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Auguri di Natale.

Non è facile, in tempi cupi come questi, fare gli auguri di Natale.

Viene da chiedersi: che senso ha?

Eppure, forse mai come in tempi simili, ha un senso farlo.

“Spes ultima dea”: dice un vecchio proverbio; ed a ragione.

Che la speranza di una vita (non solo privata ma collettiva) sia, dunque, l’ultima a morire!

Che questo Natale la faccia rinascere o la rinforzi, laddove fosse morta o si fosse affievolita nei nostri cuori!

Che l’ottimismo della volontà prevalga sul pessimismo della ragione!

Il futuro collettivo, in fondo, dipende anche (almeno un poco) da ciascuno di noi.

Tanti auguri, amici!

Giovanni

Freud: la varietà del mondo umano e della vita della psiche.

Freud introduce “Il disagio della civiltà” (1929) con queste parole: “Non ci si può sottrarre all’impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli altri, ma sottovalutino i veri valori della vita.

Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio di questo tipo, si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo umano e della vita della psiche.

Vi sono taluni uomini a cui i contemporanei non negano l’ammirazione benché la loro grandezza poggi su doti e realizzazioni che sono completamente estranei agli scopi e agli ideali della massa.

Potremmo facilmente essere indotti a credere che solo una minoranza, alla fin fine, apprezza questi grandi uomini, mentre la gran maggioranza non se ne cura affatto.

Ma la cosa potrebbe non risultare così semplice, grazie alle discrepanze tra i pensieri e le azioni degli uomini e alla diversità dei desideri che li muovono.” (1)

In questo passo Freud fa delle affermazioni che potrebbero apparire scontate, ma che fatte da lui, senza alcun dubbio “uomo del disincanto”, tendente decisamente al pessimismo, se non proprio al relativismo etico, acquistano un peso particolare.

E per questo vorrei provare a metterle in evidenza, punto per punto, con parole mie.

Gli uomini tendono a dare valore a cose che non lo meritano (potere, successo, ricchezza…) ed a sottovalutare i veri valori della vita.

Se ne deve dedurre che anche per Freud non solo esistono valori veri e valori falsi, ma che i veri valori della vita per lui non sono certo il potere, il successo o la ricchezza.

Affermazione questa che, fatta da un campione del disincanto e del principio di realtà qual era indubitabilmente Freud, è per me di straordinaria (e addirittura sorprendente) importanza.

Di conseguenza, in base alla prima affermazione, gli uomini (o, meglio, la gran parte di essi) per Freud tendono a invidiare e ad emulare coloro che nella vita hanno ottenuto potere, successo, ricchezza, fama…

E, però, – Freud si premura di aggiungere – non tutti gli uomini hanno lo stesso sistema di valori e lo stesso metro di giudizio; il mondo umano è articolato, non può essere ridotto ad un ammasso informe, perché diverse e molto varie sono le storie psichiche dei diversi individui.

Succede allora che vi sono uomini i quali vengono ammirati e perfino esaltati, pur avendo e perseguendo valori che sono molto difformi da quelli della massa, cioè della gran parte degli uomini.

Qui il pensiero va spontaneamente a personaggi della storia quali Francesco d’Assisi, Gandhi, madre Teresa di Calcutta, per fare solo tre esempi; e non si può non dare ragione a Freud.

Si potrebbe, a questo punto, supporre che solo una minoranza apprezzi questo tipo di uomini, che sfuggono al modo di pensare e di vivere della maggioranza: la minoranza che si riconosce in un sistema di valori difforme da quello della maggioranza, della massa.

Ma anche questo non è del tutto vero, sembra dire Freud; perché ci sono moltissimi uomini che vivono secondo il modo di essere della massa, perseguono cioè potere, successo e ricchezza, eppure ammirano coloro che si distaccano da questo modo di vivere.

La gran parte degli uomini vivono una vita mediocre dal punto di vista dei valori etici, alcuni addirittura vivono nel vizio e nella degradazione morale, eppure ammirano coloro che vivono nella virtù e si distinguono dalla massa.

Ci sono, in altre parole, moltissimi uomini che apprezzano determinati valori – incarnati da determinati uomini eccezionali, nel senso che fanno eccezione, si distinguono dalla massa, non seguono il modo di pensare e di vivere comune – e però poi si comportano in maniera opposta ai valori che pur dicono di apprezzare, vivono cioè seguendo il gregge, la corrente.

Io sono completamente d’accordo con questa descrizione delle varie tipologie umane fatta da Freud.

Anzi ne sono grandemente ammirato, per l’articolazione, l’acutezza e la profonda capacità di leggere la realtà umana.

© Giovanni Lamagna

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  • da “Freud; Il disagio della civiltà e altri saggi”; 2012, Bollati Boringhieri editore; pag.199

Gesù e Buddha: entrambi pessimisti allo stesso modo?

Nell’ultimo capitolo del suo libro “I quattro maestri” (Garzanti, 2020) Vito Mancuso accosta Gesù a Buddha e Socrate a Confucio; i primi sarebbero portatori di una visione della vita fondamentalmente amara e pessimista, i secondi di una visione dolce ed ottimistica.

Sono d’accordo con la gran parte delle cose che afferma Mancuso in questo libro, che – sia detto per inciso – è molto bello, ma su quest’ultima sua affermazione esprimo forte dissenso.

Mancuso prende in considerazione l’obiezione che Gesù, “a differenza del Buddha, amava festeggiare e che quindi trovava la vita tutt’altro che amara, come appare dal Vangelo in cui si legge che veniva accusato di concedersi un po’ troppo ai piaceri della vita” (pg. 442).

E, però, a tale obiezione Mancuso risponde che “la partecipazione di Gesù a tali banchetti…, ben lungi dall’essergli congeniale, faceva parte della sua strategia missionaria tesa a recuperare coloro che sentiva maggiormente in pericolo di fronte all’arrivo imminente del regno di Dio” (pg. 442).

Io non credo sia così.

Certo, anche io ritengo che Gesù non avesse nulla dell’edonista. Il fatto che partecipasse a feste e banchetti non me lo fa immaginare certo come un crapulone e, meno che mai, come un dissoluto.

E, però, la mia impressione, a giudicare dal quadro complessivo che ne viene fuori dai Vangeli, è che egli comunque fosse un amante della vita, delle sue gioie e dei suoi piccoli e grandi piaceri.

Si concedeva, infatti, momenti di riposo, di conversazione con i suoi discepoli, che considerava i suoi amici più intimi, si prendeva lunghe pause di preghiera, immagino non certo angosciosa, ma ristoratrice e pacificatrice; a parte l’ultima, quella dell’orto del Getsemani, a poche ore dal suo arresto e dalla crocifissione, quando era diventato consapevole della condanna a morte imminente.

Oltretutto, ancora poche ore prima della notte dolorosa trascorsa nel Getsemani, aveva organizzato un’ultima cena, quasi di commiato dai suoi più vicini seguaci.

Che senso avrebbe avuto questa cena, se fosse vero quanto affermato da Mancuso; dal momento che i suoi discepoli non avevano certo bisogno di essere convertiti?

E’ del tutto evidente, quindi, che la sua partecipazione a banchetti simili non aveva nulla di strumentale, ma era del tutto congeniale alla sua indole, mite, dolce e socievole.

Sì, è vera anche la seconda affermazione di Mancuso, e cioè che Gesù considerava imminente la venuta del regno di Dio.

Ma, a mio avviso, la venuta del regno di Dio, per quanto da lui auspicata, oltre che profetizzata, non significava affatto per lui il superamento di un regno, di un mondo, di una vita, fatti solo di brutture, di angosce e di sofferenza; come è nel caso del Nirvana buddhista.

No, il nuovo regno di cui parla Gesù è l’avvento di “cieli nuovi e terre nuove”, che non negheranno o cancelleranno i cieli vecchi e le terre vecchie, ma semmai li esalteranno al loro meglio, eliminandone solo le brutture e le ingiustizie e salvaguardandone le bellezze e la bontà.

Tanto è vero che… “Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente.”, secondo le parole del profeta Isaia (11, 6- 8).

No, non riesco a vederlo Gesù affiancato a Buddha.

Gesù amava la vita: ne ha dato cento testimonianze; egli sognava e profetizzava un mondo altro, ma non disprezzava questo mondo.

Altrimenti, per fare solo alcuni esempi, non avrebbe pianto di fronte alla morte di alcuni amici, non avrebbe compiuto il “miracolo di risuscitarli” e non avrebbe supplicato il Padre di allontanare da lui il “calice amaro” che gli si stava apprestando.

Per Buddha la vita è essenzialmente sofferenza e la rinuncia ai desideri, ovverossia a ciò che rende la vita degna di essere vissuta, è l’unica via per uscire dalla sofferenza.

Cosa ha a che fare una tale filosofia nichilista con il modo di pensare di Gesù, che, pur con tutte le sue contraddizioni, è fondamentalmente gioioso e amante della vita?

© Giovanni Lamagna

Filosofia ed esistenza

Schopenhauer è un filosofo, uno dei filosofi, che (nonostante il suo profondo pessimismo, da me non condiviso quasi per nulla) sento molto vicino; e per una ragione molto semplice, ma fondamentale.

Perché parla e ragiona di cose concrete, della vita e della natura dell’uomo, dei suoi bisogni e desideri, soprattutto del suo desiderio di felicità.

E’ un filosofo, dunque, che potremmo definire “esistenzialista”, anche se, ovviamente, ante litteram.

Ora a cosa serve la filosofia se non a riflettere su ciò che è l’uomo, la sua natura, il suo destino, i suoi compiti, ammesso che ne abbia?

Io mi riconosco in questo tipo di filosofia e solo in essa.

Altri tipi di filosofia mi interessano ben poco, anzi – diciamola tutta! – mi annoiano profondamente.

© Giovanni Lamagna

Piaceri e felicità, dolori e infelicità

Nella massima n. 17 de “L’arte di essere felici” (Adelphi; 2017) Arthur Schopenhauer manifesta con la massima chiarezza il suo profondo pessimismo sulla vita e sul destino dell’uomo: “Dato che ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo, mentre il dolore è di genere positivo, la vita non ci è data per essere goduta, ma per essere sopportata… Chi trascorre la vita senza dolori fisici o psichici eccessivi ha avuto la sorte più fortunata possibile… Chi vuole misurare la felicità di una vita intera in base alle gioie e i piaceri assume un criterio completamente sbagliato…”.

Cosa pensare di simili affermazioni? Dico – a voler restare freddi e distaccati – che esse sono espressione di una posizione quantomeno soggettiva, molto collegata alla propria personale vicenda esistenziale e che non possono quindi essere universalizzate. Farlo è un’operazione quantomeno indebita.

Tutto il ragionamento si fonda su due affermazioni molto opinabili:

1) ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo; ciò significa che felicità e piacere consistono in null’altro che nella momentanea assenza dei dolori, sono esperienze di assenze e non di presenze, di vuoti e non di pieni;

2) il dolore è di genere positivo; ciò vuol dire che il dolore è ben avvertibile, è ben più pesante della felicità e dei piaceri, in quanto esso non sta nella semplice assenza dei piaceri, ma ha una consistenza in sé, è una presenza e non un’assenza, un pieno e non un vuoto.

Io credo che tali affermazioni abbiano un valore del tutto soggettivo, dal momento che possono essere (quasi) pari, pari rovesciate: la felicità e i piaceri, infatti, hanno per me una valenza positiva; mentre l’infelicità e i dispiaceri ne hanno a volte una semplicemente negativa, altre volte una anch’essa “positiva”.

La felicità e i piaceri per me non consistono affatto nella semplice assenza dei dolori, ma in sensazioni, emozioni, sentimenti, stati dell’animo ben precisi e identificabili.

Quando, infatti, faccio una bella mangiata, non semplicemente per lenire la fame ma soprattutto per soddisfare il gusto del mangiare, quando mi trovo di fronte ad un bellissimo panorama o quando ascolto una bella musica o quando mi innamoro di una donna (per fare cenno solo ad alcuni dei piaceri e delle gioie possibili per un uomo), io – con tutta evidenza – non sto sperimentando semplicemente un’assenza (un vuoto) di dolori e infelicità, non sto facendo quindi un’esperienza “negativa”, ma sto sperimentando una presenza (un pieno) di piaceri e di gioia, sto facendo quindi un’esperienza positiva e non negativa.

Piuttosto è il dolore, gran parte del dolore che sperimentiamo nella vita, a presentarsi nella forma dell’esperienza negativa.

Che cos’è, infatti, la massima parte del dolore che sperimentiamo nella vita se non un’assenza di felicità e di piaceri? I dolori più diffusi e prevalenti nella vita non sono forse la nausea, la noia e la depressione?

Che non corrispondono affatto a un dolore ben preciso ed esattamente identificabile, “localizzabile”, quanto piuttosto ad un’assenza di gioie e piaceri.

Poi, certo, c’è anche il dolore che ha una sua consistenza piena e precisamente identificabile, che va dal semplice e banale mal di denti, che non ci fa dormire la notte, alle sofferenze estreme dell’agonia che precede la morte.

Ma questo è il dolore eccezionale, che ci colpisce di tanto in tanto e in maniera più o meno prolungata o una sola volta nella fase finale della nostra vita, piuttosto che la condizione normale della nostra esistenza.

Che, per concludere, a mio avviso, tranne casi eccezionali e particolarmente sfortunati, non vede affatto la prevalenza dell’infelicità e dei dispiaceri, quanto un alternarsi di infelicità e dispiaceri e di felicità e piaceri o, tutt’al più, la calma piatta della noia, figlia dell’assenza o della non vistosa presenza sia dei primi che dei secondi.

© Giovanni Lamagna

Sulla regola d’oro

Nel suo “La filosofia come modo di vivere” Pierre Hadot a pag. 255, a proposito della famosa regola “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, sostiene che “questo principio non si fonda su nessuna filosofia, è legato all’esperienza umana”.

Io sono fondamentalmente d’accordo, ma allo stesso tempo non sono del tutto e completamente d’accordo con una tale tesi.

Sono fondamentalmente d’accordo, perché a mio avviso la “regola d’oro” di cui parla Hadot è figlia piuttosto di un pre-giudizio che di un vero giudizio (ovverossia di un atto compiutamente filosofico).

La regola d’oro si fonda su un certo tipo di esperienza umana piuttosto che su una considerazione teorica, intellettuale.

Un’esperienza umana tutto sommato positiva, potremmo anche dire “buona” e perfino – almeno in una certa misura – ottimistica, che sorride alla vita e non ne è rattristata.

Non certamente un’esperienza di (acclarata o latente) depressione, da cui non può derivare che pessimismo, se non addirittura disperazione.

Bisogna tuttavia mettere in conto che per molti uomini l’esperienza della vita non è stata e non è affatto positiva, che essi nella vita hanno ricevuto più male che bene e che, di conseguenza, sono portati a dare dell’esistenza un giudizio piuttosto negativo, sono portati dunque al pessimismo, se non proprio alla disperazione.

Per questo tipo di uomini la regola d’oro non ha senso, non ha valore, è inapplicabile. Per essi vale piuttosto l’ “homo homini lupus” o il “bellum omnium contra omnes” di Hobbes.

Possiamo dunque concluderne che il giudizio sulla vita più che a considerazioni di carattere teorico-filosofico è legato ad esperienze di vita (soprattutto primarie; quelle che facciamo nell’infanzia, in modo particolare nella primissima infanzia).

E tuttavia è anche vero però (e in questo non sono d’accordo con Hadot) che quello che potremo definire una specie di pregiudizio esistenziale si trasforma in un vero e proprio giudizio teorico.

Che fonda addirittura l’orientamento filosofico, potremmo anche dire “la visione del mondo”, di cui ciascuno di noi (più o meno consciamente, più o meno consapevolmente) è portatore.

Per cui le nostre azioni, il nostro agire, perfino il nostro stesso stile di vita complessivo, si adeguano, si conformano a questo giudizio teorico.

Di conseguenza sono portato a dire (su questo in dissenso con Hadot) che ogni orientamento etico-morale si fonda necessariamente (anche) su una (per quanto minima e appena abbozzata) teoria dell’uomo e dell’Umanità (intesa come l’insieme delle relazioni tra gli uomini).

Questa teoria , quindi, nasce indubbiamente e in primo luogo da un’esperienza pratica di vita. Ma la teoria a sua volta influenza e rafforza l’esperienza e la pratica di vita della persona che la professa.

In un circolo che alle volte è virtuoso, quando la pratica di vita è stata positiva e da essa è derivata una concezione del mondo tutto sommato positiva, se non proprio ottimistica.

Altre volte è vizioso, quando la pratica di vita è stata negativa, perché i dolori e le angosce hanno di gran lungo sopravanzato le gioie e i piaceri, e da questa è derivata, quasi come suo frutto naturale, una visione pessimistica dell’esistenza.

A me pare che la storia della filosofia, con la sua sequela di filosofi e delle loro rispettive concezioni del mondo, ci dia una conferma inoppugnabile di tale assunto, cioè del rapporto intrinseco, strettissimo, che esiste tra una determinata weltanschauung e la biografia del filosofo che ne è autore.

Ora ciò che vale per i filosofi affermati e universalmente riconosciuti può non valere (a maggior ragione) per gli uomini comuni?

© Giovanni Lamagna

Ideali, vizi, virtù, realismo, pessimismo, ottimismo in politica.

Norberto Bobbio, in un sapido e piacevole libretto del 2001, intitolato “Dialogo intorno alla repubblica”, frutto di una serie di colloqui avuti con lo storico del pensiero politico Maurizio Viroli (tra pag. 8 e pag. 9) così scrive:

“… In politica sono un realista… La politica, sia quella monarchica, sia quella repubblicana, è lotta per il potere.

Parlare di ideali, così come ne parli tu, per me significa fare un discorso retorico. Anche quando i tuoi scrittori celeberrimi parlavano di repubblica, in realtà quello che di fatto succedeva nel mondo, era la politica com’è sempre stata dai Greci in poi.

La politica come lotta per il potere la capisco, se parli invece della politica che ha per fine la repubblica basata sulla virtù dei cittadini, io mi domando cos’è questa virtù dei cittadini.

Spiegami dov’è uno Stato che si regga sulla virtù dei cittadini, uno Stato che non ricorra alla forza!

La definizione dello Stato che ricorre continuamente è quella secondo cui lo Stato è il detentore del monopolio della forza legittima, forza necessaria perché la maggior parte dei cittadini non è virtuosa, ma viziosa.

Ecco perché lo Stato ha bisogno della forza, questa è la mia concezione della politica.

E’ una categoria della politica diversa da quella che ritiene di poter parlare di Stati fondati sulla virtù dei cittadini.

Ti ho detto, la virtù era l’ideale giacobino.

La ragione per cui ci sono gli Stati, repubbliche comprese, è quella di tenere a freno i cittadini viziosi, che sono la maggio r parte.

Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.”

E’ una delle poche volte, forse addirittura la prima, in cui mi trovo in forte, anzi in radicale dissenso col grande filosofo (del diritto e della politica) torinese.

Il dissenso comincia subito, già rispetto alla prima affermazione di Bobbio, quando egli dice “in politica sono un realista”.

Perché a me non pare affatto che Bobbio sia un pensatore “realista”: è, piuttosto, un pensatore “pessimista”, che cerca di far passare per realismo il suo pessimismo; come fecero già, prima di lui, fior di pensatori, quali Machiavelli, Hobbes e, tutto sommato, anche Weber (per fare solo tre nomi).

Definirsi “realisti”, infatti, per me significa vedere le cose come sono, per quello che sono, senza edulcorarle, cioè senza addolcirle secondo i nostri gusti, secondo quello che ci piacerebbe che fosse e, invece, non è.

Ma significa anche non vederle più nere, più negative di quelle che sono, come fa, ad esempio, l’ipocondriaco, il quale si dà già per morto, appena avverte il minimo sintomo o solo perché ha qualche problema di salute

Ora Bobbio è veramente “realista” nel senso che ho detto sopra?

Certo, lui è convinto di esserlo. E’ convinto, cioè, che la natura umana sia fatta in un certo modo e che, per conseguenza, la politica (attività e dimensione umana per eccellenza), sia fatta in un certo modo.

Ma come intende Bobbio la natura umana e come intende, per conseguenza, la politica? E soprattutto la natura umana e la politica sono davvero come le intende Bobbio, per cui egli avrebbe descritto la realtà effettiva degli uomini e della politica?

Perché è su questo che potremo verificare se il “realismo” di Bobbio sia vero realismo o altro. Provo, allora, ad articolare il ragionamento.

Innanzitutto per Bobbio “parlare di ideali… significa fare un discorso retorico”. Il che significa che per Bobbio gli ideali hanno ben poco peso, se non addirittura un peso nullo. Prima affermazione quantomeno opinabile e non certo insindacabile.

La politica, poi, per Bobbio è essenzialmente “lotta per il potere”, “dai Greci in poi”.

Lo Stato si regge sulla forza, sulla forza legittima, di cui detiene il monopolio, ma pur sempre forza.

La “virtù dei cittadini” Bobbio dice di non sapere manco cosa sia. Anzi per lui la maggior parte dei cittadini sono addirittura viziosi e niente affatto virtuosi.

“Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.”

A questo punto abbiamo abbastanza elementi per chiederci: è veramente “realista” la visione che ha Bobbio della politica e quella della natura umana che la sottende?

La mia risposta è: niente affatto! La visione della politica e della natura umana che ha Bobbio non è affatto realista, ma è una visione che possiamo definire nettamente e decisamente “pessimista”.

Bobbio, infatti, non descrive affatto la natura umana quale essa realmente è, ma quale egli ritiene che sia. Come d’altra parte è del tutto naturale, legittimo e, persino, ovvio che sia.

Il punto è che non può pretendere che tutti condividano il suo pensiero, che esso assurga cioè a pensiero assolutamente obiettivo e, quindi, universale.

So bene che per molti pensatori profondamente pessimisti sulla natura umana (come lo furono Machiavelli, Hobbes e, in parte, Weber; Bobbio intende inserirsi evidentemente in questo filone di pensiero) il loro pessimismo altro non era che realismo.

Ma io non condivido affatto questa equivalenza, come del resto non la condivisero molto illustri pensatori (Platone, Rousseau e, in fondo, lo stesso Marx, per citarne i maggiori).

Personalmente ritengo che nell’uomo convivano vizi e virtù. Che parlare di virtù non sia affatto retorico, ma che le virtù abbiano nella definizione complessiva della storia e dell’animo umano almeno lo stesso peso che hanno i vizi.

Anzi io, francamente, sono portato a pensare che le virtù abbiano addirittura un peso maggiore dei vizi, nonostante le apparenze contrarie, perché ritengo che, se a prevalere nella natura umana fossero i vizi, l’Umanità si sarebbe estinta già da tempo.

Ora, per carità, può anche darsi che ad un certo punto della storia e della evoluzione (a quel punto sarebbe meglio chiamarla “involuzione”) umana saranno i vizi a prevalere sulle virtù. Questo io non mi sento di escluderlo. Per tale motivo non mi iscrivo alla categoria dei pensatori ottimisti.

Ma al momento, valutate le zone oscure, quelle grigie e quelle luminose dell’animo e della storia dell’uomo, non mi sento di dire né che prevalgano i vizi, né che prevalgano le virtù. Questo per me è il vero “realismo”.

Per questo io mi definisco e penso di essere (nel mio piccolissimo e con tutto il rispetto per i grandissimi pensatori che ho fin qui citato, compreso Bobbio) un uomo di pensiero “realista”.

Mentre, a mio avviso, Bobbio non lo è, perché in lui prevale una visione della natura e della storia dell’uomo nettamente pessimista.

Per niente confortata dai dati della realtà (perlomeno non in maniera univoca e incontrovertibile), come vuole dare a intendere e come volevano dare a intendere gli “scrittori celeberrimi” da me citati più volte e ai quali Bobbio evidentemente si collega e si è ispirato nell’elaborare il suo pensiero.

Giovanni Lamagna

L’uomo è buono o è cattivo?

3 settembre 2018

In un’intervista rilasciata a “la Repubblica” del 30 agosto 2018 Massimo Cacciari afferma testualmente:

Pensare che l’uomo sia buono per natura è fare cattiva letteratura. Io credo, con Hobbes, Machiavelli, Spinoza, che l’uomo è di per sé cattivo: captivus in senso etimologico. Prigioniero della più forte delle passioni, l’egoismo. Ci vogliono grandi uomini politici, e politica in grande stile, per rassicurarlo.

Sono in forte dissenso con questa affermazione di Cacciari. E non perché io pensi l’opposto. E cioè che l’uomo sia in sé buono.

Ma perché penso che l’uomo, in quanto Umanità, non in quanto individuo (ma il discorso, in fondo, è applicabile anche all’individuo) non sia né fondamentalmente buono né fondamentalmente cattivo, ma che sia piuttosto un impasto, variamente miscelato, di “bontà” e di “cattiveria”.

In alcuni uomini (come Socrate, Gesù, Gandhi…) l’impasto vede il prevalere della bontà, in altri uomini (come Gengis Khan, Hitler, Stalin…) vede il prevalere della cattiveria.

Laddove per “bontà” intendiamo una prevalenza della tendenza verso l’altruismo. E per cattiveria una prevalenza della tendenza verso l’egoismo. Mai la sola presenza dell’uno o dell’altro.

D’altra parte, se la realtà umana non fosse più simile a come la vedo io che a come la vede Cacciari (e a come, prima di lui, l’avevano vista Hobbes, Machiavelli e Spinoza), neanche “grandi uomini politici, e politica in grande stile” basterebbero a domare l’uomo “di per sé cattivo”. Come, invece, auspica e ritiene possibile Cacciari.

E uomini politici anch’essi “cattivi”, per quanto grandi, non potrebbero mai essere capaci di condurre uomini fondamentalmente cattivi verso obiettivi buoni ed esiti positivi. Come, invece, auspica e ritiene possibile Cacciari.

Infine, se la realtà umana fosse veramente la giungla immaginata da Hobbes, nella quale ciascun uomo è lupo per l’altro uomo, come avrebbe potuto l’Umanità sopravvivere attraverso i milioni di anni di sua storia?

Non si sarebbe piuttosto, prima o poi, più prima che poi, estinta o, nel migliore dei casi, ridotta a pochissimi nuclei di belve umane disperate, disperse in varie e isolate radure del pianeta?

Io, se guardo la storia dell’Umanità, non sono portato certo all’ottimismo trionfalistico. Ma neanche al pessimismo totale e radicale. Vedo tante ombre tragiche, ma anche tante splendide luci.

Giovanni Lamagna