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“Verità” e insicurezze.
Molti uomini hanno bisogno di credere in “verità” certe, assolute, senza ombre e dubbi; “verità” totalizzanti, al limite del dogma e dell’irrazionale.
Con queste “certezze” puntellano, mascherano, a volte in modo grossolano, perfino pacchiano, il loro profondo senso di insicurezza, fragilità, precarietà.
© Giovanni Lamagna
Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.
Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio…
E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…
La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…
L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”
Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.
Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.
Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.
C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.
C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.
Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.
Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.
Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.
Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.
Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.
Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.
E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.
Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.
In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.
Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.
Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.
Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).
E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.
Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.
Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.
© Giovanni Lamagna
Il rapporto sessuale non esiste?
“Cosa significa affermare – come fa Lacan – che il rapporto sessuale non esiste?”: si chiede Massimo Recalcati nella prefazione al suo libro “Esiste il rapporto sessuale?” (Raffaello Cortina, 2021).
Ma, per quanti sforzi abbia fatto, io – francamente – non ho capito la sua risposta.
Perché una cosa è affermare che “la sessualità umana è un campo attraversato da onde sismiche che lo rendono instabile e precario”; e questo mi è chiaro, anzi del tutto evidente.
Altra cosa è affermare – come fa Recalcati – la radicale impossibilità e, quindi, inesistenza del rapporto sessuale; e questo non mi è per nulla evidente; anzi non riesco a comprenderlo per niente e quindi non lo condivido.
Tra l’altro è una tesi che trovo del tutto contraddittoria con le affermazioni finali di Recalcati: “La gioia non è però affatto estranea a questa instabilità e a questa precarietà. Essa può scaturire dall’Eros come una forza sorprendente, come un’affermazione della vita e della sua eccedenza.
Laddove poi questa forza conosce la convergenza con l’amore, ha la straordinaria possibilità di unire il corpo con il nome facendo esistere un erotismo capace di non restare imprigionato nell’ipnosi dell’oggetto, ma di manifestarsi come un’altra soddisfazione nella quale la pulsione sessuale non si oppone necessariamente all’amore, ma diventa una sua componente essenziale.”
Se queste ultime affermazioni sono vere (e per me lo sono), allora per potersi conciliare con quella precedente (“il rapporto sessuale non esiste”), ne dovremmo concludere che per Massimo Recalcati “manco il rapporto d’amore esiste”.
Ma è, può essere, davvero questo il pensiero di un autore, che a questo tema dell’amore ha dedicato montagne di parole in articoli, libri e perfino trasmissioni televisive? A mio avviso, no!
Ne devo dedurre allora che l’affermazione, molto perentoria, “il rapporto sessuale non esiste”, deve riferirsi al paradosso che è insito in ogni tipo di rapporto; e non solo in quello sessuale.
Quale paradosso?
Il paradosso in base al quale la pulsione libidica ci spinge verso l’altro/a con l’anelito a diventare una sola cosa con lui/lei; nel caso in cui la pulsione libidica assume (o, meglio, mantiene) le forme specifiche della sessualità, l’anelito è a diventare “una sola carne” con l’altro/a.
Anelito che, però, potrà realizzarsi solo in parte e solo per alcuni momenti, che, infatti e non a caso, vengono – da chi è riuscito, per suo merito o per sua fortuna, a sperimentarli – definiti magici.
Perché una volta che la fusione (reale o apparente, qui ha poca importanza approfondirlo) si allenta, l’incanto ad essa legato svanisce, perlomeno nella forma della (quasi) magia con cui si era presentato.
E allora si sperimenta che ciascuno essere umano è condannato ad una solitudine fondamentale, radicale, potremmo anche definire ontologica, dalla quale mai e poi mai potrà fuggire.
Questo non vuol dire che i momenti di amore, di intimità spirituale, e persino quelli di estasi carnale vissuti in certi momenti e situazioni siano (stati) puro sogno, fantasie o, addirittura, nient’altro che allucinazioni.
Vuol dire solo che l’amore e il rapporto sessuale tra due esseri umani sono realtà fragili, precarie, instabili, momentanee, onde sismiche, appunto, come lo sono tutte le realtà umane.
A cominciare dal piacere, che si alterna spesso al fastidio e persino al disgusto; dalla gioia, che si alterna alla tristezza; e, perfino, dalla felicità, che talvolta si alterna all’infelicità e, in certi momenti, addirittura alla disperazione.
Ma questo non mi porta a dire (e credo che non dovrebbe portare nessuno a dire) che non esiste il rapporto sessuale; né (tantomeno) che non esiste, non può esistere, l’amore tra due esseri umani.
© Giovanni Lamagna
L’amore è per sempre?
Massimo Recalcati, nel suo “Mantieni il bacio” (pag. 32), afferma che, nel momento in cui io dico ad una persona “ti amerò per sempre”, il mio amore è veramente per sempre, io mi prometto veramente e sinceramente per l’eternità.
Anzi, sostiene Recalcati, l’amore DEVE essere per sempre. L’amore – per sua natura – è eterno. Altrimenti non è vero amore.
Il che non vuol dire (sembra quasi costretto a dover ammettere lo stesso Recalcati) che l’amore poi duri effettivamente per sempre, in eterno, come io avevo promesso.
Come si spiega allora questo paradosso (che io condivido), potremmo dire anche questa contraddizione, evidente nelle parole di Recalcati?
Come posso promettere amore eterno, addirittura sostenere che l’amore non è vero amore se non è eterno (almeno nelle intenzioni), se poi molti, tanti, esiti amorosi sembrano contraddire questa realtà, la realtà dell’ “amore per sempre”?
Recalcati la risolve così: la persona che ad un certo punto della relazione dice “non ti amo più” non è la stessa persona che in un tempo precedente, più o meno remoto, aveva detto “ti amerò per sempre”.
Non è la stessa persona. Perché ognuno di noi col tempo cambia, non rimane mai la stessa persona.
Questa cosa l’aveva già sostenuta, come tutti sappiamo, a suo tempo Eraclito, affermando come l’uomo non potesse “mai fare la stessa esperienza per due volte, giacché ogni ente, nella sua realtà apparente, è sottoposto alla legge inesorabile del mutamento”.
E, però, a me sembra, francamente, che la soluzione trovata da Recalcati sia piuttosto debole, che nasconda un trucco, un trucco logico-dialettico.
Infatti, è senz’altro vero che, nel momento in cui giuro alla mia amata amore eterno, io sono del tutto sincero. E, quindi, nessuno potrà accusarmi di essere stato spergiuro, quando e se il mio amore ad un certo punto dovesse esaurirsi.
Però è anche vero (a meno di non essere ammalato di infantilismo o di vivere nelle nuvole o, peggio, di confondere la realtà con la pura e sdolcinata retorica romantica) che, nel momento in cui dico “ti amerò per sempre”, io sono perfettamente consapevole che nulla e nessuno potrà garantire che i miei sentimenti rimangano intatti nel tempo; addirittura eterni.
Allora, forse, non sarebbe più onesto e corretto dire al proprio amato, nel momento in cui gli/le si dichiara il proprio amore, parole diverse dalle classiche e un po’ retoriche “Ti amerò per sempre!”?
Ad esempio, parole come queste: “Io in questo momento ti amo con tutto il mio cuore, tutte le mie forze e tutta la mia intelligenza.
E farò di tutto per non far sfiorire, depauperare, distruggere, evaporare, lo stato dell’anima, che in questo momento sto provando.
Non ti giuro, però, amore eterno, perché non posso giurare su quello che mi accadrà e su quello che sarò in futuro.
Posso solo prometterti che, se il sentimento di amore che in questo momento provo per te dovesse venire meno, non verrà meno il profondo rispetto che provo assieme all’amore e che ti dovrò anche se e quando dovesse venir meno l’amore.
Sarò sempre sincero con te e mai ti ingannerò sullo stato reale della nostra relazione.
Tu saprai sempre da me cosa io provo realmente verso di te, fosse anche il venir meno dell’amore che in questo momento provo per te”.
Mi rendo perfettamente conto e sono pienamente consapevole che questa dichiarazione è molto meno romantica, nel senso di emotivamente coinvolgente, anzi travolgente, e che soprattutto non ha l’efficacia sintetica, direi da “baci Perugina”, di quella che si esprime nella frase classica “Ti amerò per sempre!”.
E, tuttavia, ritengo che essa sia molto più realistica e, quindi, matura, vera e responsabile di quella classica, romantica dell’amore per sempre.
E riesca a conciliare il naturale, istintivo, desiderio di durata che ognuno di noi (compreso il sottoscritto) sinceramente vorrebbe dare al proprio sentimento d’amore, quando esso nasce, con la consapevolezza della sua inevitabile e strutturale precarietà: la precarietà intrinseca in tutto ciò che è umano.
© Giovanni Lamagna
Reale e simbolico
La verità è che il mondo, la vita , non hanno un senso profondo, ultimo, assoluto.
Per dare un senso alle cose, bisogna allora creare un artificio, bisogna crearsi un mondo simbolico. Che sono altra cosa dalla realtà materiale, visibile.
Se non creiamo questo artificio, non possiamo che aggrapparci alle cose materiali, alle cose cioè che si vedono, agli affetti, alle emozioni.
In questo modo, però, siamo destinati a vivere in uno stato di perenne precarietà.
La ragione simbolica serve a sfuggire a questa perenne precarietà. Tende a darsi delle basi solide, anche se sa che queste sono del tutto inventate e artificiali.
Giovanni Lamagna
Due fatti che hanno allietato questo mio ultimo Natale
Quest’anno il mio Natale è stato particolarmente allietato, tra le altre cose belle di natura privata, da due fatti di natura pubblica: una notizia, per me molto bella, e una lettera, anch’essa molto bella.
La notizia è quella della sentenza di assoluzione piena, perché il fatto non costituisce reato, da parte della Corte di Assise di Milano, di Marco Cappato, l’esponente radicale imputato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani.
La notizia è per me molto bella, perché la sentenza, anche (anzi soprattutto) sulla scorta di un pronunciamento della Corte Costituzionale, stabilisce alcuni principii di grande civiltà giuridica e, ancor prima, di umanità:
1) il diritto all’autodeterminazione, cioè la libertà di decidere della propria morte, la libertà di scegliere di morire con dignità;
2) la possibilità, in determinate condizioni, di accompagnare un malato a morire senza che questo fatto costituisca un reato.
La grande commozione, con cui la sentenza è stata accolta nell’aula del tribunale, in modo particolare dalla ex fidanzata di Fabiano Antoniani, dagli avvocati di Cappato e dallo stesso pubblico ministero, che aveva chiesto l’assoluzione, Tiziano Siciliano, è stata ancora più tenera e intensa perché, qualche attimo prima, era giunta la notizia della morte della mamma dell’imputato, ricoverata da qualche giorno in ospedale a Milano.
Per questo i difensori avevano chiesto qualche minuto di pausa per permettere a Cappato di uscire dall’aula, dove è stato abbracciato e consolato dalla moglie. Poi, con gli occhi rossi, Cappato si era riseduto in prima fila per assistere al dibattimento. E, addirittura, aveva avuto la forza e la lucidità, di fare, prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, la seguente dichiarazione spontanea:
“In piena sintonia e assonanza con le motivazioni che avete prospettato rimettendovi alla Corte Costituzionale la mia è una motivazione di libertà, di diritto alla autodeterminazione individuale, naturalmente all’interno di determinate condizioni, è per questo che ho aiutato Fabiano”.
Insomma, una vicenda, che una volta tanto ristora lo spirito, invece che deprimerlo!
La lettera è quella che Giuseppe (detto Beppe) Sala ha inviato al direttore de “la Repubblica” giusto alla vigilia di Natale, nella quale il sindaco di Milano “racconta” il suo rapporto con la religione.
E lo fa, a mio avviso, con toni molto sentiti, meditati e perciò convincenti, senza enfasi e retorica, ma con umiltà e assenza di ostentazione, confessando la gioia e, allo stesso tempo, il dolore del suo essere cristiano. Cristiano e divorziato, perciò impedito a partecipare pienamente all’Eucarestia, facendo la “comunione”.
La riporto integralmente, perché ritengo sia meglio far parlare direttamente le sue parole, anziché commentarle:
“Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.”
Giovanni Lamagna
L’amore: passione o dialogo? a termine o eterno?
Scrive Diego Fusaro: “Forse, da sempre, abbiamo dell’amore un’immagine incompleta e unilaterale. Confermata da secoli di letteratura e di storia dell’arte. È l’amore come passione incontenibile, come desiderio che non sa trattenersi…
E se l’amore fosse anche altro?…
… opposto al narcisismo, l’amore è un’esperienza duale di verità, che non annulla le differenze, ma le fa coesistere nell’unità amorosa, nella sintonia unitaria in cui l’amore stesso si risolve.
In questo senso, l’amore apre un mondo, che è duale: fa vivere il nuovo nello stesso, poiché il medesimo mondo in cui eravamo come individui acquista ora, nella relazione amorosa, un nuovo significato. Che si dà nel dialogo, nella comunicazione tra i due soggetti ora esistenti come parti di un’esperienza duale di verità. La vita cessa di essere vissuta dal punto di vista dell’uno: è ora vissuta da una prospettiva duale, in cui le due parti non spariscono, ma aspirano all’unità. E quest’ultima – ci suggerisce Friant – è anzitutto dialogo, parola, esperienza vissuta e verbalizzata in forma duale.
Pensare che l’amore possa risolversi nella passione incandescente e nel desiderio incontenibile significa far valere una visione immatura, peraltro coerente con il nostro tempo dell’instabilità generalizzata e della precarietà che si fa precariato sentimentale. Significa fare dell’amore un’esperienza necessariamente a tempo determinato, destinata a “scadere” non appena la relazione assuma nuove figure e nuove forme che, lungi dal farlo eclissare, lo fanno esistere e lo stabilizzano.
Il vero amore si stabilizza solo se v’è dialogo: e cresce mentre si consuma. Diceva Fromm che l’amore immaturo è quello che dice “ti amo perché non posso stare senza di te”, là dove quello maturo e consapevole afferma “non posso stare senza di te perché ti amo”. La sua formula magica – ce l’ha insegnato Lacan – è quell’encore in cui si condensa la fedeltà al medesimo. Che è, poi, anche fedeltà all’inizio, all’evento imprevedibile che ha portato all’incontro da cui l’amore ha tratto la sua esistenza.
La persona amata diventa insostituibile, oggetto di un dialogo infinito con cui la propria esperienza del mondo è sempre di nuovo posta in forma duale. Se è così, diventa possibile sostenere che l’amore può dirsi finito, disseccato ed esaurito quando viene meno il dialogo, la capacità di condividere l’esperienza duale del mondo: quando ciascuno dei due – o almeno uno dei due – rientra in se stesso, abbandonando il dialogo e il progetto di vita duale e tornando a esistere in sé e per sé.”
Sono d’accordo con l’essenza di quello che dice Fusaro: l’amore, l’amore vero, non è (solo) passione, ma è (soprattutto) dialogo. E il dialogo tra due persone può durare anche “per sempre”, non è destinato inevitabilmente, fatalmente a terminare.
Come l’etica oggi prevalente tende a sostenere. Implicitamente, se non esplicitamente.
Può. Ma non è detto che succeda. Perché anche il dialogo può finire. E, allora, l’amore, anche inteso in questo senso, cioè come dialogo, può finire. Non è detto che sia destinato a rimanere in eterno, come vorrebbe, anzi pretenderebbe, il matrimonio cattolico.
Il dialogo può finire. Anche perché uno solo dei due si stanca di dialogare. Come del resto ammette lo stesso Fusaro. E il dialogo, per sua natura è duale. Quindi se uno dei due smette, si rifiuta di dialogare, anche l’altro è costretto ad interrompere il dialogo. Viene meno, quindi, anche il suo amore, non solo quello dell’altro.
Oppure può succedere che, nel corso del dialogo, i due amanti cambino, ciascuno in due direzioni diverse. E allora le loro lingue diventano straniere e non riescono a dialogare più. Perché non ci si capisce più.
Come può succedere che il dialogo sia fatto solo di parole e di ragionamenti. Non coinvolga pure le sensazioni (cioè il corpo) e le emozioni e i sentimenti. In questo caso non è un dialogo che trasforma, che dalle parole passa agli “atti”, alle azioni, ai fatti. Come dovrebbe essere un vero dialogo. E’ un dialogo solo apparente, formale, di facciata, che alla lunga stanca. Che perciò, prima o poi, si estingue. E con esso l’amore.
Quindi, comunque lo si voglia intendere, sia che lo concepiamo essenzialmente come passione, sia che lo concepiamo soprattutto come dialogo, l’amore è una esperienza soggetta alla precarietà tipica della condizione umana. Quando sboccia, tutti si augurano che esso duri in eterno. Ma in realtà niente e nessuno ne può garantire la durata.
Giovanni Lamagna