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Orgasmo maschile, orgasmo femminile, invidia del pene e anorgasmia.

L’orgasmo maschile, come tutti sappiamo, è molto intenso, ma altrettanto breve: dura solo pochi secondi.

E’, inoltre, molto concentrato in una specifica zona del corpo, quella genitale, pure se da qui dirama i suoi effetti di piacere anche nel resto dell’organismo, perdendo però via, via di intensità quanto a sensazioni fisiche, nella stessa misura in cui procura un profondo senso di benessere psicologico e di rilassamento generale, fisico e mentale.

L’orgasmo femminile, come tutti sappiamo, è (o, meglio, può essere) anch’esso molto intenso, ma, a differenza di quello maschile, è (o, meglio, può essere) molto prolungato nel tempo (può durare anche parecchi muniti) ed inoltre coinvolge (molto più di quello maschile) varie zone del corpo (ad esempio, il seno o i glutei o i piedi) e non solo quelle genitali.

Arrivo pertanto a sostenere che l’orgasmo femminile è molto più ricco e gratificante, sia sul piano fisico che su quello psichico, di quello maschile; mi verrebbe di dire che è di natura superiore a quello maschile.

Mi chiedo, quindi: da cosa dovrebbe dipendere la cosiddetta “invidia del pene”, di cui parla Freud, quasi a descrivere la donna come un uomo mancato, un uomo castrato? Dipende da fattori di ordine fisico o da cause di ordine sociale e culturale? La risposta a queste domande è, secondo me, nelle cose.

L’invidia, ammesso che invidia ci sia, da parte delle donne nei confronti dei maschi, è – a me pare del tutto evidente – invidia per il loro ruolo sociale, che situa da che mondo è mondo gli uomini su uno stallo superiore a quello della donna e sembra quindi configurare una inferiorità strutturale della donna rispetto al maschio, da attribuirsi a cause di ordine naturale.

Infatti, semmai un’invidia sul piano sessuale fosse giustificabile da parte di uno dei due sessi nei confronti dell’altro, sarebbe più naturale che fossero i maschi a provarla nei confronti della donna; la donna ha, infatti, come abbiamo visto, una possibilità di godere sessualmente di molto superiore a quella dell’uomo.

Perché mai dunque dovrebbe provare invidia per la sessualità maschile?

Caso mai è la donna stessa che può arrivare a temere la sua sessualità; ovverossia la sua capacità di godere del sesso.

E’ paradossale, ma può accadere; e in alcuni (forse, addirittura, in molti) casi accade.

Il suo piacere, infatti, può essere così intenso e prolungato da comportare la sensazione, per molti aspetti perturbante se non proprio spiacevole, di una forma di cedimento, di smarrimento, di passività assoluta, di perdita dei propri confini e del controllo di sé, per certi versi associabile alla follia.

E questo può forse spiegare, fa rilevare Massimo Recalcati (nel suo “Esiste l’atto sessuale?”; Raffaello Cortina Editore; 2021; pag. 154), “il fenomeno assai frequente dell’anorgasmia” delle donne.

Come “difficoltà a cedere la propria vigilanza, ad affidarsi all’illimitato del godimento, alla perdita del proprio Io, ad accogliere la profonda vertigine del lasciarsi fare, come si esprimeva una mia paziente sorpresa di aver avuto accesso a una profonda esperienza di piacere nel rapporto sessuale solo quando è riuscita ad abbandonarsi nelle mani del suo compagno lasciandosi, appunto, fare, cedendo il comando, per usare una sua altra precisa formulazione.”

In altre parole la donna può arrivare a negarsi il piacere dell’orgasmo proprio a causa della grandissima e per certi aspetti sconvolgente intensità della sua capacità di godere (molto superiore a quella maschile) nel momento dell’orgasmo.

Altro che invidia del pene: la donna può arrivare a bloccarsi proprio a causa della sua eccedente e sovrabbondante potenza sessuale!

© Giovanni Lamagna

Cosa caratterizza il femminile e cosa il maschile

Noi siamo come nani sulle spalle di giganti” (Bernardo di Chartres)

Francamente mi pare che Recalcati (pag. 182-185 del suo “Le nuove melanconie”) faccia una eccessiva (anche se a mio avviso solo apparente, come cercherò di argomentare tra poco) idealizzazione della “donna”, in contrapposizione all’ “uomo”.

Secondo Recalcati (e secondo Lacan, di cui Recalcati è allievo) la DONNA non esisterebbe; non esisterebbe insomma un universale della “donna”, ma solo la singola donna.

Mi chiedo: ma ciò che Lacan e Recalcati attribuiscono alla donna non vale anche per l’uomo? Esiste davvero un universale UOMO che non esisterebbe, invece, per la donna?

Oppure ogni uomo è l’incarnazione assolutamente singolare di una categoria generale ed astratta e perciò concretamente non esistente, allo stesso modo di come ogni donna è l’incarnazione del tutto singolare di una categoria generale ed astratta e, quindi, in realtà, concretamente non esistente?

Al contrario per Lacan (e per Recalcati) c’è un “significato universalmente valido” che definisce “l’essere uomo”; c’è un significante, il fallo, che gli dà un significato universale. Che, invece, mancherebbe nella donna.

In altre parole per Lacan e Recalcati (ma prima di loro, come tutti sappiamo, per il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud) “l’essere uomo” si definisce in senso universale per il suo avere un determinato organo: il fallo.

“L’essere donna” si definirebbe, invece, stranamente e secondo una concezione alquanto singolare (e, per dirla tutta, decisamente maschilista), allo stesso modo, anche se opposto e speculare: il non avere il fallo.

Da questo punto di vista il destino della donna (non solo quello della donna isterica, come pure sembra dire Recalcati a pag. 183 del suo saggio) apparirebbe segnato: la donna deve tendere a identificarsi con il fallo dell’uomo, a desiderare di essere il suo fallo.

Che sarebbe poi il desiderio profondo dell’uomo, di ogni uomo: “l’uomo ricerca il fallo nella donna”.

Senonché Recalcati, con una torsione improvvisa, che non mi appare giustificata – almeno per quello che ne ho capito io – da quanto fino a poco prima sostenuto, a pagina 184 se ne esce con la seguente affermazione, che riprende sempre da Lacan: “…se la donna nel fantasma del desiderio maschile incarna il fallo, ella non vuole essere semplicemente un oggetto del desiderio dell’Altro, ma esige il suo amore, vuole essere insostituibile nel desiderio dell’Altro”.

In altre parole la donna vuole “essere una singolarità irriducibile all’oggetto feticizzato, un oggetto insostituibile appunto”.

Che vorrebbe confermare la tesi secondo la quale la donna non si iscrive in una categoria universale, ma deve “essere pensata… come un campo privo di identità solide, metamorfico, aperto”.

In altre parole la donna, ogni donna sarebbe la “realizzazione di una singolarità incomparabile, senza divisa, eccezione assoluta della serie.”.

E in quanto tale, quindi, vuole (vorrebbe), per sua conformazione genetica, essere considerata dal “suo” uomo come “insostituibile”.

Devo dire, in tutta franchezza, che queste tesi di Lacan, che sono riportate e sposate – a quanto mi appare – integralmente da Recalcati, non mi convincono.

Come, del resto, (e ancora di più) non mi ha mai convinto la tesi freudiana dell’ “invidia del pene”, cioè della concezione della donna come creatura deficitaria di qualcosa, definibile, quindi, solo in termini di “minorazione”.

Non mi convince, innanzitutto, la tesi secondo la quale il “femminile” non sarebbe una categoria universale come il “maschile”, in quanto la donna (ogni donna) si definirebbe per la sua assoluta singolarità.

Se non altro perché nel momento in cui si fa una simile affermazione di carattere generale si sta nei fatti definendo una categoria. Un po’ come quando si afferma “non esiste nessuna verità assoluta”: questa affermazione o è falsa (esiste, invece, una verità assoluta) o è vera, però smentisce ipso facto se stessa.

In secondo luogo a me pare che le tesi di Lacan solo apparentemente sono meno maschiliste di quelle di Freud; in realtà risentono anch’esse di un angolo di visuale tipicamente maschile.

Su che cosa si fonderebbe, infatti, il desiderio tipico della donna di essere considerata insostituibile nel desiderio del maschio, se non sulla volontà di possedere il maschio, di volerlo tutto per sé e di considerarlo, quindi, una sua proprietà?

E su cosa si fonderebbe questo desiderio proprietario di possesso se non sul sentimento di debolezza, di precarietà radicale, della donna, sulla sua “mancanza ad essere”; quindi, in ultima istanza, (anche a voler considerare quella di Freud una semplice metafora) sulla “invidia del pene”?

Inoltre, perché il desiderio di essere considerati insostituibili nel rapporto uomo/donna, sarebbe tipicamente femminile, esclusivo della donna?

Una tale affermazione è contraddetta dai fatti. Basti vedere le reazioni che hanno gli uomini, quando le loro donne li “tradiscono”: sono, in genere, di una violenza incredibile, possono arrivare fino all’omicidio. Cosa che, invece, si verifica molto meno spesso, anzi rarissimamente, nel caso delle donne “tradite”.

Sono portato allora a pensare che gli uomini (l’Uomo) e le donne (la Donna) sono molto più simili nella loro struttura psicologica di fondo di quanto non ce li abbiano voluti far vedere Freud e, in fondo, lo stesso Lacan.

Ammesso pure (e non concesso) con Freud che la donna desideri nell’uomo gli organi che a lei mancano, in primo luogo il pene, non potremmo dire allora la stessa cosa dell’uomo? Non ricerca egli nella donna gli organi che a lui mancano, ad esempio l’utero o il seno? Questo sul semplice piano fisico.

Ma tali desideri (ammesso che esistano) non hanno delle ricadute e dei risvolti che sono prettamente psicologici, di cui le rispettive mancanze di ordine fisico potrebbero essere solo delle metafore?

Non è più corrispondente al vero affermare che la donna ricerca nell’uomo le caratteristiche psichiche che nell’uomo sono più sviluppate e in lei più carenti? E che l’uomo fa la stessa cosa con la donna, ovviamente con caratteristiche opposte e speculari?

Infine il desiderio di essere ritenuti “insostituibili” nel rapporto non è, a mio avviso, un tratto genetico, costitutivo, di un sesso (quello femminile) e del tutto assente nell’altro (quello maschile).

Anzi, (a voler completare il mio ragionamento) esso non è manco un dato genetico; è piuttosto un dato storico, legato alla evoluzione dei costumi che sono stati prevalenti, egemoni, fino ad ora, ma che potrebbero essere prima o poi (ed io auspico che prima o poi lo siano) superati nel futuro storico (spero neanche poi tanto remoto).

Potrebbero venir meno nel momento in cui sia gli uomini che le donne smettessero di considerarsi reciprocamente come una proprietà privata.

Ma, forse, tali cambiamenti non riguardano solo il piano psicologico, individuale, dei rapporti privati; investono anche (e io direi soprattutto) un piano che è molto più strutturale ed ampio, ha a che fare con l’economia, l’organizzazione sociale e, quindi, la cultura, l’antropologia.

Solo in una società e in una cultura in cui la “proprietà privata” non sia più il dogma-feticcio e fondante delle relazioni economiche e sociali, i rapporti uomo/donna potranno assumere caratteristiche profondamente diverse da quelle attuali.

E, forse, arrivare perfino a contraddire, invalidare la famosa (anche se un po’ oscura, perfino astrusa, quasi oracolare) tesi lacaniana dell’ “inesistenza del rapporto sessuale”.

© Giovanni Lamagna

Il “sentimento oceanico” e il “sentimento egoico primitivo”.

Secondo Sigmund Freud il “sentimento oceanico”, cioè la sensazione di essere tutt’uno con l’universo (ovvero l’equivalente del sentimento religioso secondo Romain Rolland, il letterato francese suo contemporaneo con il quale il fondatore della psicoanalisi aveva avuto un importante scambio epistolare), se esiste, è il “sentimento egoico primitivo” preservato dopo la fine dell’infanzia.

Il sentimento egoico primitivo precede, secondo Freud, la creazione dell’ego vero e proprio ed esiste fino a quando la madre non cessa l’allattamento al seno. Fino a quando viene allattato regolarmente, in genere in risposta al suo pianto, il bambino non ha idea che il seno non gli appartenga. Pertanto, il bambino non ha la percezione del “sé” o, meglio, considera il seno della madre come parte di sé.

Freud sostiene che coloro che sperimentano un sentimento oceanico da adulti stanno in realtà rivivendo un sentimento egoico primitivo. In altre parole lo stesso sentimento che prova il bambino quando è attaccato al seno della madre e non ha ancora percepito che il seno della madre è altro da sé.

Il sentimento oceanico è, dunque, per Freud lo stesso che prova il bambino per tutta la fase dell’allattamento fino al suo svezzamento. Quindi una sorta di vera e propria regressione a quella fase della vita infantile.

Mi permetto (pur con tutto l’ovvio rispetto dovuto al geniale fondatore della psicoanalisi) di essere in disaccordo con questa interpretazione di Freud. E per almeno due motivi.

Il primo è, perfino, banale a dirsi.

Se il sentimento oceanico di cui parla Rolland è sperimentato da adulti, cioè da persone che sono evidentemente uscite dalla fase del “sentimento egoico primitivo” ed hanno acquisito una piena e matura percezione del sé, non si capisce come possano tornare a sperimentare ancora una volta il “sentimento egoico primitivo”.

Si potrà tutt’al più affermare che l’esperienza del “sentimento oceanico” ha delle somiglianze, delle affinità emozionali-affettive con il “sentimento egoico primitivo”. Ma non si potrà dire che quello coincida con questo. Non si potrà dire che si tratti dello stesso “sentimento egoico”, preservato in una specie di memoria bioenergetica.

Il secondo motivo è molto più profondo e significativo del primo.

Il bambino che vive nella fase del “sentimento egoico primitivo” è un soggetto profondamente egocentrico, narcisista, potremmo dire perfino egoista. Tutto concentrato, cioè, sui suoi bisogni primari e del tutto indifferente a quelli degli altri. Tanto è vero che, se, avendo fame, il seno non gli viene dato immediatamente, piange come un disperato e può diventare perfino aggressivo.

L’adulto che vive l’autentico “sentimento oceanico”, quello di cui parla Romain Rolland è, invece, profondamente sensibile ai bisogni degli altri, quasi come (se non, in alcuni casi, addirittura di più) che ai suoi. Rispettoso e amante non solo degli altri esseri umani suoi simili, ma di tutto ciò che ha a che fare con la natura, dal mondo minerale a quello vegetale a quello animale, dall’aria all’acqua in primis.

Queste così diverse manifestazioni esteriori (evidenti a chiunque le voglia osservare senza pregiudizi pseudoscientifici) rendono del tutto irriducibile il “sentimento oceanico”, di cui parla Rolland, al “sentimento egoico primario”, di cui parla Freud. Trattasi di due esperienze completamente e profondamente diverse. Forse addirittura opposte.

Potremmo, infatti, dire (penso senza tema di esagerare troppo) che l’esperienza del “sentimento oceanico” è addirittura lo stigma inequivocabile del completo e definitivo superamento della fase del “sentimento egoico primitivo” nell’uomo, l’uscita completa dalla condizione infantile per addivenire a quella adulta.

La persona che è in grado di sperimentare il cosiddetto “sentimento oceanico” è uscita definitivamente dalla fase egoica primaria del Sé (mi verrebbe di dire) tutto ripiegato su di sé, (cioè dalla fase del narcisismo tipica dell’infanzia e anche – se vogliamo – dell’adolescenza) e si è aperta alla dimensione dell’Altro da sé, che è (o dovrebbe essere) quella tipica dell’età adulta pienamente realizzata.

Chi prova il vero, autentico, “sentimento oceanico” si fonde (o tende a fondersi) con l’Altro da sé non, certo, con il seno della madre, ovverossia con l’immagine di sé proiettata nella madre, come avviene al bambino. Vive un’esperienza del tutto diversa, anzi addirittura opposta, a quella del bambino.

Giovanni Lamagna