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“Verità” e insicurezze.

Molti uomini hanno bisogno di credere in “verità” certe, assolute, senza ombre e dubbi; “verità” totalizzanti, al limite del dogma e dell’irrazionale.

Con queste “certezze” puntellano, mascherano, a volte in modo grossolano, perfino pacchiano, il loro profondo senso di insicurezza, fragilità, precarietà.

© Giovanni Lamagna

Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.

Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio

E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…

La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…

L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”

Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.

Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.

Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.

C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.

C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.

Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.

Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.

Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.

Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.

Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.

Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.

E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.

Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.

In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.

Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.

Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.

Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).

E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.

Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.

Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.

© Giovanni Lamagna

Il rapporto sessuale non esiste?

“Cosa significa affermare – come fa Lacan – che il rapporto sessuale non esiste?”: si chiede Massimo Recalcati nella prefazione al suo libro “Esiste il rapporto sessuale?” (Raffaello Cortina, 2021).

Ma, per quanti sforzi abbia fatto, io – francamente – non ho capito la sua risposta.

Perché una cosa è affermare che “la sessualità umana è un campo attraversato da onde sismiche che lo rendono instabile e precario”; e questo mi è chiaro, anzi del tutto evidente.

Altra cosa è affermare – come fa Recalcati – la radicale impossibilità e, quindi, inesistenza del rapporto sessuale; e questo non mi è per nulla evidente; anzi non riesco a comprenderlo per niente e quindi non lo condivido.

Tra l’altro è una tesi che trovo del tutto contraddittoria con le affermazioni finali di Recalcati: “La gioia non è però affatto estranea a questa instabilità e a questa precarietà. Essa può scaturire dall’Eros come una forza sorprendente, come un’affermazione della vita e della sua eccedenza.

Laddove poi questa forza conosce la convergenza con l’amore, ha la straordinaria possibilità di unire il corpo con il nome facendo esistere un erotismo capace di non restare imprigionato nell’ipnosi dell’oggetto, ma di manifestarsi come un’altra soddisfazione nella quale la pulsione sessuale non si oppone necessariamente all’amore, ma diventa una sua componente essenziale.”

Se queste ultime affermazioni sono vere (e per me lo sono), allora per potersi conciliare con quella precedente (“il rapporto sessuale non esiste”), ne dovremmo concludere che per Massimo Recalcati “manco il rapporto d’amore esiste”.

Ma è, può essere, davvero questo il pensiero di un autore, che a questo tema dell’amore ha dedicato montagne di parole in articoli, libri e perfino trasmissioni televisive? A mio avviso, no!

Ne devo dedurre allora che l’affermazione, molto perentoria, “il rapporto sessuale non esiste”, deve riferirsi al paradosso che è insito in ogni tipo di rapporto; e non solo in quello sessuale.

Quale paradosso?

Il paradosso in base al quale la pulsione libidica ci spinge verso l’altro/a con l’anelito a diventare una sola cosa con lui/lei; nel caso in cui la pulsione libidica assume (o, meglio, mantiene) le forme specifiche della sessualità, l’anelito è a diventare “una sola carne” con l’altro/a.

Anelito che, però, potrà realizzarsi solo in parte e solo per alcuni momenti, che, infatti e non a caso, vengono – da chi è riuscito, per suo merito o per sua fortuna, a sperimentarli – definiti magici.

Perché una volta che la fusione (reale o apparente, qui ha poca importanza approfondirlo) si allenta, l’incanto ad essa legato svanisce, perlomeno nella forma della (quasi) magia con cui si era presentato.

E allora si sperimenta che ciascuno essere umano è condannato ad una solitudine fondamentale, radicale, potremmo anche definire ontologica, dalla quale mai e poi mai potrà fuggire.

Questo non vuol dire che i momenti di amore, di intimità spirituale, e persino quelli di estasi carnale vissuti in certi momenti e situazioni siano (stati) puro sogno, fantasie o, addirittura, nient’altro che allucinazioni.

Vuol dire solo che l’amore e il rapporto sessuale tra due esseri umani sono realtà fragili, precarie, instabili, momentanee, onde sismiche, appunto, come lo sono tutte le realtà umane.

A cominciare dal piacere, che si alterna spesso al fastidio e persino al disgusto; dalla gioia, che si alterna alla tristezza; e, perfino, dalla felicità, che talvolta si alterna all’infelicità e, in certi momenti, addirittura alla disperazione.

Ma questo non mi porta a dire (e credo che non dovrebbe portare nessuno a dire) che non esiste il rapporto sessuale; né (tantomeno) che non esiste, non può esistere, l’amore tra due esseri umani.

© Giovanni Lamagna

L’esistenza che si apre all’Essere: la via estetica, la via filosofica e la via mistica.

La via estetica.

Se l’esistenza umana è pura contingenza e precarietà senza senso, perché senza alcun fondamento che la trascenda, in altre parole senza alcun fondamento metafisico, non per questo l’esistenza umana è condannata irrimediabilmente e fatalmente a restare prigioniera di questa pura contingenza e, quindi, dell’assenza di ogni senso.

L’essere umano ha, infatti, la capacità/possibilità di trovare “dei varchi, degli spiragli” nella “fatticità irrimediabile dell’esistenza”. Ciò accade per Sartre – secondo la lettura che ne dà Recalcati, nel suo “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; 2021; pag. 24-26 – principalmente attraverso l’esperienza estetica.

Attraverso l’immaginazione, l’uomo ha la possibilità di trascendere la pura e opprimente fatticità dell’esistenza, di darle respiro, di aprirla all’Essere, come “ciò che può sottrarre l’esistenza dal peso dell’esistenza”. Un Essere che “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo.”

Nel suo studio sull’immaginario (“L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione”)Sartre riconosce all’immaginazione il potere di annullare, come scrive Recalcati, “l’orrore del reale catapultandoci in un altro mondo”: il mondo della bellezza, della pura “Forma dell’Essere”.

“Il reale – infatti, come scrive Sartre – non è mai bello. La bellezza è un valore che possiamo riferire solo all’immaginario e che implica l’annullamento (néantisation) del mondo nella sua struttura essenziale”. La Forma estetica ci libera (almeno per un momento: quello del godimento dell’opera d’arte) dal peso assurdo dell’esistenza.

Non ho obiezioni da muovere a Recalcati e Sartre: la Forma estetica, attraverso l’opera d’arte (sia nella dimensione della fruizione, sia soprattutto nella dimensione della produzione), è senz’altro una via privilegiata per sfuggire alla trappola oppressiva dell’esistenza, per – in qualche modo – trascenderla e per cogliere l’Essere, sia pure l’Essere come viene inteso da Sartre e da Recalcati.

Penso, però, che la “via estetica” non sia l’unica via, l’unico varco, l’unico spiraglio che l’uomo possa aprirsi nella “massa informe dell’esistenza” per accedere alla Forma dell’Essere. Credo che ce ne siano almeno altre due: proverò a indicarle.

La via filosofica.

La prima di queste altre due vie è, a mio avviso, quella filosofica.

La filosofia nasce, infatti, dalla stessa condizione esistenziale da cui nasce l’opera d’arte: dall’ “incontro traumatico del soggetto con un pieno (quello dell’esistenza) che non necessita di altro se non di sé stesso, di un assoluto privo di significato” (Recalcati; ibidem; pag. 19).

La filosofia nasce “dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza” (ibidem; pag.19), dalla constatazione che “l’esistenza non ha senso, non porta con sé alcun significato a priori, nessuna essenza…”; che l’esistenza “è, in sé, assurda” (ibidem; pag. 23).

Ma (aggiungo io) la filosofia nasce anche dall’esigenza, che è quasi un bisogno impellente, di trascendere questa contingenza e di trovarle un qualche senso.

Un senso che (come la Forma dell’Essere a cui aspira l’opera d’arte) “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo” (ibidem; pag.25).

Un senso che “ci libera dall’eccesso assurdo dell’esistenza”, ma allo stesso tempo “… non è rivolto a una trascendenza metafisica” (ibidem; pag.26).

E’ quel quid che può aiutarci a vivere, a sopra-vivere, a restare in vita, anche dopo che abbiamo preso coscienza che il vivere è orientato alla morte e che non ha nessun fondamento; così come il galleggiare sull’acqua “facendo il morto” ci consente di non sprofondare pur senza avere uno scoglio, una boa, una zattera, su cui trovare appiglio.

In altre parole con la via filosofica – come già con la via estetica, tracciata da Sartre ne “La nausea” – “non si tratta di ricostruire alcun senso metafisico del mondo di cui la Nausea ha svelato impietosamente e irreversibilmente l’assenza, ma di dare all’esistenza, che resta ontologicamente priva di senso, la possibilità di avere un senso singolare sullo sfondo di questo non senso.” (ibidem; pag. 31).

La via mistica.

Una terza via, oltre a quella estetica e a quella filosofica, per non sprofondare nel vuoto, anzi negli abissi senza fondo del non senso, è, a mio avviso, quella mistica.

Non certo la mistica come viene comunemente intesa, la mistica delle religioni tradizionali, ovverossia l’affidarsi cieco, infantile e perciò nevrotico all’Altro, capace di dare “un fondamento ontologico” alla nostra esistenza.

Sia chiaro – anche per me come per Recalcati – la vita umana non ha nessun fondamento, è “priva di ogni possibile giustificazione, di ogni possibile garanzia” (ibidem; pag. 11).

La ricerca, anzi la “passione umana per la propria giustificazione” è per Lacan “il perno del fantasma del desiderio nevrotico… E’ il tratto infantile che contrassegna il nevrotico soprattutto nel suo rapporto con l’Altro materno.” (ibidem; pag. 11).

In cosa consiste allora la via mistica come fuoriuscita dalla gabbia del puro esistere e apertura (mi verrebbe di dire “trascendimento”) verso la forma dell’Essere?

Non certo nella regressione verso l’ “illusione nevrotica dell’Altro come luogo della giustificazione della propria esistenza” (ibidem; pag. 12).

Non certo nell’esperienza religiosa che sta alla base “della passione umana per “essere”, per farsi essere”, che “rivela il fantasma fondamentale del … desiderio” degli uomini: vivere rassicurati all’ombra dell’esistenza del grande Altro” (ibidem; pg. 12) cioè di un Dio trascendente.

Non certo nella credenza “che l’esistenza possa avere un suo senso a priori, che il suo essere trovi fondamento nel grande Altro della garanzia”, che l’esistenza sia un “dono di Dio, giustificata alla sua origine” (ibidem, pg 13).

Non certo nella vocazione ad una vita ordinata, stabile e pianificata.

Non certo nella “idealizzazione retorica” di un “uomo che ha un Mandato, un Compito, che ha, appunto, Diritto ad esistere…” e si sente inoltre il “centro del mondo”. (ibidem; pg.13).

Ma al contrario nella presa d’atto radicale (non solo intellettuale, ma soprattutto emotivo-affettiva) della propria mancanza d’essere, nello scontro scabroso e scandaloso del non senso dell’esistenza e allo stesso tempo nella possibilità di non rimanere impantanati in questo non senso, ma di generare dalla ferita dell’esistenza una chance altra.

Come?

Attraverso l’esperienza da parte dell’uomo della condivisione intima, profonda, della stessa ferita esistenziale con gli altri suoi simili, addirittura con tutti gli altri viventi, perfino con l’Universo mondo, attraversato spesso da disastri e cataclismi che alludono alla stessa sofferenza radicale, ontologica, dell’essere umano.

In altre parole attraverso l’esperienza della com-passione, di quello che il letterato francese Romain Rolland, amico di Sigmund Freud, definì il “sentimento oceanico”.

Anche questa esperienza, come quella che facciamo quando godiamo di un’opera d’arte o quando la nostra mente si illumina per un’intuizione filosofica, ha nell’uomo l’effetto di “attenuare analgesicamente il dolore della ferita che lo attraversa” (ibidem; pag. 33), di trasmettere “un po’ di calore per attenuare il gelo del nostro comune viaggio nella neve” (ibidem; pag. 31).

© Giovanni Lamagna

Cosa caratterizza il femminile e cosa il maschile

Noi siamo come nani sulle spalle di giganti” (Bernardo di Chartres)

Francamente mi pare che Recalcati (pag. 182-185 del suo “Le nuove melanconie”) faccia una eccessiva (anche se a mio avviso solo apparente, come cercherò di argomentare tra poco) idealizzazione della “donna”, in contrapposizione all’ “uomo”.

Secondo Recalcati (e secondo Lacan, di cui Recalcati è allievo) la DONNA non esisterebbe; non esisterebbe insomma un universale della “donna”, ma solo la singola donna.

Mi chiedo: ma ciò che Lacan e Recalcati attribuiscono alla donna non vale anche per l’uomo? Esiste davvero un universale UOMO che non esisterebbe, invece, per la donna?

Oppure ogni uomo è l’incarnazione assolutamente singolare di una categoria generale ed astratta e perciò concretamente non esistente, allo stesso modo di come ogni donna è l’incarnazione del tutto singolare di una categoria generale ed astratta e, quindi, in realtà, concretamente non esistente?

Al contrario per Lacan (e per Recalcati) c’è un “significato universalmente valido” che definisce “l’essere uomo”; c’è un significante, il fallo, che gli dà un significato universale. Che, invece, mancherebbe nella donna.

In altre parole per Lacan e Recalcati (ma prima di loro, come tutti sappiamo, per il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud) “l’essere uomo” si definisce in senso universale per il suo avere un determinato organo: il fallo.

“L’essere donna” si definirebbe, invece, stranamente e secondo una concezione alquanto singolare (e, per dirla tutta, decisamente maschilista), allo stesso modo, anche se opposto e speculare: il non avere il fallo.

Da questo punto di vista il destino della donna (non solo quello della donna isterica, come pure sembra dire Recalcati a pag. 183 del suo saggio) apparirebbe segnato: la donna deve tendere a identificarsi con il fallo dell’uomo, a desiderare di essere il suo fallo.

Che sarebbe poi il desiderio profondo dell’uomo, di ogni uomo: “l’uomo ricerca il fallo nella donna”.

Senonché Recalcati, con una torsione improvvisa, che non mi appare giustificata – almeno per quello che ne ho capito io – da quanto fino a poco prima sostenuto, a pagina 184 se ne esce con la seguente affermazione, che riprende sempre da Lacan: “…se la donna nel fantasma del desiderio maschile incarna il fallo, ella non vuole essere semplicemente un oggetto del desiderio dell’Altro, ma esige il suo amore, vuole essere insostituibile nel desiderio dell’Altro”.

In altre parole la donna vuole “essere una singolarità irriducibile all’oggetto feticizzato, un oggetto insostituibile appunto”.

Che vorrebbe confermare la tesi secondo la quale la donna non si iscrive in una categoria universale, ma deve “essere pensata… come un campo privo di identità solide, metamorfico, aperto”.

In altre parole la donna, ogni donna sarebbe la “realizzazione di una singolarità incomparabile, senza divisa, eccezione assoluta della serie.”.

E in quanto tale, quindi, vuole (vorrebbe), per sua conformazione genetica, essere considerata dal “suo” uomo come “insostituibile”.

Devo dire, in tutta franchezza, che queste tesi di Lacan, che sono riportate e sposate – a quanto mi appare – integralmente da Recalcati, non mi convincono.

Come, del resto, (e ancora di più) non mi ha mai convinto la tesi freudiana dell’ “invidia del pene”, cioè della concezione della donna come creatura deficitaria di qualcosa, definibile, quindi, solo in termini di “minorazione”.

Non mi convince, innanzitutto, la tesi secondo la quale il “femminile” non sarebbe una categoria universale come il “maschile”, in quanto la donna (ogni donna) si definirebbe per la sua assoluta singolarità.

Se non altro perché nel momento in cui si fa una simile affermazione di carattere generale si sta nei fatti definendo una categoria. Un po’ come quando si afferma “non esiste nessuna verità assoluta”: questa affermazione o è falsa (esiste, invece, una verità assoluta) o è vera, però smentisce ipso facto se stessa.

In secondo luogo a me pare che le tesi di Lacan solo apparentemente sono meno maschiliste di quelle di Freud; in realtà risentono anch’esse di un angolo di visuale tipicamente maschile.

Su che cosa si fonderebbe, infatti, il desiderio tipico della donna di essere considerata insostituibile nel desiderio del maschio, se non sulla volontà di possedere il maschio, di volerlo tutto per sé e di considerarlo, quindi, una sua proprietà?

E su cosa si fonderebbe questo desiderio proprietario di possesso se non sul sentimento di debolezza, di precarietà radicale, della donna, sulla sua “mancanza ad essere”; quindi, in ultima istanza, (anche a voler considerare quella di Freud una semplice metafora) sulla “invidia del pene”?

Inoltre, perché il desiderio di essere considerati insostituibili nel rapporto uomo/donna, sarebbe tipicamente femminile, esclusivo della donna?

Una tale affermazione è contraddetta dai fatti. Basti vedere le reazioni che hanno gli uomini, quando le loro donne li “tradiscono”: sono, in genere, di una violenza incredibile, possono arrivare fino all’omicidio. Cosa che, invece, si verifica molto meno spesso, anzi rarissimamente, nel caso delle donne “tradite”.

Sono portato allora a pensare che gli uomini (l’Uomo) e le donne (la Donna) sono molto più simili nella loro struttura psicologica di fondo di quanto non ce li abbiano voluti far vedere Freud e, in fondo, lo stesso Lacan.

Ammesso pure (e non concesso) con Freud che la donna desideri nell’uomo gli organi che a lei mancano, in primo luogo il pene, non potremmo dire allora la stessa cosa dell’uomo? Non ricerca egli nella donna gli organi che a lui mancano, ad esempio l’utero o il seno? Questo sul semplice piano fisico.

Ma tali desideri (ammesso che esistano) non hanno delle ricadute e dei risvolti che sono prettamente psicologici, di cui le rispettive mancanze di ordine fisico potrebbero essere solo delle metafore?

Non è più corrispondente al vero affermare che la donna ricerca nell’uomo le caratteristiche psichiche che nell’uomo sono più sviluppate e in lei più carenti? E che l’uomo fa la stessa cosa con la donna, ovviamente con caratteristiche opposte e speculari?

Infine il desiderio di essere ritenuti “insostituibili” nel rapporto non è, a mio avviso, un tratto genetico, costitutivo, di un sesso (quello femminile) e del tutto assente nell’altro (quello maschile).

Anzi, (a voler completare il mio ragionamento) esso non è manco un dato genetico; è piuttosto un dato storico, legato alla evoluzione dei costumi che sono stati prevalenti, egemoni, fino ad ora, ma che potrebbero essere prima o poi (ed io auspico che prima o poi lo siano) superati nel futuro storico (spero neanche poi tanto remoto).

Potrebbero venir meno nel momento in cui sia gli uomini che le donne smettessero di considerarsi reciprocamente come una proprietà privata.

Ma, forse, tali cambiamenti non riguardano solo il piano psicologico, individuale, dei rapporti privati; investono anche (e io direi soprattutto) un piano che è molto più strutturale ed ampio, ha a che fare con l’economia, l’organizzazione sociale e, quindi, la cultura, l’antropologia.

Solo in una società e in una cultura in cui la “proprietà privata” non sia più il dogma-feticcio e fondante delle relazioni economiche e sociali, i rapporti uomo/donna potranno assumere caratteristiche profondamente diverse da quelle attuali.

E, forse, arrivare perfino a contraddire, invalidare la famosa (anche se un po’ oscura, perfino astrusa, quasi oracolare) tesi lacaniana dell’ “inesistenza del rapporto sessuale”.

© Giovanni Lamagna

Cosa distingue un soggetto melanconico da chi melanconico non è

Nel suo libro “Le nuove melanconie” Massimo Recalcati, a pag. 13, così afferma: “La colpa del soggetto melanconico non si riferisce… realmente a nessun atto del soggetto ma alla sua stessa esistenza: è colpa di esistere. E’ colpa di un’esistenza che si trova gettata nel mondo in una condizione insormontabile di inermità e di sconforto radicale…

All’origine del vivente non è il senso ma la vita fuori dal senso, la vita come pura esistenza, eccesso insensato del vivente… dove l’esistenza appare come una protuberanza priva di valore, presenza senza senso, angoscia assoluta”.

Il primo pensiero che mi è venuto leggendo questo testo è il seguente: quella di ritrovarsi “gettata nel mondo in una condizione di insormontabile inermità” è la condizione di ogni essere umano che viene al mondo, non solo quella del soggetto melanconico.

Non c’è essere umano che venga al mondo in una condizione di forza, se non proprio di onnipotenza.

Da questo primo pensiero ne sono seguiti di gli altri che seguono, concatenati tra di loro; almeno a me così sembra.

Ciò che fa la differenza tra il soggetto cosiddetto “normale” e quello melanconico sta nel fatto che il soggetto melanconico della sua condizione di debolezza, fragilità, precarietà strutturale, “contingenza illimitata”, come dice spesso Recalcati, comune a tutti gli esseri umani, senza nessuna distinzione, si fa addirittura una colpa.

E questo lo porta a sperimentare non solo la pena e la fatica del vivere che sono “normali”, perché connaturate all’esistenza di qualsiasi essere umano, ma uno “sconforto radicale”, un’angoscia assoluta, originati dalla percezione di una mancanza totale di senso.

La condizione umana – quella di tutti gli uomini, paradossalmente anche e addirittura di quelli che professano una fede religiosa – è strutturalmente priva di senso, se per senso intendiamo un quid che sta fuori dell’esistenza, qualcosa che ne è causa metafisica e ragione etica estrinseca.

Semplicemente perché questo quid non ha nessun fondamento filosofico e meno che mai scientifico.

E, però, la maggior parte degli uomini, una volta “gettati” nel mondo, sono in grado di trovare un senso alla loro vita, anche se un senso tutto interno ad essa, che non ha cioè niente di metafisico e di trascendente.

Un senso che è legato, infondo, al piacere del vivere, pur con tutte le sue interne e molteplici contraddizioni.

Per la maggior parte degli uomini (i cosiddetti “sani”) è “la volontà di vivere” che si impone emozionalmente sulla consapevolezza intellettuale che la vita non ha senso. E dà un senso comunque alla loro vita, oltrepassando la sua fondamentale e strutturale insensatezza.

In questo la maggior parte degli uomini sono stati e sono aiutati, sostenuti, dal clima di amore e di fiducia, che li ha accolti al momento di nascere e ne ha alimentato la voglia di vivere nei primi anni di vita.

Il senso nasce, può nascere, solo dalla presenza dell’Altro, di qualcuno che al momento della nostra nascita ci accoglie con amore e ci sostiene con affetto per tutta la fase (molto prolungata) della nostra crescita fino a quando non diventiamo adulti.

Senza questo clima (e a volte, purtroppo, succede che questo clima il bambino e poi il fanciullo e poi l’adolescente non lo incontrino) l’essere umano non solo è incapace di trovare un senso alla sua esistenza, ma si sente ospite indesiderato di questo mondo, si sente addirittura in colpa di essere nato.

Qui trova origine la condizione psicologica del soggetto malinconico, che aggiunge alla mancanza di senso strutturale e oggettiva del vivere (che – ripeto – è propria di tutti gli uomini) quella soggettiva e individuale, che è sua propria e che perciò assume i connotati della patologia, se per patologia intendiamo (come di solito si intende) tutto ciò che non rientra nella norma statistica.

© Giovanni Lamagna

L’amore è per sempre?

Massimo Recalcati, nel suo “Mantieni il bacio” (pag. 32), afferma che, nel momento in cui io dico ad una persona “ti amerò per sempre”, il mio amore è veramente per sempre, io mi prometto veramente e sinceramente per l’eternità.

Anzi, sostiene Recalcati, l’amore DEVE essere per sempre. L’amore – per sua natura – è eterno. Altrimenti non è vero amore.

Il che non vuol dire (sembra quasi costretto a dover ammettere lo stesso Recalcati) che l’amore poi duri effettivamente per sempre, in eterno, come io avevo promesso.

Come si spiega allora questo paradosso (che io condivido), potremmo dire anche questa contraddizione, evidente nelle parole di Recalcati?

Come posso promettere amore eterno, addirittura sostenere che l’amore non è vero amore se non è eterno (almeno nelle intenzioni), se poi molti, tanti, esiti amorosi sembrano contraddire questa realtà, la realtà dell’ “amore per sempre”?

Recalcati la risolve così: la persona che ad un certo punto della relazione dice “non ti amo più” non è la stessa persona che in un tempo precedente, più o meno remoto, aveva detto “ti amerò per sempre”.

Non è la stessa persona. Perché ognuno di noi col tempo cambia, non rimane mai la stessa persona.

Questa cosa l’aveva già sostenuta, come tutti sappiamo, a suo tempo Eraclito, affermando come l’uomo non potesse “mai fare la stessa esperienza per due volte, giacché ogni ente, nella sua realtà apparente, è sottoposto alla legge inesorabile del mutamento”.

E, però, a me sembra, francamente, che la soluzione trovata da Recalcati sia piuttosto debole, che nasconda un trucco, un trucco logico-dialettico.

Infatti, è senz’altro vero che, nel momento in cui giuro alla mia amata amore eterno, io sono del tutto sincero. E, quindi, nessuno potrà accusarmi di essere stato spergiuro, quando e se il mio amore ad un certo punto dovesse esaurirsi.

Però è anche vero (a meno di non essere ammalato di infantilismo o di vivere nelle nuvole o, peggio, di confondere la realtà con la pura e sdolcinata retorica romantica) che, nel momento in cui dico “ti amerò per sempre”, io sono perfettamente consapevole che nulla e nessuno potrà garantire che i miei sentimenti rimangano intatti nel tempo; addirittura eterni.

Allora, forse, non sarebbe più onesto e corretto dire al proprio amato, nel momento in cui gli/le si dichiara il proprio amore, parole diverse dalle classiche e un po’ retoriche “Ti amerò per sempre!”?

Ad esempio, parole come queste: “Io in questo momento ti amo con tutto il mio cuore, tutte le mie forze e tutta la mia intelligenza.

E farò di tutto per non far sfiorire, depauperare, distruggere, evaporare, lo stato dell’anima, che in questo momento sto provando.

Non ti giuro, però, amore eterno, perché non posso giurare su quello che mi accadrà e su quello che sarò in futuro.

Posso solo prometterti che, se il sentimento di amore che in questo momento provo per te dovesse venire meno, non verrà meno il profondo rispetto che provo assieme all’amore e che ti dovrò anche se e quando dovesse venir meno l’amore.

Sarò sempre sincero con te e mai ti ingannerò sullo stato reale della nostra relazione.

Tu saprai sempre da me cosa io provo realmente verso di te, fosse anche il venir meno dell’amore che in questo momento provo per te”.

Mi rendo perfettamente conto e sono pienamente consapevole che questa dichiarazione è molto meno romantica, nel senso di emotivamente coinvolgente, anzi travolgente, e che soprattutto non ha l’efficacia sintetica, direi da “baci Perugina”, di quella che si esprime nella frase classica “Ti amerò per sempre!”.

E, tuttavia, ritengo che essa sia molto più realistica e, quindi, matura, vera e responsabile di quella classica, romantica dell’amore per sempre.

E riesca a conciliare il naturale, istintivo, desiderio di durata che ognuno di noi (compreso il sottoscritto) sinceramente vorrebbe dare al proprio sentimento d’amore, quando esso nasce, con la consapevolezza della sua inevitabile e strutturale precarietà: la precarietà intrinseca in tutto ciò che è umano.

© Giovanni Lamagna

Reale e simbolico

La verità è che il mondo, la vita , non hanno un senso profondo, ultimo, assoluto.

Per dare un senso alle cose, bisogna allora creare un artificio, bisogna crearsi un mondo simbolico. Che sono altra cosa dalla realtà materiale, visibile.

Se non creiamo questo artificio, non possiamo che aggrapparci alle cose materiali, alle cose cioè che si vedono, agli affetti, alle emozioni.

In questo modo, però, siamo destinati a vivere in uno stato di perenne precarietà.

La ragione simbolica serve a sfuggire a questa perenne precarietà. Tende a darsi delle basi solide, anche se sa che queste sono del tutto inventate e artificiali.

Giovanni Lamagna

Due fatti che hanno allietato questo mio ultimo Natale

Quest’anno il mio Natale è stato particolarmente allietato, tra le altre cose belle di natura privata, da due fatti di natura pubblica: una notizia, per me molto bella, e una lettera, anch’essa molto bella.

La notizia è quella della sentenza di assoluzione piena, perché il fatto non costituisce reato, da parte della Corte di Assise di Milano, di Marco Cappato, l’esponente radicale imputato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani.

La notizia è per me molto bella, perché la sentenza, anche (anzi soprattutto) sulla scorta di un pronunciamento della Corte Costituzionale, stabilisce alcuni principii di grande civiltà giuridica e, ancor prima, di umanità:

1) il diritto all’autodeterminazione, cioè la libertà di decidere della propria morte, la libertà di scegliere di morire con dignità;

2) la possibilità, in determinate condizioni, di accompagnare un malato a morire senza che questo fatto costituisca un reato.

La grande commozione, con cui la sentenza è stata accolta nell’aula del tribunale, in modo particolare dalla ex fidanzata di Fabiano Antoniani, dagli avvocati di Cappato e dallo stesso pubblico ministero, che aveva chiesto l’assoluzione, Tiziano Siciliano, è stata ancora più tenera e intensa perché, qualche attimo prima, era giunta la notizia della morte della mamma dell’imputato, ricoverata da qualche giorno in ospedale a Milano.

Per questo i difensori avevano chiesto qualche minuto di pausa per permettere a Cappato di uscire dall’aula, dove è stato abbracciato e consolato dalla moglie. Poi, con gli occhi rossi, Cappato si era riseduto in prima fila per assistere al dibattimento. E, addirittura, aveva avuto la forza e la lucidità, di fare, prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, la seguente dichiarazione spontanea:

“In piena sintonia e assonanza con le motivazioni che avete prospettato rimettendovi alla Corte Costituzionale la mia è una motivazione di libertà, di diritto alla autodeterminazione individuale, naturalmente all’interno di determinate condizioni, è per questo che ho aiutato Fabiano”.

Insomma, una vicenda, che una volta tanto ristora lo spirito, invece che deprimerlo!

La lettera è quella che Giuseppe (detto Beppe) Sala ha inviato al direttore de “la Repubblica” giusto alla vigilia di Natale, nella quale il sindaco di Milano “racconta” il suo rapporto con la religione.

E lo fa, a mio avviso, con toni molto sentiti, meditati e perciò convincenti, senza enfasi e retorica, ma con umiltà e assenza di ostentazione, confessando la gioia e, allo stesso tempo, il dolore del suo essere cristiano. Cristiano e divorziato, perciò impedito a partecipare pienamente all’Eucarestia, facendo la “comunione”.

La riporto integralmente, perché ritengo sia meglio far parlare direttamente le sue parole, anziché commentarle:

Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.

Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.

La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.

Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.

Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.

Giovanni Lamagna