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Norme esterne e norme interne.

Tutti quanti noi siamo obbligati da certe norme e non siamo obbligati (almeno in senso stretto) da altre, che pure possiamo definire norme.

Le prime sono norme che si impongono a noi dall’esterno, le seconde ci vengono dall’interno.

Siamo sicuramente obbligati ad obbedire (anche se alcuni manco a queste si sentono vincolati) alle norme giuridiche, alle leggi che regolano la vita della società di cui siamo parte.

Siamo obbligati ad obbedire alle norme non giuridiche, ma non per questo meno stringenti (si chiamano “convenzioni sociali”), che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte, a cominciare da quelle della famiglia.

A meno che non vogliamo correre il rischio di esserne prima o poi cacciati via, espulsi; moralmente, psicologicamente, se non proprio fisicamente e materialmente.

Non siamo, invece, obbligati, in senso stretto, ad obbedire alle norme morali, che rappresentano qualcosa in più delle norme del diritto positivo che regolano le società/Stato e delle norme, più o meno formali ma non giuridiche, le convenzioni. che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte.

Voglio dire: non siamo obbligati in senso stretto, cioè nel senso letterale del termine; l’obbligo in senso stretto prevede, infatti, un vincolo, diciamo pure una minaccia esterni e delle sanzioni nel caso di sua trasgressione.

Ma siamo allo stesso tempo obbligati, anche se solo in senso metaforico.

Nel senso che la coscienza, il foro interiore (che è cosa ovviamente diversa dal foro esteriore dei tribunali civili e penali), ci pone davanti a delle norme (che definiamo morali), al cui rispetto non ci obbliga con la minaccia di sanzioni fisiche, materiali, ma facendoci sentire in colpa quando le trasgrediamo.

I sensi di colpa che proviamo quanto contravveniamo a una legge morale che ci detta la coscienza sono dunque sanzioni del tutto interiori, puramente intrapsichiche, diverse da quelle esteriori ed anche fisiche, che impongono talvolta le leggi sociali e comunitarie.

Ma sono pur sempre sanzioni, tanto che alle volte fanno stare male il soggetto che le subisce ancora più di quelle fisiche del diritto positivo o delle regole comunitarie.

A loro volta questi sensi di colpa (e le sanzioni morali che essi infliggono) sono di due tipi.

Ci sono sensi di colpa che proviamo verso gli altri: quando, ad esempio, mostriamo disattenzione o mancanza di rispetto verso la loro persona, quando non diamo loro l’amore che essi meriterebbero o si attenderebbero da noi, quando non manteniamo la parola loro data.

E questi sono i sensi di colpa che è più facile avvertire, perché se non li avvertiamo da soli (perché la nostra coscienza morale è debole, fragile, poco salda e sviluppata), sono gli altri che ce li rimandano e ce li fanno pesare.

Ma ci sono anche i sensi di colpa che a volte proviamo da soli verso noi stessi; quando, ad esempio, ci facciamo prendere dalla pigrizia, dall’indolenza, quando siamo sopraffatti dalla paura delle novità e del cambiamento.

Quando per vigliaccheria, per i sensi di colpa che proviamo verso delle regole sociali (convenzioni) che ce li vietano, non riconosciamo i nostri desideri legittimi.

O quando, per conformismo e quieto vivere con chi ci fa sentire non meritevoli di goderne, rinunciamo a realizzare aspirazioni del tutto alla nostra portata.

“Non c’è peccato più grande che cedere sul proprio desiderio”: diceva Lacan; ed è profondamente vero: lo sa bene chi lo ha sperimentato sulla propria pelle.

Proviamo, in altre parole, sensi di colpa verso noi stessi quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione fondamentale, al compito che il destino ha assegnato alla nostra vita.

Gli antichi Greci, non a caso, utilizzavano la parola composta “eudaimonia” (eu: buono + daimon: demone = fedeltà al proprio demone interiore) per indicare lo stato d’animo della felicità.

Per converso, possiamo, dunque, dire che noi ci condanniamo all’infelicità, ovverossia ad una vita piena di rimpianti e di sensi di colpa, quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione.

Questi sensi di colpa sono più difficili da avvertire, perché non insorgono in noi attraverso censori esterni.

Anzi, in genere, per non avvertirli, noi cerchiamo conforto proprio nell’approvazione degli altri, che in questo caso spesso ce la danno facilmente e ben volentieri, in nome di una solidarietà malsana, che mal cela a sua volta la propria cattiva coscienza, quella che Sartre chiamava “malafede”.

Questi sensi di colpa si manifestano però in molti casi attraverso svariati sintomi, di gravità più o meno accentuata: un’ansia e un nervosismo permanenti, una tristezza ricorrente, una malinconia diffusa, nei casi estremi una vera e propria depressione acclarata.

Sintomi che appesantiscono e, a volte addirittura, opprimono il nostro animo e non poche volte vengono anche somatizzati (mal di testa, mal di stomaco, nausea, spossatezza cronica, sonnolenza, labirintite…).

Sintomi che possono degenerare fino alla follia; ad esempio, nelle forme della paranoia e della schizofrenia; o, specie quando si invecchia, nella demenza senile.

© Giovanni Lamagna

Gli uomini e il sesso.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Ubaldini Editore; pag. 152) si chiede: “… perché la società ha attribuito al sesso questa straordinaria importanza?”.

E subito dopo si interroga sulle “sanzioni religiose che ne derivano”, che tendono a porre degli argini all’esperienza di “piacere” e di “bellezza” che gli uomini collegano al sesso.

Voglio pormi queste stesse domande e provare a dare le mie risposte.

Quanto alla prima domanda la mia risposta è molto semplice, anche se duplice: 1) nel sesso gli uomini sperimentano forse il massimo del piacere fisico, emotivo e mentale, in certi casi anche spirituale, che è dato loro provare nella vita; 2) al sesso è collegata la sopravvivenza della specie, quindi la continuazione della vita stessa.

Ci può essere, dunque, un interesse superiore a quello che gli uomini provano normalmente per il sesso? Ci può essere, quindi, nella vita una realtà superiore al sesso, che sia più importante del sesso?

Sì, ci può essere; ma in qualche modo essa sarà sempre e comunque gemmazione della pulsione sessuale, una forma di filiazione da quella primaria, primordiale, che è il sesso; ne sarà, come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, una sua sublimazione.

In molti casi positiva, utile, necessaria, senza alternative: non si può certo passare tutto il proprio tempo a fare sesso; come minimo, oltre a fare sesso, bisognerà lavorare per procurarsi quanto è necessario a sopravvivere.

In altri casi negativa, inutile, addirittura dannosa, produttiva di malattie fisiche e mentali, nevrosi e in alcuni casi persino psicosi: quando si fa poco sesso o addirittura vi si rinuncia, perché si è incapaci – per timori inconsci, ma ben reali – di goderne.

Anche alla seconda domanda di Krishnamurti la mia risposta è semplice: gli uomini hanno sentito il bisogno (soprattutto attraverso le religioni) di imporsi delle sanzioni che limitassero la loro naturale e tendenzialmente sconfinata propensione verso il sesso, per il timore, la paura (che, ricordiamolo, non sono mai del tutto separabili dal piacere e dal desiderio) di esserne travolti, di non riuscire più ad occuparsi anche di altre cose nella vita, pur esse necessarie, anzi senz’altro più necessarie del sesso.

Pensiamo, ad esempio, alle necessità – anche solo quelle primarie, cui ho già fatto riferimento in precedenza – di procurarsi del cibo, una casa, degli abiti e, inoltre, di occuparsi dell’allevamento della prole, incapace da sola, nei primi anni di vita, di badare alla propria sopravvivenza.

C’era il rischio, dunque, per l’uomo che il sesso con la sua fortissima carica attrattiva, potesse essere vissuto come una sorta di canto delle sirene, di droga, che avrebbe potuto distrarlo da altre incombenze, indubbiamente meno o, in certi casi, per nulla seducenti, legate alla fatica del vivere; o, meglio, innanzitutto del sopravvivere.

Di qui la necessità di crearsi degli argini, persino degli ostacoli, di imporre dei limiti alla fortissima pulsione del sesso, di non farlo diventare una sorta di ossessione, come invece rischiava di diventare, se gli uomini non si fossero dati delle norme e non avessero previsto delle sanzioni collegate alla mancata osservanza di queste norme.

Come possiamo verificare in alcuni casi patologici, anche oggi, perfino nelle nostre odierne società, ipermoderne ed evolute, molto razionali e culturalmente avanzate, addestrate ormai a controllare (forse addirittura fin troppo!) gli istinti primari e persino le emozioni e i sentimenti.

Accade anche oggi, infatti, che il sesso in alcuni individui (nevrotici o, addirittura psicotici) diventi una pulsione maniacale, che norme e sanzioni sociali, tuttora vigenti, non riescono ad arginare, generando quindi disagi, più o meno acuti; nel soggetto malato innanzitutto, ma anche nel contesto ambientale in cui egli vive ed opera.

© Giovanni Lamagna

Esiste la possibilità di una difesa nonviolenta di fronte ad un’aggressione armata?

Qualche giorno fa ho pubblicato su facebook il seguente pensiero: “Chi è consapevole di essere parte di un Tutto indivisibile non può concepire (e, meno che mai, fare) la guerra.”

Un amico così lo ha commentato: “E se la guerra te la fanno? Non ti difendi?”.

E’ questa, a mio avviso, la domanda fondamentale alla quale i pacifisti “senza se e senza ma”, coloro (tra i quali mi annovero anche io) che hanno fatto la scelta della nonviolenza, devono dare una risposta convincente e non (solo) ideologica, in grado pertanto di sensibilizzare le coscienze a livello di massa e provocare comportamenti conseguenti, non solo di piccole avanguardie ma di un popolo intero.

Ovviamente – sia detto per inciso – il pacifista nonviolento non prende nemmeno in considerazione il ricorso alla violenza di attacco; se rinuncia alla difesa violenta, per quanto legittima, come potrebbe prendere in considerazione l’azione violenta di attacco?

E però il pacifista nonviolento non può evadere, invece, gli argomenti che gli vengono opposti rispetto alla difesa nonviolenta, da lui ipotizzata, nei confronti di un attacco violento ricevuto: “che fai, se la guerra te la fanno, tu non ti difendi?”

A questa domanda bisogna necessariamente rispondere, non la si può evadere.

E la prima risposta che mi viene di dare è che, certo, anche il pacifista, anche il nonviolento hanno il diritto di difendersi; è non solo legittimo, ma naturale, anzi persino doveroso, che lo facciano.

Solo che il pacifista non violento si difende senza fare ricorso alla violenza, senza rispondere alla violenza con altra violenza.

Allo stesso modo di come fanno, del resto, la gran parte dei cittadini civili in una comunità civile.

Anche in una società complessivamente civile si verificano, infatti, talvolta episodi di violenza, ovverossia episodi di inciviltà; e ciascuno di noi corre il rischio di rimanerne vittima.

Io, ad esempio, una volta (era quasi mezzanotte) sono stato rapinato da una piccola banda armata di giovinastri mentre mi ritiravo a casa.

Ma non per questo andiamo in giro armati, per poterci difendere con le armi, nell’ipotesi di trovarci in una situazione simile a quella nella quale mi sono trovato io tempo fa.

Nella gran parte dei casi quasi tutti noi reagiamo a queste forme di violenza senza opporre resistenza, consapevoli che il gioco non varrebbe la candela; e solo successivamente ricorrendo alla denuncia dell’accaduto in un posto di polizia.

Questo è ciò che avviene in una società evoluta, quella che noi definiamo normalmente e sanamente civile.

Le società, nelle quali moltissimi cittadini si armano per poter fronteggiare autonomamente e privatamente situazioni simili a quelle che ho sopra descritto e nelle quali la legge permette o addirittura incoraggia tale tipo di autodifesa, appaiono alla maggior parte di noi più simili al Far West che a delle società compiutamente civili.

Il problema che sembra oramai risolto al livello delle comunità civili, al loro interno, si pone però (bisogna riconoscerlo!) quando la violenza si affaccia al livello dei rapporti tra le diverse comunità, tra i diversi Stati, tra le Nazioni.

Innanzitutto perché la violenza a questo livello assume dimensioni ben maggiori di quelle che normalmente sono toccate al livello delle relazioni interpersonali o tutt’al più delle relazioni tra gruppi all’interno di una stessa comunità.

Sia perché in questo caso mancano norme, legislazioni condivise, che tutelino efficacemente chi subisce violenza; sia (soprattutto) perché, anche quando queste norme e le Istituzioni che dovrebbero farle rispettare almeno formalmente ci sono, esse sono deboli o del tutto inadeguati gli strumenti e le forze per far rispettare queste norme (vedi ONU).

Come ci si può difendere allora a questi livelli, senza fare ricorso alle armi, senza rispondere alla violenza con la violenza, alla guerra con la guerra; e senza nello stesso tempo arrendersi passivamente all’avversario/nemico che ci ha assalito, che ha invaso e occupato i nostri territori?

Esistono risposte nonviolente alla violenza, che non siano la pura e semplice resa? A mio avviso, sì!

La prima è la non-collaborazione; un esercito nemico potrà invadere il nostro territorio, occuparlo, ma non potrà mai invadere ed occupare le nostre coscienze (nota 1); un popolo che non si arrende è un popolo che non collabora col nemico nella gestione del territorio occupato.

La seconda risposta possibile è il boicottaggio di tutte le iniziative che l’esercito nemico proverà a intraprendere sul territorio occupato; boicottaggio innanzitutto psicologico e poi anche materiale.

La terza risposta è quella dello sciopero di protesta nonviolenta; la discesa in campo aperta, con manifestazioni pubbliche, più o meno spontanee, meglio se organizzate, preparate magari in modo clandestino.

La quarta risposta è quella della ricerca il più possibile ampia della solidarietà internazionale, la quale potrà esprimersi con forme di sanzioni e prese di posizione formali diplomatiche da parte di altre nazioni, in modo da isolare il più possibile a livello internazionale la nazione occupante. (nota 2)

Certo, nessuna di queste risposte nonviolente ad un attacco violento è in grado di fermare l’avanzata e – ancora meno – provocare la ritirata e, quindi, la sconfitta militare dell’esercito nemico: di questo sono pienamente consapevole.

Ma d’altra parte è forse in grado di offrire migliori garanzie la risposta violenta?

Non mi sembra! A giudicare dalle immagini che la televisione ci trasmette ogni giorno, quasi ad ogni ora, della guerra attualmente in corso in Ucraina: intere città rase al suolo, migliaia di morti non solo tra i militari ma anche tra i civili, un apparato economico, soprattutto industriale, in gran parte distrutto, milioni di persone costrette a vivere in condizioni inumane da oramai più di tre mesi o ad abbandonare la loro patria per trovare rifugio all’estero.

Immagini di una tale violenza distruttiva non dovrebbero insinuarci qualche dubbio sul tipo di risposta che sia il popolo ucraino che la comunità (?) internazionale (almeno quella occidentale) hanno dato finora all’invasione russa e indurci a ipotizzare e immaginare (quantomeno ipotizzare e immaginare) altri scenari possibili?

© Giovanni Lamagna

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(nota 1): Ricordo a tale proposito la risposta che diede l’attuale Dalai Lama a chi gli chiedeva come mai non incitasse il proprio popolo ad una ribellione armata contro l’occupazione cinese del Tibet: “I cinesi hanno già occupato il nostro territorio; non posso permettere loro di occupare anche la mia anima.”

(nota 2) Ovviamente perché queste risposte possano risultare efficaci occorre che esse vengano preparate bene e anzitempo, cioè in tempo di pace; né più e né meno di come gli eserciti si addestrano ad azioni militari di guerra, quando la guerra non c’è.

E che tutto il popolo (o almeno la gran parte di esso) vi partecipi: non solo i giovani, bene in salute e prevalentemente maschi, ma anche le donne, le persone con handicap fisici e gli anziani; per alcune azioni, perfino i bambini e i vecchi.

Il desiderio come dovere?

Massimo Recalcati nel suo libro “Contro il sacrificio” (2017 Raffaello Cortina Editore), nel paragrafo intitolato “Il desiderio come dovere” (pag. 113-118), sulla scorta dell’insegnamento ricevuto dal suo maestro Jacques Lacan e, ancor prima, da Freud, mette in correlazione molti concetti (quali quello di sacrificio, etica, desiderio, Legge, fedeltà, infedeltà, godimento, Super-io, Altro, Dio, Padre, Stato, Madre, Famiglia, Natura, Razza, vita, dovere, imperativo, senso, capriccio, vocazione, sofferenza, colpa, trasgressione, peccato, violazione, norme, psicoanalisi, senso di colpa, responsabilità, padronanza, coscienza, inconscio, soggetto, sogni…) facendo molte osservazioni interessanti, ma non sciogliendo però del tutto (almeno a mio modesto avviso) alcuni nodi problematici e lasciando alcune zone d’ombra che sarebbe utile a mio avviso rischiarare.

Voglio qui provare a farlo.

Il paragrafo si apre con il riferimento al principio generale evocato da Lacan di “un’altra etica, non più imbrigliata dai lacci del sacrificio”.

Dico subito che questa esigenza lacaniana mi trova perfettamente d’accordo. Per millenni l’etica delle varie società umane è stata fondata sul principio del sacrificio, in moltissimi casi di un sacrificio fine a se stesso, come valore in sé, quasi masochisticamente inteso.

Sono altresì pienamente d’accordo con Lacan quando afferma che questo fondamento è del tutto arbitrario, quindi insano, e che occorre liberare l’etica da questo imbrigliamento; che occorre perciò una nuova etica.

Per Lacan questa nuova etica si deve fondare “sul proprio desiderio”; il principio fondamentale della nuova etica dovrà essere quello di “non cedere sul proprio desiderio”.

E qui, a mio avviso, nascono le confusioni; o, almeno, le possibili confusioni.

Perché quello di “desiderio” è (come tutti possono intuire) un concetto quantomeno ambiguo.

Per “desiderio” possiamo intendere la pura spinta pulsionale, assimilabile quasi all’istinto, per sua natura sregolato, quindi affine al capriccio.

Inteso in tale senso (e questo è indubbiamente uno dei modi possibili di intendere il “desiderio”) si può fondare su di esso la nuova etica?

Domanda del tutto retorica, perché è a tutti evidente che no, non si può fondare l’etica sul desiderio inteso come puro capriccio: ci sarebbe una contraddizione in termini.

Ma per “desiderio” possiamo intendere anche “la propria vocazione fondamentale” (per utilizzare un’espressione a cui fa ricorso Recalcati) o il proprio “daimon” (per utilizzare un’espressione a cui ricorrevano gli antichi Greci e più volte ripresa da un pensatore come Jung, a voler fare un solo esempio).

E’ a questa seconda accezione di “desiderio” che mi pare faccia riferimento, come è ovvio, Lacan ed è su di essa che egli intende fondare “un’altra etica”, opposta a quella tradizionale, fondata sul “sacrificio” o, meglio, sul “fantasma sacrificale”.

E però, nonostante questa distinzione chiarisca un primo possibile equivoco, non mi pare che tutti gli equivoci e i fraintendimenti possibili siano stati con essa dissipati.

Cosa vuol dire, infatti, ciò che afferma Lacan, con molta drasticità (mi pare): “… propongo che l’unica cosa di cui si possa essere colpevoli, perlomeno nella prospettiva analitica, sia di aver ceduto sul proprio desiderio”?

Che non esiste altra Legge per il singolo soggetto che la Legge del desiderio? Che il proprio desiderio mai e poi mai debba essere posposto e, quindi, in qualche modo, per quanto provvisoriamente o parzialmente, sacrificato?

Ci rendiamo tutti conto (io penso) che, detta così e presa alla lettera, l’affermazione lacaniana, ripresa e condivisa dal suo discepolo Recalcati, sia inaccettabile.

Quale etica può, infatti, porre al centro dei suoi imperativi esclusivamente il soggetto, per quanto nella forma nobilitata della fedeltà alla propria vocazione o “tendenza” o “inclinazione” o “prospettiva” o “propria via” (termini, quelli virgolettati, usati da Lacan)?

Per nessuna etica il soggetto può porsi come assolutamente autoreferenziale, sganciato cioè dall’esistenza dell’Altro o, meglio, degli altri, i quali dal punto di vista etico hanno almeno uguali diritti (oltre che doveri) rispetto a quelli rivendicati dal singolo soggetto.

Allora il problema per me diventa: come si può conciliare la Legge del proprio desiderio, a cui ciascun soggetto è indubbiamente chiamato ad essere fedele, con il rispetto di analogo desiderio presente nell’Altro, nei soggetti altri?

La mia risposta è che la Legge del proprio desiderio non può essere considerata (narcisisticamente, egoicamente) come un assoluto, ma che va sempre e necessariamente conciliata con la Legge del desiderio altrui.

In altre parole il mio desiderio e la sua realizzazione trovano un limite e un argine laddove inizia il desiderio dell’Altro, degli altri.

Il limite, il confine rappresentato dall’altro impongono il sacrificio, perlomeno parziale e provvisorio, del mio desiderio.

E in questo caso si tratta di un giusto e, quindi, necessario sacrificio, che non ha nulla di masochistico e di insano, come nel caso ampiamente descritto sia da Lacan che da Recalcati del cosiddetto “fantasma sacrificale” (su cui non mi soffermo, rimandando alla lettura del libro).

In ultima analisi (e qui valgono alcune “posizioni alla Bataille”, giustamente citato in proposito da Recalcati: ibidem; pag. 100) l’etica umana non può essere fondata su “una concezione meramente edonistico conformistica della vita”: la libertà di affermare e realizzare il mio desiderio finisce laddove incomincia la libertà dell’altro (degli altri) di affermare il suo (i loro).

Ma c’è un altro motivo per cui la Legge del desiderio non può essere posta sic et simpliciter al centro e a fondamento della nuova morale di cui parlano Lacan prima e, sulla sua scorta, Recalcati poi.

Questo secondo motivo è che non tutti i nostri desideri sono poi di fatto realizzabili: i nostri desideri devono, infatti, fare sempre i conti con la Realtà; con la realtà fisico-materiale, innanzitutto, ma anche con la realtà psicosociale nella quale siamo immersi e dalla quale non possiamo mai totalmente prescindere, per quanto vogliamo (giustamente) affermare la nostra autonomia e libertà.

Questa Realtà è uno zoccolo duro con il quale il nostro desiderio deve fare ogni volta i conti, è la Cosa che consente all’Es di diventare Io. E non ha nulla a che fare con il Super-io, dunque con il “fantasma sacrificale”.

Il “fantasma sacrificale”, infatti, ci chiede di rinunciare al nostro desiderio in nome di una Legge che è puro capriccio.

La Realtà, invece, ci chiede di sacrificarlo in nome di una Legge che è scritta nella natura fisica del mondo e in alcune convenzioni psicosociali, che è impossibile trasgredire (almeno oltre un certo limite).

Nel primo caso, se rinunciamo al nostro desiderio in nome del “fantasma sacrificale”, ci suicidiamo psicologicamente; e allora pagheremo la nostra rinuncia, cioè il nostro “tradimento” del desiderio, con “il ritorno del rimosso; il sintomo, la depressione, lo spegnimento della vita e del desiderio stesso o di altre forme di sofferenza delle quali si occupa la clinica psicoanalitica” (ibidem; pag. 113).

Nel secondo caso, se il nostro desiderio pretende di contravvenire alle leggi della natura, corriamo il rischio di suicidarci addirittura fisicamente.

Per fare un esempio estremo ma che rende bene l’idea, se il mio desiderio è quello di volare e allora mi lancio dal balcone di casa, andrò fatalmente a sbattere al suolo con conseguenze più o meno gravi a seconda dell’altezza dalla quale mi sono lanciato.

Allo stesso modo, se il mio desiderio è quello di disobbedire alle leggi dello Stato in cui vivo, devo essere consapevole che subirò conseguentemente delle sanzioni civili o addirittura penali. Non posso certo pretendere che in uno Stato ciascuno faccia quello che vuole in nome della “Legge del proprio desiderio”.

Ugualmente, se il mio desiderio è quello di trasgredire alcune convenzioni sociali (i casi più frequenti sono quelli che riguardano la morale sessuale corrente), devo essere consapevole che pagherò dei prezzi in termini di sanzioni sociali, sotto forma di giudizio e di conseguente isolamento.

Poi, magari, in alcuni casi la nostra coscienza morale (l’altra morale, di cui parla Lacan) ci imporrà di disobbedire ad alcune Leggi dello Stato e di trasgredirne altre della morale corrente, in nome della fedeltà al nostro desiderio (non inteso come capriccio del momento, ma come nostra vocazione profonda).

E, però, lo ripeto, in questo caso dovremo essere consapevoli delle sanzioni giuridiche o semplicemente psicologiche a cui andremo incontro. La nostra scelta non potrà essere avventata e compiuta con faciloneria, in nome di una pretesa anarchica del nostro desiderio.

Per concludere io ritengo che la coscienza dell’Io sia costretta a muoversi sempre tra due sponde, quasi una Scilla e una Cariddi, come del resto ci ha insegnato Freud: – da una parte la pulsione del desiderio, alla quale bisogna cercare di rispondere e che in qualche modo bisogna cercare di soddisfare, “pena il pagamento di questo tradimento attraverso il ritorno del rimosso”; – dall’altra il “principio della realtà” che ci impedisce di soddisfare sempre e, soprattutto, pienamente la pulsione inconscia del nostro desiderio. In questo modo avverrà quanto auspicato da Freud: “Dove c’è l’Es ci sarà l’Io (Wo es war Ich werden)”.

Non potrà quindi affidarsi unilateralmente e totalmente alla Legge del desiderio, come sembrano dire sia Lacan che Recalcati, in maniera – a mio avviso – eccessivamente drastica e perentoria, suscitando, quindi, equivoci che possono invece facilmente essere evitati, come ho cercato di dimostrare con questa mia riflessione.

Allo stesso tempo per me la coscienza dell’Io dovrà assolutamente evitare di sottoporsi (almeno oltre un certo limite) alla Legge del sacrificio, del tutto gratuita e arbitraria, imposta dal Super-io, rappresentata dai dettami familiari e dalle convenzioni sociali correnti, fino a rendersene del tutto schiava, come avviene nel caso delle nevrosi.

Da questo punto di vista – fatte le precisazioni di cui sopra – la lezione di Lacan e di Recalcati è del tutto corretta e da me pienamente condivisa. Sono d’accordo pertanto che uno dei compiti principali in molti casi della terapia psicoanalitica è quello di alleggerire “la presenza implacabile del Super-io del paziente”.

Tanto è vero che arrivo a dire (parafrasando Freud) che “dove c’era il Super-io dovrà esserci l’Io”.

© Giovanni Lamagna