Archivi Blog

Scrivere è come partorire.

Quando si comincia a scrivere qualcosa spesso non si ha un’idea esatta, precisa, completa, di quello che si scriverà.

Molte volte si è mossi da un pensiero inizialmente ancora vago, generico, confuso: appena l’abbozzo di un’idea.

Poi, man mano che si scrive, il pensiero si dipana, chiarisce, si rivela prima alla mente, poi alle mani, infine – quando è stato messo sul foglio – alla vista dello scrittore.

Per questo lo scrivere assomiglia molto al partorire.

Infatti, quando la mamma sta per partorire il suo bambino sente di averlo già tutto formato dentro il suo ventre; ma, ovviamente, non ne conosce ancora esattamente, anzi non ne conosce quasi per niente, le fattezze.

Per tutti i nove mesi di gravidanza ne ha avuto solo timidi indizi: i calci nella pancia, per esempio.

Oggi, con le moderne ecografie, se ne possono sapere in anticipo innanzitutto il sesso e poi, con una certa precisione, anche il peso, l’altezza e persino i lineamenti del viso.

Ma è solo con il parto che il bambino si rivela pienamente alla madre in tutte le sue fattezze.

Proprio come avviene con il testo scritto che si rivela pienamente all’autore solo dopo che egli lo definitamente portato sulla carta o sul computer.

Insomma solo dopo che lo scrittore lo ha – per restare nella metafora – finalmente partorito.

© Giovanni Lamagna

Quanti equivoci dietro la parola “amore”!

La cronaca giornaliera ma anche l’esperienza che ho dei rapporti umani mi portano a dire che in nome dell’amore si pensano e (peggio ancora!) si commettono a volte le peggiori nefandezze.

Basti pensare al caso estremo degli omicidi che avvengono in nome del presunto amore o, addirittura, (come alcuni lo definiscono) di un “eccesso di amore”.

In realtà perché l’omicida era preda della gelosia o perché non riusciva a sopportare l’abbandono o la richiesta di separazione della persona che (a parole) diceva di amare.

Il termine “amore” checché ne pensino molti e anche a prescindere dai casi estremi, prima citati, che finiscono in tragedia, è, dunque, alquanto vago e generico, anzi perfino ambiguo e contraddittorio nei suoi molteplici significati possibili.

Ogni volta che parliamo di “amore” dovremmo dunque metterci d’accordo, in premessa, su quale significato (in termini di azioni concrete) attribuiamo a tale parola e imparare a distinguere “il grano dal loglio”.

Ci sono azioni e comportamenti (per fare un altro esempio, meno estremo, ma non privo anch’esso di esiti a volte nefasti: quello del rapporto dei genitori coi loro figli) che spesso non sono affatto d’amore, anche se i più li considerano perfettamente tali.

Quanti genitori, in nome dell’amore, in realtà in nome del possesso, del desiderio a volte gravemente morboso di tenerseli stretti, di non “perderli”, impediscono ai loro figli una crescita autonoma e non favoriscono il loro distacco, la loro indipendenza!

Quanti genitori, sempre in nome dell’amore, in realtà per tenerseli buoni ed evitare quei conflitti, che a volte sono invece necessari, diciamo pure fisiologici, incapaci di porre limiti e regole, comunicano ai figli il messaggio che a loro tutto è consentito!

© Giovanni Lamagna