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Un breve commento allo spettacolo “Si nota all’imbrunire” di Lucia Calamaro.

Domenica scorsa ho visto al teatro Bellini di Napoli la commedia “Si nota all’imbrunire (solitudine da paese spopolato)” di Lucia Calamaro. Attore protagonista Silvio Orlando.

Il testo è molto lungo: lo spettacolo dura più di due ore. Ed è un po’ faticoso quindi seguirlo, anche perché attraversa più di un momento in cui la tensione narrativa cala.

Affronta però senza dubbio una problematica molto interessante: la solitudine esistenziale (l’autrice la chiama “solitudine sociale”), specie quella degli anziani, ma soprattutto (a mio avviso) la difficoltà di comunicazione tra gli esseri umani, spesso nevroticamente scissi tra due opposti: il bisogno (persino fisico) di contatto con gli altri e la paura, il fastidio, quasi la ripugnanza di essere invasi dagli altri, della rottura della propria privacy, dell’intralcio alle proprie abitudini e perfino manie.

Il testo racconta in maniera molto ricercata e dettagliata, ironica e allo stesso tempo triste e perfino amara, le dinamiche connesse al problema affrontato. Ma (più che troppo lungo) è troppo parlato.

Le dinamiche relazionali sono troppo descritte a parole, analizzate, quasi sminuzzate in lunghi discorsi, anziché mostrate, raffigurate, rappresentate scenicamente.

A mio avviso la commedia è troppo parlata e poco vissuta; avrebbe avuto bisogno di più silenzio e gestualità e meno battute, per comunicare meno idee e pensieri e più emozioni e sentimenti.

C’è, però, una situazione in cui questo avviene; la indico a mo’ di esempio: quando il protagonista deve spegnere la candelina della torta. Lì si ferma in silenzio – indeciso, insicuro, esitante – per un lungo momento sospeso, che dice più di cento parole.

Si esce, quindi, dal teatro con la sensazione di aver assistito ad un evento incompiuto. Che poteva essere, ma non è stato fino in fondo.

Gli attori sono bravi. Eccellente (come al solito) Silvio Orlando. Ma bravi anche gli altri, in particolare Roberto Nobile.

Giovanni Lamagna

Sul film “Youth” di Paolo Sorrentino.

Sul film “Youth” di Paolo Sorrentino.

“Sto sempre andando a casa… a casa di mio padre” (Novalis). E’ una delle battute pronunciate da uno dei personaggi del film “Youth” di Paolo Sorrentino.

Ed è, secondo me, una delle sue battute chiave, nel senso che sta a dire che la vita è un cammino, alla ricerca del “padre”, cioè del senso della vita.

Il film non mi è piaciuto granché , francamente; perché non è riuscito a trasmettermi grandi emozioni. E però non posso negare che sia un film di qualità, di livello.

E’ una sequela di immagini, di brevi (o mai troppo prolungate) conversazioni, più che una storia.

E’ ambientato, per la massima parte, in un lussuoso resort sulle Alpi svizzere, che è quasi una metafora del mondo, dell’umanità, che prova a rigenerarsi, a mettersi in salute, a farsi “nuovo/a”, a uscire dal suo torpore, dalla sua apatia, dalla sua freddezza emotiva, dalla sua incapacità di raccontarsi, di parlare, di comunicare (il personaggio principale, un vecchio direttore d’orchestra, impersonato da Michael Caine, viene definito e si autodefinisce “un apatico”).

I personaggi del film (tutti ospiti dell’albergo) sono (quasi tutti) ripiegati nel loro dolore e nella loro solitudine, prigionieri delle loro piccole manie ed abitudini, incapaci di entrare in contatto, di parlare tra di loro (esempio estremo quello della coppia anziana, che a tavola mangia senza scambiare una sola parola, in un silenzio quasi tombale).

Il primo tempo del film trascorre cupo, opaco, “nuvoloso”, come è spesso il cielo che copre l’albergo, perfino (volutamente?) noioso, come l’atmosfera umana che si respira tra gli ospiti dell’hotel.

Poi nel secondo tempo qualcosa si scioglie: la scena che, secondo me, segna la svolta (quasi una scossa di adrenalina) è quella della coppia anziana che, come tutte le sere, sta cenando (noiosamente e nell’incomunicabilità più totale) al suo solito tavolo, quando improvvisamente, prima che finisca la cena, la moglie si alza e assesta un violentissimo e sonoro ceffone all’impreparato e incredulo marito, che, dopo un attimo di impercettibile smarrimento, continua a restare seduto e a mangiare, imperturbabile, come se nulla fosse avvenuto.

Appena qualche sequenza dopo si vedono i due anziani impegnati in un amplesso di una energia e forza incredibili (data l’età dei protagonisti): lei in piedi, appoggiata ad un albero con le gambe allargate, lui che la monta con colpi di una violenza animalesca; e lei che grida come un’ossessa in preda allo spasmo selvaggio del piacere.

Seguono le seguenti altre scene, quelle che ricordo meglio, perché evidentemente mi hanno colpito di più.

La figlia del direttore d’orchestra ricopre il padre di insulti feroci, ricordandogli di essere stato un pessimo genitore, assente, lontano, tutto preso dal suo sogno di diventare un grande musicista, pari al suo modello ideale: Stravinsky.

La figlia, abbandonata dal marito che la lascia per un’altra (perché brava a letto), ritrova l’amore incontrando un istruttore alpino che la porta sulla schiena a fare una scalata.

Il vecchio direttore d’orchestra, sotto le mani sapienti di una giovane massaggiatrice, ritrova il contatto con il dolore e, quindi, anche con il piacere; la massaggiatrice non sa dire nulla con le parole (non avrebbe niente da dire), ma sa dire (e capire) molto con le mani.

I due vecchi amici (il direttore d’orchestra e un regista cinematografico, che sta girando un film, che vorrebbe essere il suo testamento spirituale) in piscina (nudi, come a dire privi di maschere) incontrano miss Universo (anche lei ospite dell’albergo in viaggio premio), che, a sua volta nuda, dopo una lunga e fantastica “passeggiata” lungo i bordi della piscina, si immerge nell’acqua di fronte a loro, provocazione e sogno allo stesso tempo, inno assoluto alla bellezza sfrontata e selvaggia, alla giovinezza nel pieno del suo prepotente sfolgorio.

Il vecchio direttore d’orchestra confessa alla figlia l’amore (mai estrinsecato in maniera così esplicita) per la moglie, vera (e unica) ragione della sua vita; e, in questo modo, ritrova anche il contatto e la comunicazione con la figlia (che, infatti, piange per la commozione e la gioia).

Ancora il direttore d’orchestra, seduto su una roccia, guarda estasiato il paesaggio (i prati verdi, le montagne, le mucche, gli uccelli…) e se ne lascia rapire; e allora ne dirige gli elementi (il cinguettio e l’aleggiare degli uccelli, il muggito delle mucche, il suono dei campanacci appesi al collo dei bovini…) facendoli diventare strumenti di un’orchestra.

Il monaco buddista finalmente, dopo tante ore trascorse in preghiera e in meditazione ad occhi chiusi, riesce a levitare.

Maradona, ancora grasso e imbolsito, lento e macchinoso nei movimenti, riesce finalmente a palleggiare (incredibile virtuosismo!) con una pallina di tennis.

La vecchia attrice (Jane Fonda) dice al vecchio regista (Harvey Keytel) che egli ha oramai esaurito la sua vena e che farebbe bene a prenderne atto e a rassegnarsi: per questo lei si rifiuterà di recitare nel suo film, vuole evitargli una brutta figura, che getterebbe un’ombra sulla sua gloriosa carriera.

E il vecchio regista ne prende atto, dolorosamente ma onestamente, entra evidentemente in contatto con se stesso, col suo mondo emotivo (le sue ultime parole: “Le emozioni sono la cosa più importante!”), e si getta giù dal balcone, rinunciando così alla sua ultima effimera ambizione, ma incontrando (forse) in quest’ultimo gesto, assieme alla sua disperazione, il suo vero se stesso.

Il vecchio direttore d’orchestra, invece, dopo aver trovato il coraggio (finalmente!) di confessare il suo amore per la moglie (malata e ricoverata a Venezia) si reca da lei e le porta (finalmente!) un mazzo di fiori come segno di (finalmente dichiarata!) riconoscenza.

Prima però è andato sulla tomba di Stravinsky, come a fare pace con il suo sogno fallito (diventare un vero musicista creativo, al livello di Stravinsky).

E così trova anche la forza e l’energia di tornare a dirigere un’orchestra (dopo che da anni aveva oramai smesso), addirittura alla presenza della regina d’Inghilterra, che è (come una bambina) innamorata della sua musica, delle sue “Simple Songs”.

Questo film per me non è né una storia sulla “giovinezza” (come lascerebbe supporre il suo titolo), né una storia sulla “vecchiaia” (come aveva scritto qualche giorno fa Eugenio Scalfari su “la Repubblica” e come lascerebbe immaginare l’età avanzata della maggior parte dei suoi personaggi; non di tutti, perché nel film ci sono anche personaggi molto giovani e, perfino, alcuni bambini).

Per me il film ha al centro il tema delle relazioni umane (quelle di amicizia e quelle di amore, in primo luogo, ma anche quelle casuali, legate a incontri brevi, perfino effimeri).

E’ un film sulla fatica di vivere, di dare un senso alla propria vita, di trovare la propria verità, la propria realizzazione e creatività, nelle forme più varie (dalla musica alla regia cinematografica, dall’alpinismo al calcio e, perfino, al concorso per miss Universo…), nelle forme più congeniali alla propria natura individuale, alle risorse, ai talenti che ognuno di noi si ritrova in tasca quando viene in questo mondo.

E’ un film sulla disperazione ma anche sulla gioia, sul dolore ma anche sul piacere, sulla incomunicabilità ma anche sull’amicizia e l’amore, sull’ipocrisia e la falsità ma anche sulla verità e la confessione di sé, sull’estro ma anche sulla routine e la noia, sulla vecchiaia ma anche sulla giovinezza e, perfino, sull’infanzia e l’adolescenza.

E’, insomma, un film sulla varietà della commedia umana, sui suoi aspetti di luce e sulle sue ombre.

Un film, a mio avviso, non riuscitissimo, ma da vedere.

Giovanni Lamagna