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Depressione e senso dell’esistenza.

Nella risposta alla lettera di una giovane lettrice, Cecilia, che raccontava la sua disperazione esistenziale e il suo desiderio di autodistruzione (lettera pubblicata su “D la Repubblica” il 17 febbraio 2018), Umberto Galimberti così scriveva:

Per noi lettori, frequentare qualche riga di questa lettera non è un male. Serve a dare la giusta misura alla nostra esistenza che si affanna e supervaluta, come se si trattasse di vita o di morte, gli obiettivi che ciascuno di noi si prefigge e insegue.

Per costoro vale il monito che traspare dalla lettera di Cecilia che non si interroga, come fanno tutti, sul senso della sofferenza, bensì… sul senso dello stesso esistere, che non è privo di senso perché è tormentato dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché è privo di senso.”

Galimberti, appena qualche riga prima, aveva scritto: “… non ho mai trovato in nessun testo di psicologia… una descrizione così lucida del sentimento che accompagna chi ha avvertito, senza infingimenti, la radicale insignificanza dell’esistenza, da cui tutti fuggiamo, occupandoci di qualsiasi cosa (lavoro, famiglia, carriera, progetti, obbiettivi, persino sogni e amori).

Mi permetto di non essere d’accordo, questa volta, con la lettura/spiegazione che il professor Galimberti dà del sentimento o, meglio, della condizione esistenziale (che lui non nomina, ma credo siano sottintesi), che oggi vengono definiti col termine “depressione” e una volta con quello di “melancolia”.

Per il professor Galimberti (a me pare di capire) la “depressione” sarebbe la naturale conseguenza, sul piano emozionale/sentimentale, di “chi ha avvertito, senza infingimenti, la radicale insignificanza dell’esistenza”.

Coloro che non soffrono di depressione sarebbero, dunque, quelli (la grande maggioranza di tutti noi) che fuggono da questa consapevolezza (della “radicale insignificanza dell’esistenza”), occupandosi di cose che non avrebbero un reale valore; e cioè “lavoro, famiglia, carriera, progetti, obbiettivi, persino sogni e amori”.

La depressione, quindi, per Galimberti, non sarebbe lo stato d’animo di chi “è tormentato dalla sofferenza”, una sofferenza talmente grande e senza vie di uscita da rendergli insopportabile “lo stesso esistere”. Esistere che, perciò, gli “appare privo di senso”, senza valore o, perlomeno, senza motivazioni adeguate.

No, per Galimberti, la depressione sarebbe lo stato d’animo di chi trova “insopportabile” l’esistenza, a prescindere dalle condizioni esistenziali in cui essa viene vissuta, ma (mi verrebbe di dire, solo e semplicemente) “perché essa è priva di senso”, non ha ragioni valide (metafisiche?) per essere vissuta.

La depressione, quindi, come condizione esistenziale, sarebbe, per Galimberti, figlia di un atto mentale, potremmo dire anche di una riflessione filosofica sul “senso dell’esistenza”.

Sono totalmente in disaccordo con questo tipo di lettura.

E non perché ritenga che la vita abbia delle ragioni che vadano oltre la vita stessa (ragioni perciò “metafisiche”) per essere vissuta. Da questo punto di vista, sono, infatti, del tutto d’accordo con l’affermazione del professor Galimberti che l’esistere in sé “è privo di senso”.

Ma perché penso che la lettura/spiegazione che dà il professor Galimberti della depressione sia in stridente contraddizione con l’esperienza della maggior parte degli esseri umani e, quindi, con quella che possiamo ritenere essere la loro natura di base.

La grande maggioranza degli esseri umani, infatti, (come possiamo vedere osservando i bambini), dal momento in cui viene al mondo, è animata da una gran voglia di vivere. Che non è solo l’istinto di sopravvivenza, ma è proprio il piacere di vivere, la gioia di vivere, l’élan vital.

Di questa energia esistenziale primordiale hanno dato ampia testimonianza non solo la filosofia greca e le filosofie orientali, “vecchie” di duemilacinquecento anni, ma anche pensatori più recenti e a noi più vicini, quali Schopenhauer, Bergson e lo stesso Nietzsche.

Tale energia può essere perduta, per carità, anche ben presto smarrita, nel corso dell’esistenza, ma solo a causa di condizioni di vita particolarmente sfavorevoli: estrema indigenza economica, malattie organiche o psichiche, abbandoni traumatici, colpi di sventura. Non certo per una riflessione filosofica sul “non senso” radicale dell’esistenza.

Nella maggior parte degli esseri umani tale energia permane, sopravvive nonostante le sventure e i dolori che affliggono la vita di tutti noi. Questo è un dato statistico importante, oggettivo, che ha il suo valore e che non può essere sottovalutato né, tantomeno, ignorato.

Non è dunque (potremmo dire, parafrasando Marx) la coscienza (ovverossia la consapevolezza che l’esistere abbia un senso o meno) a determinare la condizione psicologica ed-esistenziale di ognuno di noi e, meno che mai, quella materiale, ma (esattamente al contrario) è la condizione materiale (e, quindi, anche psicologica) in cui si svolge (per una serie di circostanze, molte delle quali non dipendono da noi) la nostra esistenza che determina la nostra coscienza (il fatto che per alcuni di noi la vita abbia un senso, perfino grande, e che per altri non ne abbia alcuno, nemmeno uno piccolo, piccolo).

Giovanni Lamagna