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Volere bene.
Volere bene a qualcuno significa innanzitutto e molto semplicemente provare gratitudine per la sua esistenza, per il suo essere al mondo.
Sentimento niente affatto scontato tra gli uomini; anzi raro; presente, nel migliore dei casi, solo all’interno di una ristretta cerchia di familiari ed amici.
I più tra noi spesso vivono con fastidio o addirittura con ostilità l’esistenza dell’altro, che – in una visione del tutto miope – toglierebbe spazio alla nostra o le impedirebbe di realizzare le sue potenzialità, le sue aspirazioni, i suoi desideri.
Volere bene a qualcuno significa, invece, avvertire – da tutti i punti di vista – che l’esistenza dell’altro, lungi dal togliere qualcosa alla nostra, l’arricchisce, la favorisce, la stimola, è fattore di crescita, di vitalità, di bene-essere per noi.
© Giovanni Lamagna
Gelosia, amore e narcisismo.
Io penso che la gelosia, oltre che un sentimento da inscrivere tra le psicopatologie, sia anche un sentimento da considerare molto stupido.
Per due ordini di motivazioni legate a due ipotesi alternative.
La prima ipotesi è che la donna verso cui provo attrazione e amore, non ricambi il mio amore, oppure che l’abbia provato in passato, ma ora non lo provi più.
In una simile ipotesi che senso ha che io pretenda il suo amore?
L’amore, per definizione, è un sentimento libero, che o si prova spontaneamente o non si può provare in altra maniera; meno che mai si può provare per imposizione.
Che gusto c’è, quindi, a pretendere l’amore, quando esso non è provato “sponte sua”?
Come d’altra parte e a maggior ragione (me lo sono chiesto tante volte) che gusto o piacere si può provare nello stuprare una donna; una donna che mentre tu la violenti fa di tutto per respingerti?
Misteri dell’animo umano!
L’amore per sua natura è l’incanto, mi verrebbe da dire perfino il miracolo, dell’incontro spontaneo tra due desideri.
Che amore è, dunque, quello che, invece di incontrare il desiderio dell’altro o dell’altra, si scontra col rifiuto dell’altro/a?
La seconda ipotesi, quella alternativa alla prima, è che la donna che io amo ricambi il mio amore, che mi ami a sua volta e senza ombra di dubbi.
In questo caso che senso ha, che ragion d’essere ha, la mia gelosia?
Il fatto che altri uomini possano trovare attraente e desiderabile la donna che amo perché dovrebbe ingelosirmi?
Non sarebbe questa un’ulteriore conferma del suo valore di persona?
E, allora, perché mi dovrebbe dare fastidio o, addirittura, ferirmi?
Non dovrebbe, invece e piuttosto, lusingarmi, lusingare in qualche modo il mio narcisismo, che sempre si lega (è inutile negarlo!) al sentimento dell’amore.
E qui veniamo ad un’altra (non piccola) questione, che voglio però affrontare solo di passaggio; dunque l’accennerò appena.
Chi nega l’esistenza di una componente narcisistica in amore, in realtà, la nasconde a sé stesso e si dimostra uno sciocco, che può diventare addirittura pericoloso.
Negarlo è solo un poco lungimirante mettere la testa sotto la sabbia.
Perché, invece, se fossimo più consapevoli del nostro strutturale narcisismo, forse saremmo meglio in grado di tenerlo, almeno in qualche misura, a bada, sotto controllo.
D’altra parte è talmente vero che narcisismo e amore sono indissolubilmente legati, che quando questo narcisismo viene ferito perché la persona che amo non corrisponde al mio amore, in alcune situazioni estreme, che possiamo con buone ragioni definire patologiche, questo narcisismo ferito può portare a gesti estremi, come i femminicidi, di cui le cronache sono così spesso costrette ad occuparsi.
E in questi giorni ne stiamo avendo, purtroppo, l’ennesima conferma.
© Giovanni Lamagna
La donna “puttana”.
“E’ una zoccola, una troia, una puttana!”: si dice – con disprezzo – della donna “che la dà facilmente”.
In realtà – in senso letterale – una puttana non è affatto una donna che la dà facilmente, ma una donna che la dà solo a pagamento; quindi mica “facilmente”.
Pochi arrivano a pensare che la donna cosiddetta “zoccola”, “troia”, “puttana” forse “la dà” perché sceglie, decide, di “darla”; e perché questo le fa, le dà, piacere.
E’ questo piacere che, forse, a mio avviso, ancora oggi, in tempi di (presunta) rivoluzione sessuale avvenuta, dà tanto fastidio a chi giudica con tanta severità.
Fastidio originato, quindi, dall’invidia; scaturita, a sua volta, dalla incapacità di provare lo stesso piacere.
© Giovanni Lamagna
Il rapporto sessuale non esiste?
“Cosa significa affermare – come fa Lacan – che il rapporto sessuale non esiste?”: si chiede Massimo Recalcati nella prefazione al suo libro “Esiste il rapporto sessuale?” (Raffaello Cortina, 2021).
Ma, per quanti sforzi abbia fatto, io – francamente – non ho capito la sua risposta.
Perché una cosa è affermare che “la sessualità umana è un campo attraversato da onde sismiche che lo rendono instabile e precario”; e questo mi è chiaro, anzi del tutto evidente.
Altra cosa è affermare – come fa Recalcati – la radicale impossibilità e, quindi, inesistenza del rapporto sessuale; e questo non mi è per nulla evidente; anzi non riesco a comprenderlo per niente e quindi non lo condivido.
Tra l’altro è una tesi che trovo del tutto contraddittoria con le affermazioni finali di Recalcati: “La gioia non è però affatto estranea a questa instabilità e a questa precarietà. Essa può scaturire dall’Eros come una forza sorprendente, come un’affermazione della vita e della sua eccedenza.
Laddove poi questa forza conosce la convergenza con l’amore, ha la straordinaria possibilità di unire il corpo con il nome facendo esistere un erotismo capace di non restare imprigionato nell’ipnosi dell’oggetto, ma di manifestarsi come un’altra soddisfazione nella quale la pulsione sessuale non si oppone necessariamente all’amore, ma diventa una sua componente essenziale.”
Se queste ultime affermazioni sono vere (e per me lo sono), allora per potersi conciliare con quella precedente (“il rapporto sessuale non esiste”), ne dovremmo concludere che per Massimo Recalcati “manco il rapporto d’amore esiste”.
Ma è, può essere, davvero questo il pensiero di un autore, che a questo tema dell’amore ha dedicato montagne di parole in articoli, libri e perfino trasmissioni televisive? A mio avviso, no!
Ne devo dedurre allora che l’affermazione, molto perentoria, “il rapporto sessuale non esiste”, deve riferirsi al paradosso che è insito in ogni tipo di rapporto; e non solo in quello sessuale.
Quale paradosso?
Il paradosso in base al quale la pulsione libidica ci spinge verso l’altro/a con l’anelito a diventare una sola cosa con lui/lei; nel caso in cui la pulsione libidica assume (o, meglio, mantiene) le forme specifiche della sessualità, l’anelito è a diventare “una sola carne” con l’altro/a.
Anelito che, però, potrà realizzarsi solo in parte e solo per alcuni momenti, che, infatti e non a caso, vengono – da chi è riuscito, per suo merito o per sua fortuna, a sperimentarli – definiti magici.
Perché una volta che la fusione (reale o apparente, qui ha poca importanza approfondirlo) si allenta, l’incanto ad essa legato svanisce, perlomeno nella forma della (quasi) magia con cui si era presentato.
E allora si sperimenta che ciascuno essere umano è condannato ad una solitudine fondamentale, radicale, potremmo anche definire ontologica, dalla quale mai e poi mai potrà fuggire.
Questo non vuol dire che i momenti di amore, di intimità spirituale, e persino quelli di estasi carnale vissuti in certi momenti e situazioni siano (stati) puro sogno, fantasie o, addirittura, nient’altro che allucinazioni.
Vuol dire solo che l’amore e il rapporto sessuale tra due esseri umani sono realtà fragili, precarie, instabili, momentanee, onde sismiche, appunto, come lo sono tutte le realtà umane.
A cominciare dal piacere, che si alterna spesso al fastidio e persino al disgusto; dalla gioia, che si alterna alla tristezza; e, perfino, dalla felicità, che talvolta si alterna all’infelicità e, in certi momenti, addirittura alla disperazione.
Ma questo non mi porta a dire (e credo che non dovrebbe portare nessuno a dire) che non esiste il rapporto sessuale; né (tantomeno) che non esiste, non può esistere, l’amore tra due esseri umani.
© Giovanni Lamagna
Dimenticanze ed esperienza del limite.
7 agosto 2016
Dimenticanze ed esperienza del limite.
Mi sono accorto, poco dopo essere giunto l’altro ieri in questo luogo dove trascorrerò una quindicina di giorni di vacanze, di non essermi portato appresso il libro che dovevo studiare perché ne devo fare una presentazione, assieme al suo autore, dopo pochi giorni dal rientro a Napoli.
Duplice sensazione di fastidio: per il fatto di dover essere costretto a cambiare l’organizzazione del tempo che mi ero immaginato; e per il fatto di dover prendere atto che qualcosa evidentemente non aveva funzionato nella mia testa, quando ho scelto i libri che mi dovevo portare appresso.
Soprattutto questa seconda causa di fastidio è quella che mi interroga di più: perché ho fatto questo “sbaglio”? che cosa me lo ha indotto?
Ancora adesso, dopo due giorni, faccio fatica a trovare una risposta (o delle risposte) a queste domande.
Mi dico (prima ipotesi di risposta): forse dovevo punirmi di qualcosa. E, però, mi chiedo ancora: di cosa volevo (o dovevo) punirmi? Al momento non mi viene una risposta.
Seconda ipotesi: la mia mente (molto semplicemente) comincia a perdere colpi.
Terza ipotesi: forse inconsciamente volevo che la mia mente si fermasse del tutto; o, meglio, che non si dedicasse ad un’attività intellettuale pura, basata principalmente sulla lettura e lo studio; forse inconsciamente volevo che questi giorni fossero più di contemplazione che di studio, più di contatto con me stesso (o, meglio, con l’Altro da me) e con la natura, che con l’argomento del libro a cui volevo dedicare del tempo di studio.
In ogni caso da questo piccolo episodio posso trarre una piccola/grande lezione: che fino ad un certo punto noi siamo padroni in casa nostra; e che, se non lo siamo in casa nostra, a maggior ragione non lo siamo in altri luoghi e in altre situazioni; e che saggezza vuole che sappiamo umilmente prenderne atto, che sappiamo accettare le nostre piccole o grandi defaillances.
Giovanni Lamagna