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Erotismo diffuso e Tantra.

Teoricamente tutti gli atti, i momenti, della nostra vita possono essere vissuti come atti e momenti erotici.

Basta volerlo, desiderarlo e proporselo.

Inteso in questo senso l’erotismo può diventare una vera e propria forma di ascesi e di spiritualità, persino di mistica.

Qui non mi riferisco ovviamente al modo volgare e rozzo con cui vivono il sesso gli erotomani, i quali non sono altro che dei ginnasti del sesso.

Anzi!

Mi riferisco, al contrario, a coloro che vivono il sesso come una vera e propria esperienza di ricerca, profondamente interiore e allo stesso tempo intensamente relazionale, da vivere prima e innanzitutto dentro di sé e contemporaneamente con almeno un partner, che ne condivida però finalità, scopi, tempi e modalità.

Da questo punto di vista il Tantra – tra le esperienze che ci ha consegnato la storia dell’umanità – è quella che meglio e più compiutamente esprime questa mia concezione/visione dell’erotismo e della sessualità.

Perché è un’esperienza profondamente corporea, sensuale e, perfino, edonistica.

Ma, allo stesso tempo, profondamente spirituale, ascetica e, persino, mistica.

© Giovanni Lamagna

Concentrazione ed esercizio.

Una cosa è aderire razionalmente e perfino emotivamente ad una certa regola di vita.

Ad esempio, alla regola: non devo innervosirmi di fronte alle avversità della vita; devo riuscire a mantenere il più possibile la calma.

Oppure: non devo diventare violento, quando mi prende la rabbia.

Altra cosa è riuscire ad essere effettivamente calmo, pacato, riflessivo, nonviolento nelle situazioni reali.

Io posso essere sinceramente convinto che nella vita bisogna mantenersi sempre, il più possibile, calmi e nonviolenti; e non riuscire poi ad esserlo concretamente, nella pratica reale; o perlomeno non riuscire ad esserlo sempre, come vorrei.

In questo secondo caso è evidente che non basta condividere intellettualmente ed emotivamente una certa regola di vita; bisogna poi applicarla con tenacia e perseveranza.

Occorre che all’adesione intellettuale ed emotiva ad una certa regola si accompagnino poi una pratica e uno stile di vita; mi verrebbe di dire, un’ascesi.

Ovverossia una concentrazione ed un esercizio costanti; non bastano le emozioni e i sentimenti; e manco le scelte teoriche, intellettuali.

© Giovanni Lamagna

Mistica e sacrificio.

Pur considerandomi un mistico (almeno nelle intenzioni, nelle aspirazioni, nei desideri, non so quanto nella realtà), non ho mai condiviso l’opzione di molti mistici (forse la maggioranza) di scegliere il dolore come ascesi, come via primaria e privilegiata di perfezionamento spirituale.

Trovo in questa scelta un che di insano, che sfiora il masochismo ed in molti casi lo tocca; talvolta, anzi, ne è del tutto permeata, impregnata.

Il mistico, infatti, per me non è chiamato affatto (almeno in prima battuta) a vivere il dolore e manco una vita fatta principalmente di rinunce, come molti immaginano.

Il mistico è chiamato innanzitutto a realizzare i suoi ideali, i suoi valori, religiosi o laici che siano, a vivere quindi una vita piena, felice, niente affatto cupa e sofferente, votata essenzialmente al sacrificio.

Su questa via, sul suo percorso, indubbiamente, può incontrare (e spesso incontra, prima o poi, come del resto accade a tutti i mortali) il dolore.

Ed allora, solo allora, non deve (o almeno non dovrebbe) deviare; solo allora dovrà scegliere il dolore e, perfino, in certi casi, l’estremo sacrificio della vita, perché l’alternativa, in questo caso, sarebbe tradire i suoi ideali.

Ma la sua scelta fondamentale, primaria, (ed è questo che vorrei qui affermare con forza) rimane innanzitutto quella di rispondere alla sua vocazione, quella di non tradire i suoi ideali.

Non è affatto quella del dolore in sé, non è quella di “abbracciare la croce” per amore della croce, come dicono, ad esempio, i cristiani o, perlomeno, molti di loro.

Gesù stesso, d’altra parte, che per me è il prototipo del mistico, non scelse affatto la croce come suo ideale; egli scelse di non tradire, di non rinnegare il “vangelo” che fino ad allora aveva predicato.

E per questo (e solo per questo) accettò anche di essere messo in croce.

Ma non ne fu affatto felice o contento, come alcuni mistici a lui successivi (con l’intenzione – a mio avviso, nata da un fraintendendolo – di imitarlo) hanno inteso fare, dando origine alla cosiddetta teologia del sacrificio e della croce.

Si ricordi, infatti, che più volte nell’orto degli ulivi, Gesù, prima di essere catturato per essere sottoposto a giudizio, supplicò il Padre di risparmiargli “l’amaro calice”.

E, quando fu messo in croce, non lodò affatto il Padre per non averlo salvato, ma gli lanciò quasi un’imprecazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”.

Come a voler sottolineare che il suo desiderio, la sua preferenza (come del resto a me pare del tutto naturale e, perfino, ovvio) erano del tutto diversi: egli avrebbe voluto salvarsi e non morire; meno che mai morire in un modo così crudele, come fu quello di morire in croce.

© Giovanni Lamagna

Alcune semplici e brevi riflessioni sul concetto buddhista di “nirvana”.

Il concetto buddhista di “nirvana” non è esente da ambiguità e, quindi, da possibili fraintendimenti.

Infatti, può essere inteso (e da alcune scuole buddhiste viene inteso) come rinuncia totale a qualsiasi desiderio, in quanto nel desiderio risiederebbe la radice stessa della sofferenza umana.

Secondo questa interpretazione la rinuncia radicale e totale ai desideri metterebbe fine alle sofferenze.

Per cui, da questo punto di vista, la morte sarebbe la condizione che meglio realizzerebbe questa condizione nirvanica.

L’altro modo di intendere il “nirvana” è meno radicale ed estremo: non prevede la rinuncia totale al desiderio, ma solo il non attaccamento all’oggetto del desiderio.

Non dunque la rinuncia al desiderio in sé, inteso anzi come pulsione necessaria alla affermazione della vita, ma la rinuncia alle manifestazioni compulsive ed ossessive del desiderio, ai falsi bisogni, che non si riescono a padroneggiare, ma di cui si perde il controllo, fino, in certi casi, a diventarne schiavi.

Non la rinuncia pertanto al desiderio correttamente inteso, ma alla brama, alla bramosia, che sono degenerazioni del desiderio.

E’ questa l’interpretazione in genere prevalsa nel mondo occidentale tra coloro che hanno aderito al buddhismo o simpatizzato con esso, perché, con tutta evidenza, è quella che meglio si concilia (o perlomeno non vi si contrappone del tutto) con il modo di pensare e di vivere prevalente presso le nostre culture.

Anzi va pienamente d’accordo con le principali correnti ascetiche e mistiche della tradizione occidentale, coincide sostanzialmente con esse.

Io, però, non sono del tutto convinto che sia questa seconda l’interpretazione più esatta del pensiero di Buddha, il quale non a caso parlava di due tipi di nirvana: il “nirvana con residuo” e il “nirvana senza residuo”.

Il primo si ottiene appunto con il distacco emotivo e mentale dall’oggetto del desiderio; ma non può che essere parziale, in quanto libera dalle sofferenze della mente, ma non da quelle del corpo.

Il secondo si ottiene unicamente con la morte, la quale sola estingue, spegne ogni soffio vitale, realizzando quella condizione che è espressa dalla radice etimologica della parola (“nir”: non + “va”: soffio).

Per cui lo stato pieno del nirvana si raggiungerebbe solo con lo spegnimento totale della vita e non col semplice distacco dagli oggetti del desiderio, raggiunto attraverso una particolare ascesi della volontà e del pensiero.

© Giovanni Lamagna

La cura di sé (Foucault) e l’esercizio spirituale (Hadot).

Esiste una differenza tra “la cura di sé” di cui parla Foucault e “l’esercizio spirituale” di cui parla Hadot (vedi Hadot; “Wittgenstein e i limiti del linguaggio”: pag. 125).

“La cura di sé” foucaultiana è “troppo concentrata sul o, quanto meno, su una certa concezione del sé”.

“L’esercizio spirituale” di Hadot è invece “un movimento di trascendenza”, un atto di conversione (filosofica) non solo teorico ma anche “pratico”, nel senso che coinvolge le azioni, i comportamenti, le scelte, “è superamento di sé e universalizzazione”, è apertura alla “totalità” e alla “Natura”, è fusione col Cosmo; è, in ultima istanza, si potrebbe arrivare a dire, non solo ascesi ma esperienza mistica.

Mi sembra una differenza non da poco; che (se può interessare a qualcuno) mi fa sentire molto più vicino ad Hadot che a Foucault.

© Giovanni Lamagna

Semplicità e semplicismo

Credo che occorra essere molto rigorosi e netti nel fare questa distinzione: una cosa è la semplicità, altra cosa è il semplicismo.

E che occorra perseguire (con costanza, con metodo, con tenacia) la semplicità come stile di vita.

Ma che sia necessario allo stesso tempo fuggire (con uguale costanza, tenacia e metodo) il semplicismo.

La semplicità, infatti, non si propone e, meno che mai, si sogna di negare la complessità, la difficoltà dei problemi, anzi della vita stessa.

Il semplicismo invece è proprio questo: la negazione, la rimozione della complessità, in nome dell’approssimazione, della faciloneria, del ricorso alle soluzioni (o, meglio, pseudosoluzioni) che a volte quasi sembrano voler negare l’esistenza stessa dei problemi.

La semplicità non nega la complessità e non parte dal presupposto che già sia tutto chiaro, anzi semplice, in partenza.

La semplicità ha come suo primo obiettivo quello di rendere chiaro il problema, che all’inizio, in molti casi, non lo è affatto.

E, per raggiungerlo, non si limita solamente a semplificare il linguaggio; cosa che, almeno in certi casi, è del tutto impossibile.

Cerca solo – almeno ci prova – di rendere il linguaggio quanto più accessibile al maggior numero di persone possibile.

Senza però mai farlo scadere al livello della superficialità, dell’approssimazione, se non della vera e propria banalità.

La semplicità, inoltre, non nega, né rimuove le contraddizioni (logiche, filosofiche, teoriche, materiali, economiche, sociali, culturali, politiche…) ed i conflitti che da esse derivano.

Prova solo ad individuare i percorsi, i metodi più adatti ed efficaci per affrontarle e possibilmente risolverle.

Nel suo procedere non fa mai credere, anzi non dà mai neanche lontanamente a intendere, che il suo cammino sia tutto rose e fiori, solo avanzamenti e successi, applausi e premi.

Ammette e riconosce i fallimenti, i punti di crisi, le sbandate, gli arretramenti, così come evidenzia gli avanzamenti e i risultati ottenuti.

Per concludere, la semplicità non è una dote di natura, quasi fosse costitutiva del codice genetico di una persona.

Ma è il frutto di una vera e propria ascesi, di un lavoro faticoso, a volte duro, innanzitutto su stessi.

La semplicità, in altre parole, è il punto di arrivo di un percorso intellettuale, etico e, perciò, spirituale, che tende ad affinarsi ed elevarsi sempre più nel corso del cammino; non è mai il punto di partenza di una vita.

Può e deve essere considerata, dunque, una virtù e non una qualità innata, come lo sono (per fare degli esempi) la bellezza fisica o il quoziente intellettuale.

Si diventa semplici, così come si diventa colti, saggi, educati, buoni…

Si nasce infantili e si corre il rischio di rimanere tali o di diventare dei sempliciotti, se non si fa un lavoro serio e, in molti momenti, duro su se stessi.

Non si nasce semplici, come qualcuno crede, confondendo (semplicisticamente, appunto!) la semplicità con la semplicioneria.

© Giovanni Lamagna

Tre tipi di approccio al sesso.

22 aprile 2015
Tre tipi di approccio al sesso.
Ci sono tre tipi di rapporto col sesso.
Il primo è quello di chi considera il sesso una cosa schifosa e ne fa del tutto a meno. O quello di chi ne ha vergogna e cerca di evitarlo o farlo il meno possibile. Non solo non ne prova piacere, ma ne ha addirittura fastidio e, in certi casi, perfino ripugnanza.
Si tratta di una situazione estrema ed oggi ridotta a pochi e rari casi. Ma comunque di una situazione ancora oggi esistente, nella quale è possibile riconoscere persone (poche magari) a noi vicine o persone di cui abbiamo o abbiamo avuto conoscenza.
Il secondo è quello di chi ha piacere a vivere il sesso, ma non osa dirlo fino in fondo, manco a se stesso, come se avesse una qualche ritrosia a dire “Il sesso mi piace!”, un qualche pudore (in altre parole: vergogna).
E’ la situazione di chi pratica il sesso, anche con una buona frequenza e costanza, ma quasi come una realtà separata dal resto della propria vita, di cui si parla con qualche ritegno e molta riservatezza, che non si vuole, insomma, dare troppo a vedere. Il sesso deve rimanere una realtà recondita, nascosta. Fa parte della pura privacy, quella che si definisce “intimità”.
E’ la situazione di chi, per fare sesso, (io dico) ha bisogno di tenere gli occhi chiusi. Metaforicamente. Ma, spesso, anche materialmente. Perché in qualche misura ne prova vergogna. Vergogna mascherata da (e presentata) come senso del pudore.
E’ la situazione di chi per fare sesso ha bisogno di essere un po’ brillo, quasi in una situazione di trance, al limite tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra la veglia e il sonno.
Per questo secondo tipo di persone il sesso, in genere, deve essere una cosa mordi e fuggi. Se non proprio una sveltina, manco una cosa che duri troppo a lungo. Altrimenti diventa difficile reggerne la tensione emotiva, legata al senso di colpa.
Per questo tipo di persone in genere la nudità è un problema; si preferisce fare sesso scoprendosi il meno possibile.
Per questo tipo di persone nel sesso prevale nettamente la dimensione affettiva e sentimentale su quella fisica ed erotica. Per queste persone il sesso deve rassicurare più che scuotere, confermare più che turbare.
Esiste, infine, il terzo tipo di rapporto col sesso: quello di chi non solo non ha paura del sesso e non lo trova ripugnante; quello di chi non solo lo trova piacevole ma ha qualche ritrosia a parlarne, come se si trattasse di una realtà in qualche misura comunque scabrosa; ma quello di chi considera il sesso una dimensione centrale della propria vita, allo stesso livello di quella emotiva, di quella sentimentale, di quella affettiva, di quella intellettuale. Non semplicemente funzionale (e quindi subordinata) a queste.
E’ il rapporto di chi trova nel sesso una dimensione unica per conoscere se stesso e l’altro. E, quindi, non solo lo vive senza alcun imbarazzo, ma ha desiderio di raccontarlo, rivelarlo, manifestarlo nel suo agire quotidiano, nei suoi gesti ordinari di ogni momento. Non come forma di (sguaiato) esibizionismo, ma come naturale manifestazione di un suo modo naturale, complessivo e profondo di essere e, quindi, anche di apparire.
E’ il rapporto di chi è erotico non solo a letto, quando fa all’amore col suo partner, ma lo è sempre, in ogni momento della sua vita. E non solo non se ne vergogna, ma ne è fiero (potremmo dire “gay”), perché si sente, in questo suo modo di essere, una persona unificata e perciò liberata.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in maniera privilegiata in contatto con la propria natura animale. E non solo non si vuole sottrarre a questo contatto, ma lo ricerca, come occasione unica e speciale di crescita psicologica e, quindi, umana.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in contatto con la propria natura perversa e polimorfa (come Freud definiva la sessualità umana).
Perversa non nel senso usuale, deteriore e negativo, del termine. Ma perversa nel senso che non si limita a vedere nel sesso un atto puramente procreativo (come ha previsto la natura), ma una forma di linguaggio (del tutto speciale), quindi figlio e generatore di cultura.
Polimorfa perché, proprio dal momento che il sesso è una forma di linguaggio, esso non si realizza in una sola lingua, non usa una sola ortografia, una sola grammatica e una sola sintassi, ma può realizzarsi nelle forme più varie.
Ad una sola condizione: che il linguaggio che io voglio usare sia compreso e condiviso dall’altro/a. Che ci sia alleanza, complicità con l’altro/a.
Il sesso è un linguaggio del tutto particolare, che ci consente, più e meglio della parola parlata, di scendere negli abissi della nostra natura più oscura e quindi di fare luce sulle nostre ombre più inconfessabili.
Per chi lo intende in questo modo il sesso è un’avventura speciale, ogni volta trasgressiva, perché ogni volta alla ricerca del superamento del limite, del confine già raggiunto.
In questo senso il sesso è una forma di conoscenza e di ascesi, che ha a che fare con la crescita spirituale. Gli orientali da questo punto di vista hanno molte cose da insegnare a noi occidentali.
Per questo considero la pratica tantrica la massima espressione della religiosità umana. Perché è quella che più di altre è stata capace di coniugare e conciliare gli (apparenti) opposti: corpo e anima, sesso e spiritualità, amore e trasgressione, fedeltà e infedeltà, desiderio e oblatività, egoismo e altruismo, aggressività e donazione, gioco e impegno.
Laddove, invece, molte forme di religiosità, anzi la maggior parte di esse, vivono, fondano la loro teoria (teologia) e la loro pratica (ascesi) proprio sull’affermazione della inconciliabilità di questi “opposti”. Di cui alcuni rappresentano (per loro) il bene e altri il male, alcuni le virtù e altri il peccato, alcuni la salvazione e altri la perdizione.
La spiritualità tantrica ci insegna (o, meglio, può insegnarci) che non esiste peccato, non esiste dannazione, laddove c’è un desiderio, laddove un desiderio incontra il desiderio di un altro. Che anzi il vero peccato, la vera dannazione stanno – direbbe Lacan – nella rinuncia al proprio desiderio.
Giovanni Lamagna