Archivi Blog
Alcune riflessioni sul “lutto”, sull’elaborazione del “lutto”, sulla paranoia e sulla melanconia.
Per Freud il lavoro dell’analisi è essenzialmente un lavoro sul lutto o (come dice Recalcati ne “Le nuove melanconie”; pag. 180) “un lavoro di elaborazione simbolica su tutti i tagli che hanno contrassegnato il processo singolare di soggettivazione”.
In primo luogo – a mio avviso – quello più traumatico di tutti, legato alla nascita, col taglio del cordone ombelicale, che teneva legato, anche simbolicamente oltre che fisicamente, il neonato al corpo della madre.
Ma, per elaborare un lutto (anzi i lutti) a me sembra che condizione indispensabile sia quella di essere consapevoli (o, meglio, diventare consapevoli) che un lutto c’è stato nella propria vita.
Alcuni soggetti, invece, questa consapevolezza non la vogliono prendere, suppongo perché essa li farebbe soffrire troppo.
In questo caso – a mio avviso – il lavoro dell’analisi è reso (quasi) impossibile, è “forcluso”, impedito.
Il paranoico è, appunto, un soggetto che si rifiuta di riconoscere ed elaborare il lutto.
Perché, invece di introiettare il lutto della separazione dall’Altro, perpetua questa separazione, facendo dell’Altro un oggetto persecutorio; facendo dell’Altro il Male assoluto, l’assoluto soggetto cattivo.
Ma c’è – a mio avviso – un altro modo di rifiutare il lutto; ed è quello di “idealizzare” l’altro, di negare il male, il negativo che c’è nell’altro.
Anche quando questo male è importante, significativo, consistente.
Questo “movimento” di rimozione del male è esattamente opposto a quello che fa il paranoico.
In questo caso il soggetto, invece di vedere l’Altro come il Male assoluto, un (s)oggetto persecutorio, lo vede come il Bene assoluto.
E, quindi un “(s)oggetto” da cui non è mai avvenuta (e mai potrà avvenire) la separazione che provoca il lutto.
In questa dinamica l’aggressività che il paranoico proietta sull’altro, si rivolge verso il soggetto stesso che ha rimosso l’esistenza, la presenza di un lutto (o di lutti) nella sua vita, per un eccesso di idealizzazione dell’Altro.
Credo che qui abbiano origine la melanconia acclarata o una certa propensione verso la melanconia, la cosiddetta tendenza melanconica o depressiva.
© Giovanni Lamagna
Esiste la pulsione di morte?
Francamente non credo che esista, come afferma Freud, una vera e propria “pulsione di morte” (Todestrieb), autonoma dalla pulsione di vita, anzi ancora “più originaria, più elementare, più pulsionale” di questa.
Capisco bene le motivazioni ed il contesto storico e persino personale che spinsero Freud ad elaborare questa idea: penso all’esperienza della prima guerra mondiale e al sentore dello scoppio imminente della seconda, alla frequentazione quotidiana di pazienti devastati da una condizione esistenziale talvolta insanabile e (forse) anche alla stessa sofferenza dei suoi ultimi anni di vita, quelli della vecchiaia e, quindi, della decadenza.
Ma ugualmente l’idea della “pulsione di morte”, così come la elaborò Freud, non a caso nell’ultima fase della sua vita, pur con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per il grande pensatore viennese, mi appare poco o niente convincente. E per vari motivi.
Innanzitutto perché affermare l’idea di una pulsione di morte che addirittura precede la pulsione di vita è un po’ come dire che la morte viene prima della vita, che l’uomo (anzi qualsiasi vivente) prima esiste e, quindi, vive come morto e poi come vivo: pensiero alquanto paradossale!
Poi perché la stessa espressione “pulsione di morte” è per me un vero e proprio ossimoro, rappresenta una contraddizione in termini: ciò che pulsa non può essere morto e ciò che è morto non può pulsare.
E, infine, perché penso che la pulsione di morte, di cui parla Freud, altro non sia che la stessa pulsione di vita quando si ammala, quando cioè la vita si rivolta contro se stessa, devia da quello che dovrebbe essere il suo percorso evolutivo naturale e tende ad autodistruggersi.
Quindi la pulsione di morte (ammesso che si possa parlare correttamente, dal punto di vista anche solo linguistico, di “pulsione di morte”) per me non è, non può essere, una pulsione altra, distinta, autonoma, diversa, anzi opposta alla pulsione di vita, ma è solo la sua versione patologica.
A maggior ragione la pulsione di morte (concepita da Freud – ripeto e guarda caso negli ultimi anni della sua vita – , sostenuta poi con forza da Lacan e oggi ripresa con altrettanta energia e convinzione da Massimo Recalcati, nel suo libro “Le nuove melanconie”, in polemica garbata ma altrettanto decisa con i neolacaniani, che a suo dire l’avrebbero edulcorata e in fondo svuotata del suo potere urticante e scabroso) non è, dunque, almeno per me, una pulsione che strutturalmente, per sua natura intrinseca, nega “l’incontro con l’Altro”.
Quasi fosse un’altra forma di vita, di esistenza, una vita e un’esistenza paradossalmente nate già morte.
Ma è la stessa pulsione di vita, che non ha avuto (nella fase dell’infanzia soprattutto) un’esperienza positiva e felice nell’incontro con l’Altro (quando i primi incontri con l’Altro – in modo particolare con i genitori, in modo ancora più particolare con la madre – segnano, decidono quasi definitivamente il destino della nostra vita emotivo/affettiva) e, quindi, si è ritirata in se stessa, ripiegata su di sé, delusa, disperatamente immalinconita, e perciò ammalata.
Oltretutto questo modo di vedere non mi pare che neghi e neanche che tenda ad oscurare, edulcorare o sottovalutare, come sembra temere Recalcati, il lato tragico della vita e persino le spinte autodistruttive, a volte assolutamente devastanti, presenti in molte esistenze umane.
Significa solo spiegarli e motivarli con argomentazioni diverse da quelle a cui fece ricorso Freud e, dopo di lui, da tanti altri insigni psicoanalisti ( i cosiddetti ortodossi), tra i quali i già citati Lacan e Recalcati, senza cadere nelle loro contraddizioni teoriche, che a me sembrano piuttosto vistose, come ho provato qui a dimostrare.
© Giovanni Lamagna
Viene prima ed è più forte la pulsione di vita o la pulsione di morte?
La pulsione di morte – dice Freud in “Al di là del principio di piacere”– è “più originaria, più elementare, più pulsionale” del principio del piacere (da una citazione di Massimo Recalcati a p. 58 del suo libro “Le nuove melanconie”).
Pur con tutto il grande rispetto che ho per il grande padre della psicoanalisi, non riesco ad essere d’accordo con questa affermazione di Freud.
Se, infatti, essa fosse vera, la vita si sarebbe spenta subito, già al suo primo nascere ed apparire. Anzi non sarebbe per niente nata ed apparsa.
Se la pulsione di morte fosse più originaria e, in buona sostanza, stando a quello che pensa Freud, più forte (“più pulsionale”) di quella di vita, la vita semplicemente non sarebbe nata e non sarebbe continuata, nelle sue varie forme, continuamente cangianti.
Non ci sono dubbi (e questa è la parte di verità contenuta nell’affermazione di Freud) che, nel momento stesso in cui un essere umano nasce (ma si potrebbe dire lo stesso di qualsiasi altro vivente), egli/esso già comincia a declinare, a deperire e, quindi, in un certo senso a morire.
Ma di qui a dire che la pulsione di morte precede (è “più originaria”) di quella di vita, a mio avviso, ce ne corre.
Io sono piuttosto portato a dire che la pulsione di vita e la pulsione di morte nascono e convivono assieme, in una lotta titanica, tragica e continua.
Anche se devo riconoscere (e in questo Freud aveva indubbiamente ragione) che alla fine in questa lotta vince la pulsione di morte.
Almeno quanto alla vita individuale, del singolo organismo vivente. Che è poi (sia detto per inciso) la cosa che più interessa ad ognuno di noi.
Perché, invece, in una logica universale e oggettiva, non individuale e soggettiva, si potrebbe anche dire, con il celebre scienziato francese del ‘700, Lavoisier, che in natura “nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”.
E che, quindi, la vita e, perciò, anche la pulsione che la esprime sono in qualche modo eterne, pur nella loro continua evoluzione/ involuzione e mutevolezza.
Di cui, indubbiamente, è parte (e parte sicuramente tragica) l’esperienza soggettiva e individuale della morte.
© Giovanni Lamagna