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Reale e simbolico.
Per noi umani – come ci ha insegnato Lacan e come continua a ricordarci Recalcati – il reale e il simbolico hanno lo stesso peso, la stessa importanza.
Ciò che ci caratterizza, infatti, rispetto agli altri animali, è il linguaggio.
E di cosa è fatto il linguaggio se non di simboli?
Per noi umani – da quando abbiamo imparato a comunicare con le parole – la realtà si è fatta in gran parte simbolica: ha perso la sua innocenza e il carattere primordiale di nuda cosa.
Rinunciare ai simboli per restare attaccati (velleitariamente) al puro “reale” equivale, quindi, a rinunciare allo specifico della nostra umanità.
© Giovanni Lamagna
Le religioni tradizionali e il bisogno di religiosità.
Stamattina, per caso, ho partecipato al rito della Messa domenicale: stavo con mio nipote che tra qualche mese “vuole” (tra virgolette, ovviamente) fare la Prima Comunione.
E pensavo: gli uomini (tutti gli uomini, di tutte le geografie e di tutte le storie) hanno avuto ed hanno bisogno tuttora di riti, come di miti, di simboli e, in fondo, perfino di sacro.
Anche in un mondo materialista e ateo come quello che si è venuto formando (gradualmente, molto gradualmente all’inizio, ma sempre più impetuosamente via, via) almeno a partire dal XV secolo in poi; almeno in questa parte del mondo che siamo soliti chiamare Occidente.
Tanto è vero che gli uomini non riempiono più le chiese, ma riempiono gli stadi, per eventi sportivi e spettacolari in genere, facendo dei campioni sportivi o delle star dello spettacolo i loro nuovi miti e divinità; il più delle volte del tutto inadeguati nel paragone con le antiche divinità, persino con quelle pagane.
C’è quindi, a mio avviso, e ci sarà sempre (a meno di una mutazione antropologica, che non è però da escludere e che forse è oramai alle viste: si pensi all’egemonia che potrebbe assumere in un prossimo futuro l’Intelligenza Artificiale) una domanda di riti, di miti, di simboli e persino di sacro; in altre parole di religiosità.
Alla quale però le religioni tradizionali sono oramai del tutto incapaci di dare risposte.
Stamattina, infatti, durante la Messa ascoltavo le letture del Vecchio e del Nuovo Testamento che sono state proposte; vi si parlava di un fattore, di un terreno, di una vigna, di contadini…
Si faceva, insomma, riferimento ad una società agricola, del tutto superata oramai dal mondo moderno addirittura post-industrializzato.
Il prete celebrante, inoltre, e i suoi assistenti vestivano abiti del tutto fuori moda, rispetto ai tempi attuali, e utilizzavano strumenti rituali (turibolo, incenso, candele…) del tutto inattuali.
Come è pensabile, allora, che una tale religione possa ancora seriamente parlare all’uomo moderno?
Infatti, la gente – che pure era abbastanza numerosa – partecipava al rito in maniera, a mio avviso, del tutto superficiale, se non proprio distratta.
Nessuna meraviglia, dunque, che la gran parte degli uomini moderni vadano a soddisfare il loro anelito di religiosità fuori dalle Chiese, ignorando (quasi) del tutto le religioni tradizionali.
Anche se (purtroppo!) le alternative nelle quali vanno poi a rifugiarsi sono del tutto surrogatorie e banali; in molti casi addirittura alienanti.
Ci sarebbe bisogno di ben altre risposte alla domanda di religiosità che – a mio avviso – rimane intatta, viva, pulsante anche nell’uomo contemporaneo.
Perché è una domanda eterna, è un archetipo dell’essere umano, di cui nessuno di noi potrà mai fare a meno.
Che ne sia cosciente o meno.
Ma questo è un altro paio di maniche.
© Giovanni Lamagna
C’è un rapporto tra la nevrosi e una visione troppo angusta della vita.
Nel suo libro “Sogni, ricordi e riflessioni” Carl Gustav Jung così scrive:
“Ho spesso visto persone diventare nevrotiche per essersi appagate di risposte inadeguate o sbagliate ai problemi della vita.
Cercano la posizione, il matrimonio, la reputazione, il successo esteriore o il denaro, e rimangono infelici e nevrotiche anche quando hanno ottenuto ciò che cercavano.
Persone del genere di solito sono confinate in un orizzonte spirituale troppo angusto.
La loro vita non ha un contenuto sufficiente, non ha significato.
Se riescono ad acquistare una personalità più ampia, generalmente la loro nevrosi scompare.
Per questo motivo ho sempre attribuito la massima importanza all’idea di sviluppo.
La maggior parte dei miei pazienti non consisteva di credenti, ma di persone che avevano perduto la fede.
Venivano da me le “pecorelle smarrite”.
Persino al giorno d’oggi il credente ha la possibilità, nella sua chiesa, di vivere i simboli.
Si pensi all’esperienza della messa, del battesimo, all’imitatio Christi e a molti altri aspetti della religione.
Ma vivere e sperimentare dei simboli presuppone una partecipazione vitale da parte del credente, e molto spesso oggi questa manca.
Nei nevrotici è praticamente sempre assente.”
Trovo molto vera e profonda questa riflessione di Jung; tra l’altro molto coerente col suo pensiero, di cui uno dei cardini fondamentali è quello relativo al concetto di daimon.
Per Jung uno dei compiti fondamentali dell’essere umano è quello di corrispondere al suo “daimon”, cioè alla sua vocazione profonda.
Lacan, al posto di “daimon” e “vocazione”, usava la parola “desiderio”; ma credo volesse esprimere lo stesso concetto.
Se non corrisponde al suo daimon, alla sua vocazione, al suo desiderio, l’uomo è destinato fatalmente all’infelicità; o, quantomeno, alla insoddisfazione; e, quindi, alla nevrosi.
Questa riflessione di Jung – sia detto per inciso – si rifà molto chiaramente al concetto degli antichi Greci di “eudaimonia” (dal gr. εὐδαιμονία, der. di εὐδαίμων «felice», comp. di εὖ «bene» e δαίμων «demone; sorte»).
Che può essere inteso in un duplice senso: il primo (un po’ fatalistico) è quello di aver ricevuto in sorte un buon destino; il secondo (che responsabilizza di più l’uomo) è quello di obbedire al demone buono, cioè alla buona coscienza.
Nel primo significato di “daimon” è felice l’uomo che ha ricevuto in sorte una buona fortuna; nel secondo significato felice è l’uomo che si adopera per realizzare la sua vocazione.
Era questo secondo il significato che gli attribuiva Aristotele, per il quale sostanzialmente felicità e virtù erano sinonimi, la felicità era ottenibile perseguendo la virtù.
Jung, con la riflessione che ho riportato all’inizio, amplia, a mio avviso, ulteriormente il concetto di felicità e di benessere, così come lo aveva definito Aristotele.
La felicità e il benessere per Jung vengono raggiunti nella misura in cui il singolo individuo riconosce e persegue la sua particolare vocazione personale.
E questa per alcuni può consistere nel trovarsi semplicemente un lavoro che assicuri loro un reddito, nel formarsi una famiglia con una moglie o un marito e dei figli, nel procurarsi una rete adeguata di relazioni amicali e nell’avere una quantità sufficiente di beni e di agi materiali di cui godere.
Ma per altri queste quattro cose non bastano, rappresentano un orizzonte di vita troppo limitato; costoro hanno bisogno di altro; costoro hanno una vocazione che trascende i bisogni elementari materiali e psicologici che soddisfano (forse) la maggior parte delle persone e le fanno stare sufficientemente bene, in certi momenti (forse) addirittura li rendono felici.
E perciò, fino a quando non si sintonizzano con la loro vocazione particolare, diciamo pure spirituale, una vocazione che va al di là della dimensione puramente materiale e di quella psicoaffettiva, sono inquieti, insoddisfatti, inappagati, interiormente scissi, sono appunto “nevrotici”.
Nel momento in cui, invece, il loro spirito si amplia, trova un senso e un significato alla vita, che vada oltre le ragioni convenzionali e un po’ stereotipate che soddisfano i più, ecco che, come dice Jung, “la loro nevrosi scompare”.
Trovano pace e serenità, pure in mezzo alle tempeste che la vita ogni tanto pure loro riserva, imparano a godere di piccole ma anche grandi gioie, in certe fasi più o meno prolungate arrivano addirittura a sentirsi felici.
© Giovanni Lamagna
Recensione del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino
Ho appena visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “E’ stata la mano di Dio”, e dico subito che mi è piaciuto: è un bel film, senz’altro un film d’autore!
Certo Sorrentino non è Fellini, anche se al regista riminese chiaramente e dichiaratamente si ispira, per cui è quasi impossibile non paragonarlo col mostro sacro, suo mentore virtuale.
Sorrentino indubbiamente non ha il genio magico e, diciamolo pure, inimitabile di Fellini, però è certamente una persona molto interiore, che sa guardarsi dentro e, come tutte le persone interiori, ha perciò molte cose da dire.
Non lo sa fare nel modo visionario, incandescente, seduttivo, scoppiettante e incantatore di Fellini, ma lo sa fare sicuramente con buona maestria e padronanza, sia nel costruire le storie sia nel renderle sul grande schermo.
Questo film – tanto per restare all’accostamento con Fellini – è un vero e proprio Amarcord sorrentiniano. Così come “La grande bellezza” fu la versione sorrentiniana de “La dolce vita” felliniana.
L’idea da cui nasce è, infatti, probabilmente la stessa da cui originò il meraviglioso film di ricordi del regista riminese: il desiderio/esigenza di ripercorrere la propria adolescenza, di rivisitare i luoghi in cui essa si svolse, di ritrovare persone, episodi, atmosfere, dolori, tragedie, che la caratterizzarono.
Quasi per fare i conti con quella fase della vita, prolungatasi forse fin troppo a lungo, e per uscirne definitivamente, aprendone una nuova.
E, come il film di Fellini ovviamente era ambientato a Rimini, così l’Amarcord di Sorrentino non poteva che essere ambientato a Napoli.
Due contesti evidentemente molto diversi, immerso spesso nella nebbia più fitta il primo, estremamente luminoso e solare il secondo; entrambi però accomunati dall’allegria quasi ridanciana, dal gusto per lo scherzo, anzi per lo sberleffo, dal piacere di godere della sensualità dei corpi.
Fatta questa premessa, evidenzierei che il film di Sorrentino si divide in due tempi nettamente distinti tra di loro, quasi contrapposti.
Le caratteristiche principali del primo sono la risata, la gioia di vivere, la convivialità allegra. Nel corso del primo tempo si ride molto, sembra quasi di assistere ad un film comico; come d’altra parte si rideva molto nell’Amarcord felliniano.
Ma già l’ultima scena del primo tempo preannuncia un radicale cambio di registro, che si affermerà poi pienamente nel secondo tempo; alla commedia (spesso comica) subentrerà prima il dolore acuto e poi la vera e propria tragedia.
La svolta viene annunciata dal pianto e dal tremore isterico della madre (Teresa Saponangelo) del giovane Fabio (Filippo Scotti: Sorrentino adolescente), che scopre il tradimento (in corso forse già da svariati anni) del marito (Toni Servillo) con una sua collega di ufficio.
E si realizza pienamente con la scena dei due genitori di Fabio, che dopo la breve separazione, dopo essersi riappacificati, quando hanno coronato finalmente il loro sogno (molto piccolo-borghese) di avere una casa in montagna (a Roccaraso), accendono il camino e sprovvedutamente vi si addormentano davanti, seduti sul divano, mentre l’uno legge “Un uomo” di Oriana Fallaci e l’altra sferruzza a maglia; respirano così l’aria che diventa sempre più velenosa per le esalazioni del monossido di carbonio e vanno incontro ad una tragica e prematura morte.
I tre figli riescono a salvarsi dalla stessa sorte per puro miracolo, perché non hanno accompagnato i genitori (come pure questi avrebbero desiderato) nel weekend a Roccaraso: Marchino (Marlon Joubert), perché tutto preso dal nuovo amore per una ragazza, Daniela (Rossella Di Lucca), perché vive isolata in un mondo tutto suo (e, infatti, nel film compare pochissimo), infine Fabietto, perché non voleva perdersi la partita Napoli-Empoli, dove avrebbe visto giocare il suo idolo Diego Armando Maradona, nuovo acquisto del Napoli.
Questo di Maradona è uno dei capitoli più importanti dell’adolescenza di Fabio/Sorrentino e, per conseguenza del film; uno di quelli sul quale si è maggiormente costruito l’immaginario del giovane adolescente; Maradona è visto come una specie di divinità calata in terra, che compensa le frustrazioni di un’intera città e ne realizza i sogni a lungo, troppo a lungo, repressi, perché considerati impossibili.
Emblematica, quasi onirica, la scena in cui il ragazzo, mentre attraversa la strada, vede Maradona in un’auto ferma ad un semaforo rosso: il suo sguardo resta paralizzato per svariati secondi, i suoi occhi non credono a quello che stanno vedendo, e con in suoi quelli della piccola folla che ha ricevuto la grazia di una simile visione.
Come non riandare con la memoria alla scena felliniana dei riminesi che a bordo delle loro barche si spingono al largo per assistere nel buio della notte e col mare mosso al passaggio luccicante e favoloso del transatlantico Rex?
L’altro personaggio molto significativo dell’adolescenza di Fabio-Sorrentino è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), sorella della madre, donna di straordinaria e prorompente bellezza, che accende le fantasie e le pulsioni erotico-sessuali del giovane ragazzo e di quelle del fratello Marchino.
Patrizia è una bellissima donna, ma anche estremamente frustrata, sia perché non riesce a rimanere incinta, sia perché vive con un marito, Franco (Massimiliano Gallo) che spesso e volentieri la riempie di botte; per questo dà spesso in stranezze.
Emblematica la scena della famiglia allargata ai numerosissimi parenti, in gita su un grande gozzo al largo della penisola sorrentina, quando Patrizia, col massimo candore e allo stesso tempo massima spudoratezza, si toglie tutti i vestiti di dosso e si stende completamente nuda, meravigliosamente nuda, sulla tolda della barca e tutti gli astanti la guardano allibiti e allo stesso tempo desideranti.
Come non riandare anche qui ad una delle scene madri dell’Amarcord felliniano: quella in cui la tabaccaia prosperosa e sensuale alla sera, prima sella chiusura, fa entrare nel suo negozio i ragazzi del borgo che sono soliti guardarla sbavanti e pieni di desiderio, abbassa la saracinesca e mostra loro, seduttiva e complice, le sue enormi, debordanti tette?
Patrizia è per Fabietto l’altro mito della sua adolescenza, l’unico che può competere nel suo immaginario sognante con quello di Maradona.
La morte tragica di Saverio e Maria segna, come una ferita non più rimarginabile, la vita dei tre figli, in modo particolare quella di Fabietto, che al contrario del fratello maggiore, Marchino, il quale intende darsi alla bella vita per rimuovere il dolore per la perdita dei genitori, non se ne fa una ragione, non riesce ad allontanare da sé le tracce del trauma vissuto.
Si rifugia così nel mondo dell’immaginario, che gli sembra senza ombra di dubbi preferibile alla realtà che egli definisce “scadente”. E in questo modo dentro di lui affiora un poco alla volta e infine si manifesta chiaramente la vocazione a fare il regista di film.
In questo suo percorso di (parziale) elaborazione del trauma (la elaborazione definitiva avverrà forse proprio con la costruzione e realizzazione di questo film: ecco il suo senso e la sua motivazione di fondo!) lo aiutano quattro figure significative.
1. La zia Patrizia, che non solo, come abbiamo già visto, è stato il primo oggetto dei suoi ardori erotici e sessuali, in quanto incarnazione stessa, sublime, della femminilità e dell’erotismo; ma è anche colei che incoraggia subito, appena Fabio glielo rivela, e con grande forza il suo sogno di diventare un autore di film.
2. Armando (Biagio Manna) un giovane contrabbandiere (Fabio lo incontra per caso allo stadio e con lui familiarizza condividendo il tifo per Maradona), che lo introduce in un mondo per lui (cresciuto in un ambiente piccolo borghese) completamente altro, quello della camorra e della violenza, alternata però anche a grande generosità e persino tenerezza.
3. La baronessa Focale (Betti Pedrazzi), una signora anziana, nobile decaduta, dall’aria solo apparentemente altera e distaccata, che abitava nello stesso palazzo ed era di famiglia in casa Schisa.
Che, quando si rende conto del momento molto difficile che sta attraversando Fabio, con un pretesto lo attira a casa sua e con modi molto garbati ed estremamente seduttivi, lo introduce ai misteri del sesso: la prima volta di Fabio!
E’ questa una delle scene più sexy e conturbanti del film, paragonabile e forse addirittura superiore a quella della zia Patrizia completamente nuda sulla tolda della barca davanti ad un pubblico di spettatori che la guardavano carichi di stupore e meraviglia.
Lì c’era il trionfo solare e spettacolare della bellezza fisica di Luisa Ranieri (zia Patrizia), esaltata dalla luce e dalla natura, con la monta ovvia del desiderio degli astanti maschili, in particolare di Fabio e di suo fratello Marchino, e forse persino l’invidia delle astanti femminili.
Qui, invece, si realizzano – nella penombra di una camera da letto e nel tete a tete – la celebrazione delle arti seduttive, affinate con gli anni e con l’esperienza, di un’anziana signora e il rito di iniziazione al sesso di un giovane, che fino ad allora lo aveva solamente fantasticato e, quindi, si mostra timido e imbranato.
Anche qui come non associare la scena dell’anziana baronessa che seduce e inizia al sesso il giovane Fabio a quella felliniana della splendida Gradisca che maliziosamente attizza prima e poi svezza, anche se solo con un bacio, i giovani adolescenti riminesi che sbavavano per lei?
4. Infine, Antonio Capuano (Ciro Capano), un regista napoletano, un po’ di nicchia, che all’inizio strapazza violentemente il giovane Fabio, che gli ha confidato il suo desiderio di diventare regista cinematografico, come per metterlo alla prova e saggiare l’autenticità della sua vocazione.
Ma poi si addolcisce, intenerisce e gli dà persino alcuni consigli, il più importante dei quali mi pare è “Non disunirti!”.
Che io ho interpretato così: non perdere i contatti con le tue radici, quindi con la tua famiglia, con la tua città di origine, con i simboli e i miti che hanno segnato la tua adolescenza, con il tuo dolore di fondo; perché è da lì che potrai ricevere la linfa che alimenterà la tua creatività, le cose che vorrai dire e tradurre in immagini.
Il film si conclude (anche qui sulla falsariga dell’Amarcord felliniano) con la scena di Fabio che viaggia in treno, direzione Roma, per inseguire il suo sogno di fare il regista.
E in sottofondo si ascolta la famosa canzone di Pino Daniele “Napule è”, come a dire che Fabio lascia la città che lo ha visto nascere e crescere, ma non si “disunisce”: le sue radici rimangono a Napoli e daranno linfa continua alla sua creatività artistica.
© Giovanni Lamagna
Ha senso la festa del papà? Anzi ha ancora senso la nozione stessa di “festa”?
20 marzo 2019
So benissimo che molti giudicheranno questa mia esternazione come una sciocchezza (a voler usare un eufemismo), figlia di una cultura vuota, retorica, sentimentalistica, conformista, consumistica, di massa. Ma la faccio lo stesso, anche a costo di essere catalogato con le categorie di cui sopra.
L’esternazione è questa: a me il fatto che mia figlia ieri, in occasione della “festa del papà”, mi abbia telefonato per farmi gli auguri ha fatto piacere. E mi sarebbe dispiaciuto (e anche molto) se non lo avesse fatto.
D’altra parte (dico questo a mia “discolpa”) le feste hanno questa funzione, che a me sembra importante: ricordarci (anche se in maniera rituale e simbolica; ma nella vita i riti e i simboli servono, eccome!) alcune situazioni archetipe che fondano la nostra vita, le danno un significato, un senso, un valore, un orientamento, per molti aspetti universale.
E’ questa la funzione di feste ((alcune volte solo laiche, altre volte sia religiose che laiche) come il Natale, la Pasqua, il 1° maggio, il 25 aprile, l’8 marzo, il 19 marzo, l’8 maggio (festa della mamma)… e così via (sicuramente ne ho dimenticato qualcuna).
Il fatto che esse siano diventate l’occasione (anzi il pretesto) per lo scatenamento di un grande e superficiale consumismo di massa non le delegittima del tutto, perché comunque non ne fa venire meno il senso profondo.
Sta, dunque, ad ognuno di noi attribuire loro il giusto e autentico significato, depurandolo da quello che una certa società dei consumi tende cinicamente, strumentalmente, a sovrapporgli, fin quasi ad annullarlo del tutto.
E viverle secondo questo loro autentico e originario significato.
Perciò mi sento di dire, senza alcuna retorica, ma convintamente: viva la festa del papà! viva le feste che punteggiano di gioia e di allegria il nostro calendario nel corso dell’anno!
Giovanni Lamagna