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Due fatti che hanno allietato questo mio ultimo Natale

Quest’anno il mio Natale è stato particolarmente allietato, tra le altre cose belle di natura privata, da due fatti di natura pubblica: una notizia, per me molto bella, e una lettera, anch’essa molto bella.

La notizia è quella della sentenza di assoluzione piena, perché il fatto non costituisce reato, da parte della Corte di Assise di Milano, di Marco Cappato, l’esponente radicale imputato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani.

La notizia è per me molto bella, perché la sentenza, anche (anzi soprattutto) sulla scorta di un pronunciamento della Corte Costituzionale, stabilisce alcuni principii di grande civiltà giuridica e, ancor prima, di umanità:

1) il diritto all’autodeterminazione, cioè la libertà di decidere della propria morte, la libertà di scegliere di morire con dignità;

2) la possibilità, in determinate condizioni, di accompagnare un malato a morire senza che questo fatto costituisca un reato.

La grande commozione, con cui la sentenza è stata accolta nell’aula del tribunale, in modo particolare dalla ex fidanzata di Fabiano Antoniani, dagli avvocati di Cappato e dallo stesso pubblico ministero, che aveva chiesto l’assoluzione, Tiziano Siciliano, è stata ancora più tenera e intensa perché, qualche attimo prima, era giunta la notizia della morte della mamma dell’imputato, ricoverata da qualche giorno in ospedale a Milano.

Per questo i difensori avevano chiesto qualche minuto di pausa per permettere a Cappato di uscire dall’aula, dove è stato abbracciato e consolato dalla moglie. Poi, con gli occhi rossi, Cappato si era riseduto in prima fila per assistere al dibattimento. E, addirittura, aveva avuto la forza e la lucidità, di fare, prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio, la seguente dichiarazione spontanea:

“In piena sintonia e assonanza con le motivazioni che avete prospettato rimettendovi alla Corte Costituzionale la mia è una motivazione di libertà, di diritto alla autodeterminazione individuale, naturalmente all’interno di determinate condizioni, è per questo che ho aiutato Fabiano”.

Insomma, una vicenda, che una volta tanto ristora lo spirito, invece che deprimerlo!

La lettera è quella che Giuseppe (detto Beppe) Sala ha inviato al direttore de “la Repubblica” giusto alla vigilia di Natale, nella quale il sindaco di Milano “racconta” il suo rapporto con la religione.

E lo fa, a mio avviso, con toni molto sentiti, meditati e perciò convincenti, senza enfasi e retorica, ma con umiltà e assenza di ostentazione, confessando la gioia e, allo stesso tempo, il dolore del suo essere cristiano. Cristiano e divorziato, perciò impedito a partecipare pienamente all’Eucarestia, facendo la “comunione”.

La riporto integralmente, perché ritengo sia meglio far parlare direttamente le sue parole, anziché commentarle:

Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.

Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.

La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.

Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.

Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.

Giovanni Lamagna

Ognuno di noi ha un suo compito da realizzare nella vita.

Ognuno di noi ha un suo compito da realizzare nella vita.

Sono profondamente, intimamente convinto che ognuno di noi nasca con un compito da realizzare. Si potrebbe anche dire, con un destino da compiere.

Che è suo ed esclusivamente suo. Perché nessun altro/a lo può realizzare al suo posto. E’ il “suo” compito, il “suo” destino nel mondo. Da quando è nato.

Si potrebbe anche dire (come alcuni dicono, dando una versione religiosa a ciò che ho appena detto in una logica e in una visione del tutto laica): la sua parola di Dio.

Ognuno di noi, infatti, nasce con delle qualità, delle doti naturali. Piccole o grandi che siano. Dice il Vangelo (anche qua venendoci in aiuto con una bella metafora): con dei talenti.

Ora questi talenti possono essere messi sotto il materasso. E, ovviamente, non produrranno interessi, profitti. Anzi potranno addirittura svalutarsi sotto il peso dell’inflazione.

Che, in questo caso e fuor di metafora, è data dall’aumento e dall’aggravarsi dei problemi che si presentano inevitabilmente davanti ad ognuno di noi nel corso della vita rispetto agli anni della nostra infanzia, quando siamo quasi privati di ogni responsabilità e fatti oggetto di cura e di attenzione da parte delle persone che ci hanno avuto in affidamento, in genere e in primis i nostri genitori.

Oppure (questi talenti) possono essere spesi per acquisire solo vantaggi personali, in una logica di puro egoismo, come se noi fossimo solo individui e, per giunta, nemici degli altri, in competizione perenne con gli altri.

In questo caso tali talenti potranno pure produrre degli interessi e dei profitti, ma ci isoleranno dalla comunità umana. Non produrranno il bene più prezioso per l’uomo: quello di sentirsi in unione e in pace con tutti, col mondo intero, perfino con la natura.

Infine, questi talenti potranno essere spesi per contribuire ciascuno per la propria parte e secondo le proprie capacità alla crescita economica, affettiva, sentimentale, intellettuale, culturale, spirituale, dell’umanità, specie di quella a noi più vicina.

In questo caso essi potranno pure non produrre interessi e profitti di natura personale/individuale, ma sicuramente ci daranno il bene più necessario e prezioso per la serenità e la pace, se non proprio la felicità, di cui possa godere un essere umano: quello di sentirsi parte di un tutto, in comunione con l’intero universo, in primis con gli altri esseri umani, parte intrinseca di una comunità.

Tutti siamo chiamati a sviluppare i nostri talenti in questo terzo modo. Ma pochi in realtà ci riescono. Anzi pochi ci provano.

Alcuni manco diventano consapevoli di avere dei talenti. E non solo perché questi a volte sono pochi e modesti. No, alcune volte non ne diventano consapevoli semplicemente perché sono incapaci di guardarsi dentro.

Sono come coloro che, inconsapevoli di possedere un tesoro (grande o piccolo che sia, cambia poco), non guardano mai nella loro borsa. E preferiscono chiedere l’elemosina o, addirittura, andare a rubare.

Altri pensano che, badando solo a se stessi e utilizzando i loro talenti in una logica puramente egoistica, trarranno i migliori e i maggiori vantaggi per sé.

Ma non pensano lungo, non pensano in una logica di insieme: vedono l’albero e non vedono la foresta. In questo modo, magari, guadagnano l’albero, ma si perdono la foresta.

Solo chi ha lo sguardo lungo e la vista di insieme è in grado di far fruttare al massimo i talenti che la natura (per puro caso e fortuna, senza alcun suo merito) gli ha messo a disposizione.

In questo caso potrà anche non possedere nessun albero di sua esclusiva proprietà, ma potrà fruire e godere dell’intera foresta.

Giovanni Lamagna