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Il rapporto sessuale non esiste?

“Cosa significa affermare – come fa Lacan – che il rapporto sessuale non esiste?”: si chiede Massimo Recalcati nella prefazione al suo libro “Esiste il rapporto sessuale?” (Raffaello Cortina, 2021).

Ma, per quanti sforzi abbia fatto, io – francamente – non ho capito la sua risposta.

Perché una cosa è affermare che “la sessualità umana è un campo attraversato da onde sismiche che lo rendono instabile e precario”; e questo mi è chiaro, anzi del tutto evidente.

Altra cosa è affermare – come fa Recalcati – la radicale impossibilità e, quindi, inesistenza del rapporto sessuale; e questo non mi è per nulla evidente; anzi non riesco a comprenderlo per niente e quindi non lo condivido.

Tra l’altro è una tesi che trovo del tutto contraddittoria con le affermazioni finali di Recalcati: “La gioia non è però affatto estranea a questa instabilità e a questa precarietà. Essa può scaturire dall’Eros come una forza sorprendente, come un’affermazione della vita e della sua eccedenza.

Laddove poi questa forza conosce la convergenza con l’amore, ha la straordinaria possibilità di unire il corpo con il nome facendo esistere un erotismo capace di non restare imprigionato nell’ipnosi dell’oggetto, ma di manifestarsi come un’altra soddisfazione nella quale la pulsione sessuale non si oppone necessariamente all’amore, ma diventa una sua componente essenziale.”

Se queste ultime affermazioni sono vere (e per me lo sono), allora per potersi conciliare con quella precedente (“il rapporto sessuale non esiste”), ne dovremmo concludere che per Massimo Recalcati “manco il rapporto d’amore esiste”.

Ma è, può essere, davvero questo il pensiero di un autore, che a questo tema dell’amore ha dedicato montagne di parole in articoli, libri e perfino trasmissioni televisive? A mio avviso, no!

Ne devo dedurre allora che l’affermazione, molto perentoria, “il rapporto sessuale non esiste”, deve riferirsi al paradosso che è insito in ogni tipo di rapporto; e non solo in quello sessuale.

Quale paradosso?

Il paradosso in base al quale la pulsione libidica ci spinge verso l’altro/a con l’anelito a diventare una sola cosa con lui/lei; nel caso in cui la pulsione libidica assume (o, meglio, mantiene) le forme specifiche della sessualità, l’anelito è a diventare “una sola carne” con l’altro/a.

Anelito che, però, potrà realizzarsi solo in parte e solo per alcuni momenti, che, infatti e non a caso, vengono – da chi è riuscito, per suo merito o per sua fortuna, a sperimentarli – definiti magici.

Perché una volta che la fusione (reale o apparente, qui ha poca importanza approfondirlo) si allenta, l’incanto ad essa legato svanisce, perlomeno nella forma della (quasi) magia con cui si era presentato.

E allora si sperimenta che ciascuno essere umano è condannato ad una solitudine fondamentale, radicale, potremmo anche definire ontologica, dalla quale mai e poi mai potrà fuggire.

Questo non vuol dire che i momenti di amore, di intimità spirituale, e persino quelli di estasi carnale vissuti in certi momenti e situazioni siano (stati) puro sogno, fantasie o, addirittura, nient’altro che allucinazioni.

Vuol dire solo che l’amore e il rapporto sessuale tra due esseri umani sono realtà fragili, precarie, instabili, momentanee, onde sismiche, appunto, come lo sono tutte le realtà umane.

A cominciare dal piacere, che si alterna spesso al fastidio e persino al disgusto; dalla gioia, che si alterna alla tristezza; e, perfino, dalla felicità, che talvolta si alterna all’infelicità e, in certi momenti, addirittura alla disperazione.

Ma questo non mi porta a dire (e credo che non dovrebbe portare nessuno a dire) che non esiste il rapporto sessuale; né (tantomeno) che non esiste, non può esistere, l’amore tra due esseri umani.

© Giovanni Lamagna

Due modi (opposti) di vivere il piacere.

Ci sono due modi – molto diversi, potremmo anche dire opposti – di vivere il piacere.

Il primo è il modo aggressivo, violento, predatorio, veloce di vivere il piacere. Fatto di un mordi e fuggi. Come se fosse incapace di reggere per troppo tempo la tensione, l’adrenalina, che sempre sono connesse alle situazioni di piacere.

E’ l’atteggiamento di chi è attratto, come è ovvio, dal piacere, ma, allo stesso tempo, ne è turbato. Vive quindi nei confronti del piacere un sentimento ambivalente e contraddittorio.

Per costui/costei il piacere, quindi, deve essere breve, veloce. Intenso, ma non troppo prolungato. Il godimento deve accompagnarsi ben presto al momento della sua risoluzione, con relativa latenza del desiderio.

Un piacere troppo esteso o prolungato è quindi vissuto con imbarazzo, se non addirittura con disgusto. In questo caso il desiderio può trasformarsi nel suo opposto: in un sentimento di fuga dal piacere, di rifiuto delle sensazioni ad esso collegate. Che non sono manco più piacevoli, ma diventano (soggettivamente, ma molto realmente) sgradevoli.

In questo caso il piacere si accompagna sempre a un più o meno latente senso di colpa, che si manifesta o attraverso un senso del pudore eccessivo a attraverso una vera e propria vergogna del proprio agire.

Chi vive il piacere in questo modo alterna spesso momenti di euforia e di eccitazione a momenti di stanca malinconia, se non di conclamata depressione.

Chi vive il piacere in questo modo si accompagna anche a persone diverse a seconda del modo di vivere il piacere. Frequenta alternativamente persone che lo aiutano a vivere il piacere e altre che lo immalinconiscono o addirittura lo buttano in depressione.

Le seconde gli servono a bilanciare le prime. Come se frequentare solo le prime fosse troppo. Costasse sensi (innaturali e illogici, eppure ben reali) di colpa. E quindi abbisognasse di pagare pedaggio ai momenti di piacere. Come se frequentare le une e le altre servisse a trovare uno strano e paradossale equilibrio, utile a gestire sia il piacere che i sensi di colpa.

Ovviamente chi vive il piacere in questo modo non potrà mai crescere nei suoi livelli di piacere. Dovrà sempre accontentarsi di una certa soglia di piacere, oltre la quale non potrà mai andare.

C’è poi un altro modo di vivere il piacere, che si distingue dal primo fondamentalmente perché, al contrario del primo, è vissuto senza significativi sensi di colpa. Oppure è in grado di riconoscere i sensi di colpa connessi al piacere che si sta vivendo e li sa gestire, controllare e, infine, superare.

E’ in grado, quindi, di viversi il piacere senza significative contraddizioni. E’ perciò capace di viverlo in maniera prolungata e distesa senza eccessive e avide voracità, ma anche senza inutili e “sprucide” avarizie.

E’ capace di avventurarsi in nuovi territori dello stesso piacere, senza troppe angosce, ma anzi col gusto dell’esplorazione e della sperimentazione, se non della vera e propria trasgressione.

E’ capace di sfidare perfino le convenzioni sociali, i tabù consolidati nel pensiero comune, quando si rende conto, diventa consapevole che il piacere desiderato non fa danni a nessuno, anzi procura maggiore benessere a se stesso e a colui/colei/coloro con cui esso viene condiviso.

Chi vive il piacere in questo modo ha un buon rapporto con il suo inconscio e , quindi, con le sue pulsioni libidiche. Ha ridotto al minimo l’influenza del Super Ego e tiene conto, nel porre limite ai suoi desideri, solo del principio (ovviamente fondamentale) della realtà.

Soffre di rado di sbalzi di umore. Vive una situazione stabilizzata e placida di benessere psicofisico, che ogni tanto viene piacevolmente “turbata” da picchi di godimento, ma non sprofonda mai (o quasi mai) negli abissi del dispiacere e della malinconia. Non sa manco cosa sia la depressione.

Tende a frequentare persone che come lui/lei sono altrettanto gaudenti, nel senso che vivono un rapporto positivo col piacere. E ad evitare, al contrario, le persone che hanno un rapporto complicato col piacere. A maggior ragione si tiene lontano da quelle che propendono verso il masochismo.

Giovanni Lamagna

Recensione del film “Loro 1” di Paolo Sorrentino.

Ho appena visto la prima parte dell’ultimo film di Paolo Sorrentino “Loro”, liberamente ispirato alla vicenda umana e politica di Silvio Berlusconi.

Non posso dire che mi è piaciuto, non posso dire che è un bel film. Posso dire, però, che è un film che va visto, è un film che mi ha intrigato.

Questa prima parte dura 104 minuti. Lo dico, perché per un buon 90 minuti è rivoltante, provoca un sentimento di rigetto, ripugnanza, ripulsa. Negli ultimi 10/15 minuti, invece, sfiora addirittura la tenerezza e quasi commuove.

Il film è liberamente ispirato alla vita di Silvio Berlusconi: la scritta iniziale che precede l’avvio delle immagini ci tiene a evidenziarlo. Ma la sostanza della vicenda umana e politica di Berlusconi vi è perfettamente narrata nella sostanza.

“Tutto documentato. Tutto arbitrario”: ci dice Sorrentino, citando la frase di Manganelli.

Nel film viene descritto un Berlusconi (Toni Servillo) quasi pensionato. Che ha appena perso le redini del governo, conquistato dal centro sinistra. Ma resta, ovviamente, un uomo di grande potere economico e politico.

Circondato da uomini senza scrupoli, che lo venerano esteriormente, mentre cercano (almeno qualcuno ci prova) di fargli le scarpe ed assumerne l’eredità.

In ogni caso cercano di sfruttarne il potere e la ricchezza, per guadagnarne a loro volta.

In questa prima lunga parte del film fondamentale è il ruolo svolto dal personaggio interpretato da un grande Riccardo Scamarcio, Sergio Morra, uomo spregiudicato, che facendo leva sulle debolezze da vizioso erotomane del leader di Forza Italia si mette in testa di avvicinarlo per proporgli le visite di ragazze rampanti disposte a tutto pur di entrare nelle grazie del Silvio nazionale.

Questa prima parte del film è, dunque, molto giocata sull’intreccio sesso/potere. E mostra molto bene come il sesso possa essere utilizzato quale arma di seduzione e quindi di potere. E come il potere sia uno strumento a sua volta di seduzione, in grado di procurare sesso facile, anche se a prezzi (in denaro e favori) elevatissimi.

E’ la parte del film che, come dicevo prima, provoca disgusto e rigetto: sia di fronte al sistema di corruzione politica dilagante, sia di fronte al consumo di sesso orgiastico a fini di semplice utilizzo del potere, senza alcuna forma vera e disinteressata di relazione benché minima.

Per questo gli ultimi dieci minuti del film sfiorano la tenerezza. Perché vi si mostra un Berlusconi lontano dalle stanze del potere romano, in buen retiro in Sardegna, con la moglie e i nipoti, ai quali sembra sinceramente legato.

Per carità, è sempre il Berlusconi becero, incapace di condividere gli interessi culturali della moglie (Elena Sofia Ricci), accanita lettrice (di Saramago).

E’ il Berlusconi che ama le canzoni napoletane (non certo le migliori) cantate dal suo chansonier preferito Mariano Apicella (Giovanni Esposito).

E’ il Berlusconi che parlando con il nipote adolescente si manifesta in tutto il suo cinismo di uomo potente e spregiudicato. “La verità è frutto del tono e della convinzione con cui la affermiamo”: in sintesi è questo l’insegnamento che cerca di trasmettere come nonno al ragazzo.

E però è comunque un Berlusconi che, approfittando del periodo dorato delle vacanze e del bellissimo contesto naturale che lo circonda (la splendida villa in Sardegna), cerca di recuperare il rapporto in crisi con la moglie Veronica.

E sembra esserci quasi riuscito. C’è un momento in cui i due si allontanano dall’enorme yacht su cui sono ospiti e fanno una passeggiata da soli con una moto d’acqua. Questa ad un certo punto si blocca in mezzo al mare: i due restano abbracciati e ripensano ai momenti iniziali del loro primo incontro.

C’è una canzone che poco dopo fa da sottofondo musicale alla scena finale di Silvio e Veronica che si raccontano e sembrano aver recuperato un po’ dell’antica intimità perduta: Fabio Concato che canta “Una domenica bestiale”, la canzone che avevano ascoltato la prima volta che avevano ballato insieme e si erano dati un bacio.

In lontananza si vede Apicella che li guarda deluso e un po’ mortificato.

La scena sembra un po’ la metafora del rapporto ritrovato. Ma qui il film si interrompe.

Il seguito alla seconda parte, che uscirà tra pochi giorni.

In conclusione.

Che ha voluto dire Sorrentino con questo film? Da quale suo bisogno interiore esso è nato?

A me sembra che il film nasca dalla curiosità di indagare innanzitutto un personaggio (“Lui”, come viene chiamato dai suoi “devoti”), che, al di là del giudizio (umano e politico) che se ne possa avere (e quello del regista – si intuisce – non è affatto positivo e benevolo), ha indubbiamente avuto un ruolo importantissimo, anzi fondamentale nella storia economica, sociale, culturale e politica italiana (soprattutto) degli ultimi 25 anni. Un uomo, quindi, dotato di un indubbio (anche se ovviamente del tutto particolare) carisma.

Il film si propone poi di indagare (anzi all’inizio si propone di fare soprattutto questo) una parte della società italiana, profondamente amorale (la figura del faccendiere tarantino Sergio Morra e quella del ministro-poeta, interpretata mirabilmente da Fabrizio Bentivoglio, ne sono la metafora perfetta), disposta a tutto pur di conquistare potere e sesso (non si capisce bene se dando la precedenza al sesso o al potere): il sesso attraverso il potere e il potere attraverso il sesso.

Non a caso il film si intitola “Loro”. Loro sono tutti coloro che circondano Silvio Berlusconi, sono la sua corte, che non si capisce bene fino a che punto si rispecchiano in lui, si riconoscono in lui, vorrebbero essere come lui, e fino a che punto lo utilizzano, lo sfruttano e sono capaci e disposti anche a ingannarlo e tramare contro di lui, pur di raggiungere la sua stessa ricchezza, il suo stesso potere, la sua capacità di godimento (sessuale) sfrenato e senza limiti.

Il film nasce, dunque, a mio avviso dal bisogno-desiderio del regista (e dell’altro sceneggiatore Umberto Contarello) di raccontare la vicenda umana e politica di un personaggio, che è stata, però, (e, per certi versi, è ancora) l’autobiografia di un’intera nazione o, perlomeno, di una parte consistente di essa.

Anzi forse l’intento principale del regista è soprattutto quello di raccontare l’Italia di fine secolo XX e inizi secolo XXI. Come a dire: Berlusconi è la perfetta metafora dell’Italia di questo periodo storico. Non a caso (ripeto) il film si intitola “Loro” e non “Lui”, come ci si poteva aspettare, visto che il film è (apparentemente) incentrato sulla figura del Berlusca.

E’ riuscito Sorrentino a realizzare il suo intento? A giudicare questa prima parte del suo film (che non potrà essere valutato compiutamente senza aver visto anche la seconda parte, in uscita il 10 maggio prossimo), a mio avviso, c’è riuscito abbastanza. L’Italia che egli voleva descrivere è stata da lui guardata con una specie di lente di ingrandimento e con occhio spietato. E, a mio giudizio, ne esce a pezzi. Addirittura (forse) peggio del signore-mito nel quale essa si è rispecchiata in questi ultimi 25 anni. Particolare questo sul quale si potrà discutere e che si potrà anche non condividere: è, infatti, la parte del film più opinabile.

In ogni caso non mi pare ci siano state indulgenze da parte di Sorrentino né nei confronti dell’una né nei confronti dell’altro. Il giudizio implicito che se ne ricava è spietato e severo: basta guardare dentro di sé, ai sentimenti di rigetto, ripulsa e ripugnanza che il film provoca. Ma è, appunto, un giudizio implicito, espresso con eleganza e misura dall’autore, senza condanne moralistiche. Lo spettatore se lo forma, a sua volta, da solo, senza che nessuno (apparentemente) lo abbia guidato o indotto: l’autore si è semplicemente limitato a descrivere i fatti, la realtà (per quanto, in parte, ma solo molto in parte, elaborata e trasfigurata).

E’ riuscito il film dal punto di vista estetico? A mio avviso, sì. Sorrentino indubbiamente lo conduce con la solita grande padronanza tecnica. I contenuti non sono gradevoli, quindi il film non può piacere perché racconta una storia che piace. Ma sono raccontati con grande realismo e quindi in maniera che a me è risultata efficace. Alla fine il risultato comunicativo che Sorrentino voleva raggiungere è stato raggiunto. E in un prodotto artistico questo è ciò che conta.

Giovanni Lamagna

Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.

Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.

“La femmina nuda”, l’ultimo romanzo di Elena Stancanelli, è il racconto di una grande, profonda, prolungata ossessione.

L’ossessione di una donna, di nome Anna, abbandonata dal suo uomo, Davide, dopo cinque anni di un amore vissuto tra alti e bassi.

Ossessione che si manifesta nell’incapacità di Anna di farsene una ragione, nella perdita di ogni motivazione significativa a vivere, nella forma di anoressia che la porta in breve tempo a perdere chili su chili di peso, ma soprattutto nel rancore profondo, acuto, acido, malato, verso colei, Cane, che Anna (come – quasi – tutti gli innamorati abbandonati) ritiene la causa (unica) della fine del suo amore. Cane è, infatti, la nuova donna del “suo” Davide.

Dal momento in cui Anna scopre l’esistenza di Cane inizia la ricerca ossessiva di questa donna. Prima virtuale, attraverso i telefonini, le pagine facebook e le email. Poi reale, con appostamenti (giornalieri e notturni), pedinamenti e, infine, incontri veri e propri, provocati a insaputa della “vittima” e del nuovo amante di lei, Davide.

Il romanzo si conclude con una scena madre finale, in cui si scatena, esplode tutto l’odio viscerale e accumulato nel tempo della protagonista nei confronti della sua inconsapevole rivale. In questo modo Anna finalmente si libera dall’ossessione che si è impossessata di lei per svariati mesi.

Non si capisce bene però dalle parole finali della protagonista (che per tutto il romanzo – sia detto per inciso – racconta le sue storie alla sua amica più intima), come si conclude questa vicenda emotiva.

Anna si libera, certamente e finalmente, dalla ossessione in cui era precipitata. Ma sembra cadere (almeno questo io ho capito) in una specie di cinismo e di disincanto nei confronti di tutti i rapporti.

A parole scrive: “Adesso mi piacciono tutti… Ho una grande pietà e rispetto per i corpi… tutti i corpi, compreso il mio, mi ispirano una grande tenerezza.”

In realtà l’impressione (ma neanche solo l’impressione) è che lei non sia più disposta ad innamorarsi e ad amare più veramente qualcuno.

Fa l’amore un po’ con tutti, senza andare troppo per il sottile, belli e brutti(ni), uomini e donne. Ma di “innamoramenti e amori” non vuole occuparsi più.

Il racconto quindi si conclude in maniera alquanto amara e triste, come del resto triste, pesante, era stato il tono complessivo e prevalente di tutta la vicenda narrata.

Non è un bel romanzo questo ultimo della Stancanelli. E’ scritto, sì, abbastanza bene, si legge in scioltezza. Ma non se ne coglie la “necessità interiore”.

Colpisce abbastanza il linguaggio disinibito, crudo, perfino sboccato, con cui l’autrice descrive parti anatomiche, organi e desideri sessuali maschili e femminili, come se volesse dimostrare che lei ha superato (pur essendo una donna) le inibizioni classiche. Ma questo francamente non risulta più essere una grande novità di questi tempi. Molte scrittrici e da tempo l’hanno preceduta in una simile performance.

La storia inoltre non ha una sua vera originalità. Ricalca lo stereotipo delle dipendenze affettive classiche, tipiche, soprattutto femminili, Con in più un qualcosa che la rende poco credibile.

Anna si capisce è una professionista piuttosto affermata, abbastanza colta e piuttosto benestante.

Davide, l’uomo di cui lei è invaghita, è un meccanico di auto, viene da immaginare piuttosto rozzo e volgare, di quelli muscolosi e dongiovanni, che ci provano con tutte, pronti e desiderosi solo di scopate rapide e senza coinvolgimenti emotivi, con i manifesti delle donnine di Playboy attaccati alle pareti dell’officina.

Viene da chiedersi: può una donna come Anna perdere la testa, fino alla dipendenza e all’ossessione, per un uomo simile?

Se, infine, la storia ha voluto descrivere la tristezza e lo squallore di un certo mondo romano, frequentatore di locali, dove si beve champagne a fiumi e si sniffa cocaina in gran quantità, dove si rimorchia e si scopa solo per esorcizzare la noia, ci è riuscita abbastanza bene.

L’esito finale per il lettore è, però, un certo disgusto, simile proprio a quello che deve aver provato Cane nelle pagine finali, quando si vomita continuamente addosso, ubriaca e strafatta.

Giovanni Lamagna

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

3 aprile 2016

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

La psicologia umanistica e quella transpersonale sostengono (e, a mio avviso, con molta ragione) che la maggior parte delle persone realizza al massimo il 30% del proprio potenziale umano.

E questo perché preferisce “dormire” (in senso metaforico, ovviamente) o, nella migliore delle ipotesi, campare in uno stato di mezza veglia o mezzo sonno.

Che si manifesta in mille forme. Qui ne indico solo alcune, quelle che mi sembrano le più eclatanti e diffuse:

– una scarsa concentrazione e attenzione alla realtà (tanto è vero che almeno una parte degli incidenti – ad esempio, le cadute – di cui siamo vittima possono essere attribuiti a questo modo di vivere);

– una inclinazione a razionalizzare, a vivere in una dimensione prevalentemente o puramente mentale, intellettuale;

– una incapacità ad emozionarsi;

– all’opposto, una tendenza ad essere succubi delle emozioni, incapaci di controllarle e di gestirle;

– il ricorso alle droghe, da quelle più leggere a quelle più pesanti;

– il sottoutilizzo del proprio senso critico, l’accontentarsi di sposare idee prese in prestito dai mass media o, peggio, il ricorso agli stereotipi e ai luoghi comuni;

– lo scarso senso civico;

– il disinteresse a partecipare alla convivenza civile attraverso un impegno politico attivo.

Viene da chiedersi: perché? perché la maggior parte degli esseri umani propende a vivere così? (Dire “sceglie” di vivere così sarebbe un ossimoro, contraddittorio con la premessa da cui sono partito).

Perché propende a vivere così, dal momento che in questo modo si perde – con tutta evidenza – il meglio?

Un po’ come succederebbe a un viaggiatore che restasse per tutto il tempo del viaggio a dormire nell’albergo dove ha trovato alloggio o camminasse per le strade e i luoghi che andasse a visitare con gli occhi socchiusi, non del tutto aperti.

Ci deve essere una risposta a questa domanda. Che cosa spiega un tale atteggiamento?

L’unica risposta che riesco a trovare è che la realtà fa paura, vedere le cose come stanno provoca ansia e, in qualche caso, perfino angoscia.

Avere consapevolezza (per fare solo un esempio, quello più estremo) che la nostra vita, per quanto bella e soddisfacente, si concluderà inevitabilmente, prima o poi, con la morte, può ingenerare perfino terrore e, quindi, fuga da tale consapevolezza, rimozione di questo pensiero.

Inoltre stare sempre concentrati, vivere cioè pienamente l’attimo presente, comporta una fatica, uno sforzo, almeno all’inizio, quando non si è abituati a farlo.

Ecco allora che, per difendersi dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia, per evitare lo sforzo dell’impegno e vincere la pigrizia, si preferisce campare in uno stato di incoscienza o di semi-coscienza, in una condizione di indolente torpore.

Ovviamente in questo modo ci si protegge (forse) dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia (anche se queste poi spesso si manifestano in altre forme e per altre vie: insoddisfazione, noia, disgusto, nausea, mancanza di empatia, incapacità di entrare in relazione profonda con gli altri, apatia, rinuncia all’eros, astenia o, perfino, impotenza sessuale, depressione più o meno profonda).

Allo stesso modo si evitano sforzi e fatiche (anche se, poi, paradossalmente spesso si è stanchi lo stesso).

Ma, nello stesso momento e in pari grado, ci si impedisce di godere appieno di tutte le cose belle della vita o, meglio, delle cose migliori della vita.

Che richiedono, per essere apprezzate, lo sguardo vigile, l’orecchio attento, la mente sveglia, l’animo aperto, un impegno attivo e costante, anche se faticoso.

Giovanni Lamagna