anzi non sia più possibile credere seriamente, sulla base cioè di convinzioni filosofiche aggiornate e non di vecchie filosofie oramai superate, nell’esistenza di un Dio personale, di un mondo ultraterreno e di una vita futura dopo la morte, come, invece, le religioni tradizionali vorrebbero ancora farci credere;

 3) ma che questo non comporti affatto il tramonto definitivo dell’idea stessa di “religione”; o, meglio, che questo dato di realtà non debba comportare affatto la rinuncia a, la dismissione di quell’atteggiamento spirituale di fronte al mondo e alla vita che per millenni abbiamo definito come “religioso”.

Questa mia idea forte e convinta si basa:

 1) sulla constatazione inoppugnabile che tutte le culture, almeno fino a due secoli fa, hanno elaborato e professato un credo religioso e praticato riti, cerimoniali e regole morali a quel credo collegati;

 2) sulla deduzione, semplice ed evidente, che da questa constatazione deriva: evidentemente le religioni non nascono a caso, non sorgono per un capriccio della storia, ma perché corrispondono a bisogni profondi dell’umanità.

Certo, al bisogno profondo di trovare conforto contro le paure e le angosce dell’esistenza, in primis contro le forze per lungo tempo misteriose della natura, di cercare quindi protezione in figure mitiche paterne o materne e, soprattutto, di esorcizzare l’idea angosciosa della morte con la speranza di una vita post mortem.

Ma anche al bisogno altrettanto profondo di trovare un senso alla propria esistenza individuale e di regolare la vita sociale, con delle norme il più possibile condivise, rese convincenti, persuasive, anche attraverso il ricorso a simbologie, mitologie, rituali e cerimoniali dal forte impatto emotivo-affettivo.

Ora è mia idea forte, salda, che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico abbiano dato indubbiamente grosse picconate negli ultimi cinque secoli alle risposte che le religioni tradizionali (soprattutto quelle teiste; non tutte le religioni, come sappiamo sono teiste; ad esempio, il buddhismo non lo è) avevano fornito al primo bisogno di cui sopra.

E’ mia idea forte che la modernità abbia, in altre parole, demolito i miti su cui la maggior parte delle religioni storiche, tradizionali, si fondavano; e che quindi sia impossibile oggi continuare a dar credito a certe credenze religiose, a meno di non voler rimanere fermi (“fissati” direbbe Freud) ad uno stadio evolutivo primitivo, mi verrebbe di dire infantile, della storia dell’umanità.

Ma è mia idea altrettanto forte che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico non abbiano affatto dato delle risposte migliori di quelle date, fino a quattro-cinque secoli fa, dalle religioni, al secondo bisogno da cui quelle religioni nascevano: il bisogno di senso, di significato, di una motivazione al vivere.

Con la conseguenza che, mentre il progresso scientifico ha almeno in parte rassicurato l’essere umano rispetto ad alcune sue paure ancestrali e fornito “farmaci” adeguati al riguardo, il pensiero filosofico (almeno quello prevalente ed egemone) lo ha deprivato dei fondamenti metafisici, su cui si basavano le sue antiche sicurezze, senza però offrirgliene altri; con esiti che sono stati fatalmente (e non potevano non esserlo) nichilisti.

Così che la tecnologia (figlia, anche se parecchio degenere, delle scienze) è diventata – come ci hanno fatto vedere benissimo due pensatori, tra molti altri, quali Martin Heidegger e Gunther Anders – la nuova religione del tempo contemporaneo, sottraendosi, sfuggendo – in maniera che, a mio avviso, ci porterà prima o poi al disastro – al controllo e alla guida del pensiero filosofico.

Un po’ come (sia detto per inciso) l’economia o, per meglio dire, i poteri economici forti sfuggono oramai al controllo e alla guida della politica; una politica che, senza una visione del mondo e quindi senza un pensiero filosofico alle spalle, diventa cieca e muta e, perciò, impotente nei confronti dell’economia.

Qual è allora la conclusione, dopo questa lunga premessa, della riflessione che ho fin qui svolto?

Lo dico con molta nettezza e chiarezza: bisogna recuperare sul piano filosofico le ragioni e i fondamenti (certo, quelli possibili, razionali, del tutto immanenti e non più metafisici) di una visione religiosa del mondo.

Senza dubbio, tenendo conto di alcune acquisizioni (anche per me irreversibili) del pensiero scientifico e filosofico moderno!

Ma senza buttare (come ha fatto invece una buona parte della filosofia moderna e contemporanea, senza grandi eccezioni, soprattutto a partire da Feuerbach e Marx per arrivare a Nietzsche e infine a Cioran) il bambino con tutta l’acqua sporca.

Occorre che la filosofia ridia in altre parole speranza e fiducia all’umanità; altrimenti ci sarà presto o tardi (più presto che tardi) la fine del pensiero filosofico e con esso la fine della stessa umanità.

© Giovanni Lamagna

Sigmund Freud e la pulsione del genere umano a cercare la perfezione.

Nel suo libro del 1920 “Al di là del principio di piacere” (Biblioteca Boringhieri, 1975) Sigmund Freud, ad un certo punto, così scrive: “Prescindendo dalle pulsioni sessuali, è sicuro che non esistano altre pulsioni all’infuori di quelle che vogliono ripristinare uno stato precedente? Non ce ne sono altre che si sforzano di creare una situazione che non era mai stata raggiunta prima? Non conosco, nel mondo organico, alcun esempio sicuro che potrebbe contraddire alla caratterizzazione da noi proposta.

Non è possibile constatare con certezza l’esistenza di una pulsione universale che spinge gli esseri viventi verso un più alto sviluppo; tuttavia è innegabile che il mondo animale e vegetale presentano di fatto un’evoluzione in questo senso.

Ma da un lato spesso le nostre valutazioni per cui consideriamo certe fasi evolutive superiori ad altre sono puramente soggettive e d’altro lato la biologia ci insegna che la più alta evoluzione sotto un certo aspetto è assai spesso compensata o bilanciata da un’involuzione da un altro punto di vista… (pag. 68)

… può essere difficile, per molti di noi, rinunciare a credere che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione, una pulsione che lo ha elevato fino all’attuale livello di capacità intellettuale e di sublimazione etica e dalla quale ci si può attendere l’evoluzione dell’uomo a superuomo.

Solo che io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore e non vedo in che modo si possa far salva questa benefica illusione.

Mi pare che l’evoluzione del genere umano fino a questo momento non abbia affatto bisogno di una spiegazione diversa da quella che vale per gli animali; quell’infaticabile impulso verso un ulteriore perfezionamento che si può osservare in una minoranza di individui umani può essere facilmente spiegato come una conseguenza della rimozione pulsionale su cui si basa la civiltà umana in tutto ciò che ha di più valido e prezioso.

La pulsione rimossa non rinuncia mai a cercare il suo pieno soddisfacimento…; tutte le formazioni sostitutive e reattive, tutte le sublimazioni non potranno mai riuscire a sopprimere la sua persistente tensione…” (pag. 69)

Qui Freud fa una vera e propria affermazione apodittica, quasi fideistica, anche se di una fede all’incontrario: “… io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore”.

Freud, insomma, afferma molto perentoriamente di non credere “… che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione…”.

Però, poi, non fornisce alcuna spiegazione, né di tipo sperimentale, né basata sull’osservazione empirica, né motivata da argomentazioni logiche di un dato di cui pure riconosce, ammette l’esistenza, per quanto solo “in una minoranza di individui umani”.

Fa, come ho poc’anzi detto, un’affermazione del tutto apodittica, quasi dommatica; come definire, infatti, le seguenti parole, già da me citate: “io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore e non vedo in che modo si possa far salva questa benefica illusione.”?

Per lui questa pulsione a cercare la perfezione può essere spiegata solo come conseguenza della rimozione dal suo primo e originario obiettivo: quello sessuale; il perché, però, questa pulsione si allontani dal suo primo e originario obiettivo non lo dice, non lo argomenta.

Ora ammettiamo pure che la sua prima e unica spiegazione sia giustificata, fondata; Freud, però, non spiega perché essa (rimozione) si verifichi di fatto, realmente e innegabilmente, per quanto solo “in una minoranza di individui umani”; corrisponda cioè a comportamenti, a decisioni e scelte di vita ben reali e non a pure fantasticherie o sogni o astrazioni o illusioni.

Restano, in altre parole, le seguenti domande: perché in alcuni individui la pulsione libidica viene rimossa e sublimata e si traduce in una spinta al perfezionamento intellettuale ed etico? quale fattore tipicamente umano (non presente nelle altre specie animali, come evidenzia lo stesso Freud) determina questa rimozione/sublimazione?

E qui – mi dispiace dover contraddire Freud – la risposta non può che essere questa, se non per evidenza scientifica, quantomeno per deduzione logica: evidentemente nell’uomo esiste un’ulteriore pulsione, oltre alla libidica e alla coazione a ripetere (le uniche pulsioni che Freud riconosce): la pulsione ad elevarsi, a migliorarsi, a trascendersi, se non proprio a cercare la perfezione.

D’altra parte, se non fosse così, non si spiegherebbe l’esistenza storica di persone (tra le quali lo stesso Freud), che hanno dedicato in passato e dedicano anche oggi la loro vita alla scienza, cioè al progresso dell’Umanità, a volte sacrificando altri tipi di pulsioni, pur del tutto legittime.

E quella di altri uomini che hanno dedicata e dedicano la loro vita all’arte, alla filosofia, alla filantropia.

L’esistenza di questi fenotipi umani (gli scienziati, gli artisti, i filosofi, i filantropi) sono dati di fatto, di realtà, che, per quanto si voglia avere una visione realistica (io preferisco dire cinica) della vita, non si possono negare o ignorare.

E, se esistono, devono avere una loro motivazione e spinta, che non possono essere date (come, invece, tende a ritenere Freud) dalla semplice sublimazione di un istinto primario, comune agli altri animali.

Se esistono, hanno origine, scaturigine, a mio avviso, in una vera e propria pulsione, autonoma e distinta dalle altre, unicamente e tipicamente umana: la pulsione, se non proprio a cercare la perfezione, quantomeno ad elevarsi, a trascendersi, a superare la pura e originaria condizione animale.

© Giovanni Lamagna

Ci sono diversità e diversità.

C’è la diversità della rosa, del garofano, del giglio, del girasole…

E c’è la diversità della rosa in fiore e della rosa appassita.

C’è la diversità che esprime la varietà e la bellezza della natura.

E c’è la diversità del progresso e del regresso, dell’evoluzione e dell’involuzione, della salute e della malattia, della vita e della morte.

Non tutte le diversità sono… eguali.

Non tutte le diversità sono positive.

© Giovanni Lamagna

Gli uomini e la guerra.

Se io rispondo ad un insulto con uno schiaffo o un pugno, molto probabilmente l’altro risponderà con pugni e schiaffi e si arriverà così alla rissa.

A quel punto si innescherà, molto probabilmente, un’escalation di violenze, che potrà essere interrotta solo dall’intervento di terzi neutrali, che faranno da pacieri, o dalla sconfitta e resa unilaterale di uno dei due litiganti.

Questo era probabilmente quello che succedeva di norma agli inizi dei tempi, quando gli uomini erano poco più che delle bestie, quando vigeva la “legge” della giungla e la sopraffazione del più forte sui più deboli.

La civiltà, le società degli umani, sono nate quando, alla prima scintilla di violenza, chi l’ha subita è stato capace (o è stato costretto) a non reagire con la stessa violenza o, magari, con una violenza ancora maggiore.

La civiltà umana è nata quando la catena della violenza che poteva innescarsi – e che normalmente si innescava quando la vita sociale degli ominidi era praticamente simile a quella delle altre bestie – si è interrotta, per scelta consapevole di chi l’aveva subita o per l’intervento di un terzo estraneo alla contesa.

Questo principio – che si è affermato ed è diventato abbastanza egemone, oramai già da parecchio tempo, tra gli individui, i singoli cittadini di uno Stato, all’interno delle società civilizzate – non si è ancora affermato però (se non in maniera molto limitata e a fasi alterne) a livello dei rapporti tra i popoli, gli Stati e le nazioni.

Per cui viene ancora considerato legittimo l’uso della violenza quando un popolo o una nazione sono attaccati da un altro popolo o da un’altra nazione.

La guerra è – generalmente e tutto sommato – ancora considerata un modo legittimo per dirimere, risolvere, le controversie tra le nazioni.

La guerra viene ritenuta ancora oggi – come ebbe a dire il generale prussiano Von Klausevitz a metà Ottocento, con un’affermazione divenuta poi famosissima – il proseguimento della politica, con altri mezzi; quando cioè la diplomazia fallisce, si arena, si incaglia, giunge su un binario morto.

In altre parole quello che oramai abbastanza universalmente viene considerato “incivile” a livello dei rapporti tra gli individui, tra i singoli cittadini all’interno di uno Stato e di una Nazione, viene considerato, invece, ancora legittimo a livello dei rapporti tra gli Stati e le Nazioni.

Ciò vuol dire che ne abbiamo ancora di strada da percorrere sulla via del progresso civile ed umano.

Ne abbiamo di cammino da compiere prima che si avveri l’auspicio di alcuni uomini illustri (quali, per fare solo alcuni nomi, Albert Einstein o Bertrand Russell o Gino Strada); l’auspicio che la guerra diventi un tabù, come lo sono già diventati, in epoche passate, l’incesto e la schiavitù!

Ed io – a dire il vero – non sono manco convinto che, come Umanità, siamo ancora in tempo a percorrere questa lunga strada che ci resta da fare, prima che uno scontro di infinite proporzioni ci (auto)distrugga anzitempo.

Anzi, se devo essere del tutto sincero con me stesso, la ragione non mi spinge affatto ad essere ottimista rispetto a questa prospettiva.

Dal momento che oramai abbiamo tutti gli strumenti perché questo rischio incombente, che già da alcuni decenni pesa minaccioso sulle nostre teste, da pura eventualità si trasformi in mostruosa e tragica realtà.

E potrebbe bastare anche una piccola scintilla per innescare un incendio immane e senza ritorno: questa scintilla potrebbe essere ad esempio il conflitto attualmente in corso in Ucraina.

© Giovanni Lamagna

Trascorrere del tempo e Storia

Il trascorrere del tempo e la storia sono la stessa cosa? Con tutta evidenza, no.

Il trascorrere del tempo è un processo che riguarda la vita in generale, da quella inerte (o apparentemente inerte) della materia a quella viva delle piante, a quella animata degli animali, fino a quella (più o meno) consapevole dell’uomo.

Il trascorrere del tempo è scandito dall’incedere anonimo e sempre uguale a sé stesso delle lancette dell’orologio.

Da questo punto di vista ogni giorno è (o sembra essere, perché poi in realtà non lo è) uguale a quello precedente e sarà uguale a quelli successivi.

Diverso è per la Storia.

Innanzitutto la Storia è il tempo che riguarda l’uomo e solo lui; le pietre, le piante e gli altri animali, diversi dall’uomo, non hanno storia, hanno solo un tempo di vita, appunto, un tempo che trascorre.

La Storia presuppone la consapevolezza del tempo che trascorre e questa consapevolezza ce l’ha solo l’uomo.

Alcuni – i Greci antichi, ad esempio – hanno paragonato la Storia ad un cerchio, che incomincia da un punto e si chiude sempre allo stesso punto.

Secondo questa concezione la Storia sarebbe un eterno ritorno, un continuo ripetersi dello Stesso.

Altri – i Moderni, ad esempio – paragonano la Storia ad una linea retta destinata a non avere mai fine.

Secondo questa concezione la Storia sarebbe un continuo avanzare del Nuovo rispetto al Vecchio, un continuo progresso.

In questa concezione è implicito il giudizio che il Nuovo sia sempre migliore del Vecchio e che quindi il Progresso sia in sé un valore, un evento sempre e comunque positivo.

Io ho una concezione della Storia che è un po’ a metà tra le due precedenti.

Per me l’immagine che rende meglio il senso della Storia è quella della spirale; un po’ (mi pare) come quella che aveva Giovambattista Vico.

La spirale è una figura geometrica che in un certo senso mette insieme il cerchio e la linea retta.

La Storia per me è quindi sì un avanzamento (secondo l’immagine della linea retta), ma non un avanzamento continuo; bensì un avanzamento che contempla anche dei ritorni (ricorsi?) all’indietro, perfino (almeno in apparenza) al punto di partenza (secondo l’immagine del cerchio).

Nella Storia, quindi, in un certo senso tutto si ripete (concezione conservatrice e statica della Storia), ma mai nello stesso identico modo, bensì sempre in forme inedite e nuove (concezione che, più che progressista, definirei mobile, mai statica e ripetitiva, della Storia).

Quanto al progresso per me, come ho già detto prima, esso non può essere identificato, sic et simpliciter, col nuovo.

Ci sono, infatti, cose nuove che costituiscono un reale progresso ed altre che non lo sono affatto; anzi possono segnare addirittura un regresso: altro che progresso!

Ciò che definisce, può definire, il reale progresso non è il nuovo in sé, ma è la scala dei valori umani, è l’etica, chiamata di volta in volta a giudicare ciò che è reale progresso da ciò che è un falso progresso.

Ma qui entriamo in un campo minato, nel quale nessuno può ergersi a giudice assoluto, in quanto nessuno può avere la pretesa di possedere “la Verità”, ma ognuno può proporre solo “la sua verità”.

Quali sono, infatti, i veri valori umani? Chi li decide? Qualcuno o alcuni possono deciderli per tutti? Si possono decidere (democraticamente) a maggioranza?

Io credo che la scala dei valori umani sia relativa sempre alla storia e alla geografia: la decidono i popoli e le diverse società che li costituiscono attraverso delle convenzioni, che spesso si traducono anche in leggi.

Ma alla fine arbitri ultimi di cosa è bene e cosa è male, quindi di ciò che vale e di ciò che non vale, rimangono i singoli individui, la loro coscienza, il loro foro interiore, che si assumono (o, meglio, potrebbero e dovrebbero assumersi) la responsabilità delle loro convinzioni, scelte, decisioni e azioni.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di follia

Effettivamente, come dice Erasmo da Rotterdam, ci sono due tipi di follia.

Ce n’è una che consiste nella pura perdita di contatto con la realtà ed ha come conseguenza (negativa) l’incapacità di entrare in comunicazione efficace con gli altri e di agire positivamente sulla realtà per modificarla in meglio.

E ce n’è un’altra che, invece, mantiene i piedi ben piantati nella realtà, ma non si rassegna ad essa così com’è, perché mira a modificarla in senso sempre più favorevole agli interessi degli uomini, come individui e come collettività.

La prima è sterile, anzi dannosa, perché pura fantasticheria, allucinazione, delirio, senso futile di onnipotenza, narcisismo solipsistico. Ed ha quindi, in molti casi, esiti devastanti, per sé e per quelli con cui viene in contatto.

La seconda è, invece, costruttiva, foriera di frutti e risultati positivi. Produce cambiamenti e innovazione, che migliorano la qualità della vita delle persone e delle comunità. E’ la follia che genera il progresso degli uomini.

Anche se spesso deve attraversare il deserto dell’incomprensione altrui, per rompere schemi consolidati, pregiudizi, conformismi. Spesso, almeno in prima battuta, viene, infatti, ostacolata, ostracizzata, in certi casi persino perseguitata.

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Tra conservazione e innovazione

La vita di ognuno di noi è costituita (o, meglio, può essere costituita) da due fasi.

Nella prima fase replichiamo quasi meccanicamente (e inevitabilmente) i copioni che ci sono stati trasmessi, imposti dalle nostre famiglie di origine, dal contesto nel quale siamo nati e cresciuti.

Nella seconda fase cerchiamo di modificare, ampliare, innovare quegli antichi copioni, se non proprio abbandonarli, per sperimentare nuovi modelli di comportamento e nuovi stili di vita.

In alcuni di noi (i conservatori) predomina nettamente la prima fase: in alcuni casi tutta la vita si riduce unicamente ad essa.

In altri (gli innovatori, quelli che promuovono l’evoluzione culturale della società) predomina decisamente la seconda fase.

Ci sono poi quelli che si barcamenano, oscillano tra conservazione e progresso, che rimangono spesso in mezzo al guado, senza essere né carne né pesce.

© Giovanni Lamagna