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Una vita senza infamia e senza lode.

Ci si difende dalla luce accecante del sole abbassando lo sguardo o dal calore ustionante allontanandosi dalla sua fonte.

Allo stesso modo molti, forse i più, preferiscono evitare piaceri e gioie troppo intensi e accontentarsi di piaceri e gioie tiepidi e non troppo forti.

In questo modo optano per una vita senza infamia e senza lode, non particolarmente eccitante, ma indubbiamente meno rischiosa e più rassicurante.

© Giovanni Lamagna

Tre tipi di relazione.

Con la lettura di un libro io instauro un vero e proprio rapporto: quello con il suo autore.

Solo che questo rapporto è incompleto, parziale e, quindi, non del tutto soddisfacente; perché è unidirezionale: l’autore parla a me, ma io non posso parlare all’autore.

Con un libro, in altre parole, non si può dialogare, se non in una maniera molto, molto virtuale: io parlo con l’autore, ma egli non mi ascolta e, quindi, non mi risponde, non può rispondermi.

Al rapporto con il libro, perciò, io preferisco e di gran lunga (o, meglio, preferirei in linea teorica) il rapporto, il colloquio, la conversazione diretta con un essere umano in carne ed ossa, non mediati cioè dalle parole scritte su un foglio di carta o su un tablet.

Quando il rapporto, il colloquio, la conversazione si rivelano ricchi, interessanti, stimolanti, educativi, fattori di crescita umana, emotiva, spirituale e non solo intellettuale.

Il problema è che non è facile trovare persone in carne ed ossa con le quali sia interessante entrare in relazione, avere cioè delle conversazioni davvero avvincenti, stimolanti, arricchenti.

Per cui molti di noi alle relazioni con le persone in carne ed ossa – spesso banali, convenzionali e noiose – preferiscono la relazione, che viene ad instaurarsi attraverso le pagine di un libro con il suo autore, relazione in genere molto più ricca e stimolante delle prime.

Ma questo tipo di relazione, a mio avviso e almeno per me, è comunque surrogatoria di relazioni interessanti e stimolanti in carne ed ossa, che desidereremmo avere e che spesso ci mancano o, quantomeno, sono carenti nella nostra vita.

Nessun libro, infatti, riuscirà mai a sostituire il calore, l’empatia, di una relazione in carne ed ossa, di una conversazione vis a vis.

Oggi, da quando esiste internet, ci viene offerta una terza possibilità di relazione: quella cosiddetta virtuale, nella quale la persona con cui interloquiamo, con cui instauriamo in certi casi una vera e propria conversazione, non è presente fisicamente.

Ma questa relazione è comunque bidirezionale, diversamente dalla relazione che viene a crearsi quando leggiamo un libro, che è invece unidirezionale.

Ora io mi accorgo che tra la lettura di un libro e questa terza possibilità di relazione personalmente tendo (perlomeno tendo) a preferire, privilegiare, quest’ultima.

Perché mi offre comunque la possibilità di instaurare una relazione bilaterale, per quanto solo virtuale.

E non poche volte con persone interessanti e stimolanti, quasi come gli autori di un libro; e molto spesso più interessanti e stimolanti delle persone che di solito frequento, le persone in carne ed ossa.

Mentre la lettura di un libro è una relazione solo unidirezionale, per quanto alle volte molto ricca, in certi casi addirittura ricchissima.

Quasi sempre più ricca di quella virtuale, che ti offre Internet, e molto spesso più ricca anche di quella che ti offre la relazione vis a vis con una persona in carne ed ossa.

In conclusione, ciascuno dei tre tipi di relazione che ho descritto poc’anzi presenta pregi e difetti, limiti e potenzialità.

Per cui, a me sembra, l’ideale è farle convivere, in alternanza l’una con le altre.

© Giovanni Lamagna

Intimità e distanza.

Avviene talvolta che il rapporto tra due persone raggiunga un coinvolgimento sensuale, emotivo, affettivo, intellettuale, persino erotico, molto, forse troppo, alto.

Perché inatteso, in quanto non ricercato.

Allora una delle due persone o entrambe se ne ritraggono, quasi spaventate da questa specie di onda che le ha raggiunte e quasi trascinate con sé, se non proprio travolte.

Senza che lo avessero previsto.

Il risultato è una specie di distanziamento, quasi di raffreddamento e rimozione dell’esperienza vissuta, speculari e opposti al coinvolgimento sensuale, emotivo, affettivo, intellettuale ed erotico sperimentato.

Come se ci si volesse riprendere da una specie di stordimento o di ubriacatura, che ci ha destabilizzato; ci si volesse ricomporre e ritornare in sé.

Niente di strano, anzi tutto molto normale: noi abbiamo bisogno di intimità, di sentire il calore che ci dà il rapporto con gli altri, ma anche di mantenere le distanze nel rapporto, di preservare i nostri confini.

Sarebbe importante, bello, però, se di questa dinamica diventassimo consapevoli e, meglio ancora, ne parlassimo con coloro con i quali ci capita di viverla.

© Giovanni Lamagna

L’esistenza che si apre all’Essere: la via estetica, la via filosofica e la via mistica.

La via estetica.

Se l’esistenza umana è pura contingenza e precarietà senza senso, perché senza alcun fondamento che la trascenda, in altre parole senza alcun fondamento metafisico, non per questo l’esistenza umana è condannata irrimediabilmente e fatalmente a restare prigioniera di questa pura contingenza e, quindi, dell’assenza di ogni senso.

L’essere umano ha, infatti, la capacità/possibilità di trovare “dei varchi, degli spiragli” nella “fatticità irrimediabile dell’esistenza”. Ciò accade per Sartre – secondo la lettura che ne dà Recalcati, nel suo “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; 2021; pag. 24-26 – principalmente attraverso l’esperienza estetica.

Attraverso l’immaginazione, l’uomo ha la possibilità di trascendere la pura e opprimente fatticità dell’esistenza, di darle respiro, di aprirla all’Essere, come “ciò che può sottrarre l’esistenza dal peso dell’esistenza”. Un Essere che “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo.”

Nel suo studio sull’immaginario (“L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione”)Sartre riconosce all’immaginazione il potere di annullare, come scrive Recalcati, “l’orrore del reale catapultandoci in un altro mondo”: il mondo della bellezza, della pura “Forma dell’Essere”.

“Il reale – infatti, come scrive Sartre – non è mai bello. La bellezza è un valore che possiamo riferire solo all’immaginario e che implica l’annullamento (néantisation) del mondo nella sua struttura essenziale”. La Forma estetica ci libera (almeno per un momento: quello del godimento dell’opera d’arte) dal peso assurdo dell’esistenza.

Non ho obiezioni da muovere a Recalcati e Sartre: la Forma estetica, attraverso l’opera d’arte (sia nella dimensione della fruizione, sia soprattutto nella dimensione della produzione), è senz’altro una via privilegiata per sfuggire alla trappola oppressiva dell’esistenza, per – in qualche modo – trascenderla e per cogliere l’Essere, sia pure l’Essere come viene inteso da Sartre e da Recalcati.

Penso, però, che la “via estetica” non sia l’unica via, l’unico varco, l’unico spiraglio che l’uomo possa aprirsi nella “massa informe dell’esistenza” per accedere alla Forma dell’Essere. Credo che ce ne siano almeno altre due: proverò a indicarle.

La via filosofica.

La prima di queste altre due vie è, a mio avviso, quella filosofica.

La filosofia nasce, infatti, dalla stessa condizione esistenziale da cui nasce l’opera d’arte: dall’ “incontro traumatico del soggetto con un pieno (quello dell’esistenza) che non necessita di altro se non di sé stesso, di un assoluto privo di significato” (Recalcati; ibidem; pag. 19).

La filosofia nasce “dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza” (ibidem; pag.19), dalla constatazione che “l’esistenza non ha senso, non porta con sé alcun significato a priori, nessuna essenza…”; che l’esistenza “è, in sé, assurda” (ibidem; pag. 23).

Ma (aggiungo io) la filosofia nasce anche dall’esigenza, che è quasi un bisogno impellente, di trascendere questa contingenza e di trovarle un qualche senso.

Un senso che (come la Forma dell’Essere a cui aspira l’opera d’arte) “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo” (ibidem; pag.25).

Un senso che “ci libera dall’eccesso assurdo dell’esistenza”, ma allo stesso tempo “… non è rivolto a una trascendenza metafisica” (ibidem; pag.26).

E’ quel quid che può aiutarci a vivere, a sopra-vivere, a restare in vita, anche dopo che abbiamo preso coscienza che il vivere è orientato alla morte e che non ha nessun fondamento; così come il galleggiare sull’acqua “facendo il morto” ci consente di non sprofondare pur senza avere uno scoglio, una boa, una zattera, su cui trovare appiglio.

In altre parole con la via filosofica – come già con la via estetica, tracciata da Sartre ne “La nausea” – “non si tratta di ricostruire alcun senso metafisico del mondo di cui la Nausea ha svelato impietosamente e irreversibilmente l’assenza, ma di dare all’esistenza, che resta ontologicamente priva di senso, la possibilità di avere un senso singolare sullo sfondo di questo non senso.” (ibidem; pag. 31).

La via mistica.

Una terza via, oltre a quella estetica e a quella filosofica, per non sprofondare nel vuoto, anzi negli abissi senza fondo del non senso, è, a mio avviso, quella mistica.

Non certo la mistica come viene comunemente intesa, la mistica delle religioni tradizionali, ovverossia l’affidarsi cieco, infantile e perciò nevrotico all’Altro, capace di dare “un fondamento ontologico” alla nostra esistenza.

Sia chiaro – anche per me come per Recalcati – la vita umana non ha nessun fondamento, è “priva di ogni possibile giustificazione, di ogni possibile garanzia” (ibidem; pag. 11).

La ricerca, anzi la “passione umana per la propria giustificazione” è per Lacan “il perno del fantasma del desiderio nevrotico… E’ il tratto infantile che contrassegna il nevrotico soprattutto nel suo rapporto con l’Altro materno.” (ibidem; pag. 11).

In cosa consiste allora la via mistica come fuoriuscita dalla gabbia del puro esistere e apertura (mi verrebbe di dire “trascendimento”) verso la forma dell’Essere?

Non certo nella regressione verso l’ “illusione nevrotica dell’Altro come luogo della giustificazione della propria esistenza” (ibidem; pag. 12).

Non certo nell’esperienza religiosa che sta alla base “della passione umana per “essere”, per farsi essere”, che “rivela il fantasma fondamentale del … desiderio” degli uomini: vivere rassicurati all’ombra dell’esistenza del grande Altro” (ibidem; pg. 12) cioè di un Dio trascendente.

Non certo nella credenza “che l’esistenza possa avere un suo senso a priori, che il suo essere trovi fondamento nel grande Altro della garanzia”, che l’esistenza sia un “dono di Dio, giustificata alla sua origine” (ibidem, pg 13).

Non certo nella vocazione ad una vita ordinata, stabile e pianificata.

Non certo nella “idealizzazione retorica” di un “uomo che ha un Mandato, un Compito, che ha, appunto, Diritto ad esistere…” e si sente inoltre il “centro del mondo”. (ibidem; pg.13).

Ma al contrario nella presa d’atto radicale (non solo intellettuale, ma soprattutto emotivo-affettiva) della propria mancanza d’essere, nello scontro scabroso e scandaloso del non senso dell’esistenza e allo stesso tempo nella possibilità di non rimanere impantanati in questo non senso, ma di generare dalla ferita dell’esistenza una chance altra.

Come?

Attraverso l’esperienza da parte dell’uomo della condivisione intima, profonda, della stessa ferita esistenziale con gli altri suoi simili, addirittura con tutti gli altri viventi, perfino con l’Universo mondo, attraversato spesso da disastri e cataclismi che alludono alla stessa sofferenza radicale, ontologica, dell’essere umano.

In altre parole attraverso l’esperienza della com-passione, di quello che il letterato francese Romain Rolland, amico di Sigmund Freud, definì il “sentimento oceanico”.

Anche questa esperienza, come quella che facciamo quando godiamo di un’opera d’arte o quando la nostra mente si illumina per un’intuizione filosofica, ha nell’uomo l’effetto di “attenuare analgesicamente il dolore della ferita che lo attraversa” (ibidem; pag. 33), di trasmettere “un po’ di calore per attenuare il gelo del nostro comune viaggio nella neve” (ibidem; pag. 31).

© Giovanni Lamagna

Cosa vuol dire essere autentici?

Per me vuol dire essere innanzitutto connessi col proprio Sé profondo.

Questa connessione non è mai scontata, nel senso che non è un dato naturale, congenito. Ma è il risultato di una ricerca e, soprattutto, di un lavoro interiore.

Per natura ognuno di noi tende ad apparire, più che ad essere se stesso. Tendiamo, cioè, ad offrire di noi un’immagine migliore di quella che in realtà ci appartiene. Perché ci illudiamo (e spesso, a dire il vero, ne abbiamo conferma) che spendere un’immagine migliore di quella reale di Sé è conveniente sul mercato delle relazioni.

Ma di quale mercato in questo caso si tratta? Del mercato economico delle relazioni, quello dove è in gioco la competizione, il successo, la fama, la gloria, il potere, il denaro. Che non garantisce però la verità, l’autenticità e, quindi, il calore, la profondità, la sincerità delle relazioni.

Per poter sperimentare le vere, autentiche relazioni, quelle dove regna il calore della gratuità e non l’interesse e la convenienza dello scambio (in qualche modo sempre di natura economica) occorre che noi mostriamo il vero Sé e non il Sé “migliore”, che talvolta (anzi sempre) è un falso Sé.

Occorre che ci mostriamo nudi e che l’altro faccia altrettanto. Solo nella nudità, il più possibile completa, i Sé si incontrano.

Quando invece indossiamo una maschera, per apparire migliori di quello che in realtà siamo, si incontrano le maschere e non le anime che si nascondono dietro le maschere.

Allora l’incontro è un finto incontro. Il contatto vero diventa impossibile o è solo superficiale.

Quanti uomini politici, di potere o uomini di affari straricchi sono circondati da folle di devoti!

Questo vuol dire che hanno molti amici, molte persone che li amano?

Niente affatto! Spesso, anzi il più delle volte, i devoti hanno bisogno del loro potere e della loro ricchezza. Non della loro umanità.

Ricercano vantaggi o favori. Non il calore umano della relazione.

Il rapporto umano è vero solo quando prescinde dall’interesse. Quando punta all’incontro delle reciproche umanità, nella loro nudità e senza orpelli.

Giovanni Lamagna