Archivi categoria: mistica
Il contemplativo e la sapienza.
Non c’è forse frase più bella per definire l’atteggiamento interiore del contemplativo che questa: “Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo.” (Luca 2; 19).
Il contemplativo è, infatti, uno che, in un certo momento della sua vita, ha ricevuto una rivelazione e la custodisce poi in cuor suo, come un tesoro, meditandoci sopra.
E da quella prima illuminazione (custodita, coltivata e meditata) ne sgorgano, ne zampillano poi, come da una sorgente continua, cento, mille altre, cui fanno seguito pensieri e parole di sapienza.
© Giovanni Lamagna
Amare il sacrificio o sacrificarsi per amore?
Non vedo nulla di eroico nel cosiddetto “amore per la croce”.
Ci vedo anzi – ad essere sincero – solo del masochismo.
Come non vedo – addirittura! – nulla di cristiano nel desiderio di farsi (fosse anche solo metaforicamente) crocifiggere.
Tanto è vero che Gesù – quando venne l’ora – manifestò chiaramente al Padre il desiderio che Egli allontanasse da lui il “calice di dolore” che vedeva approssimarsi.
Poi si rassegnò – è vero – al suo destino (“… non sia fatta la mia, ma la tua volontà”), ma non lo “amò” affatto; lo sopportò con spirito di abbandono (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”), ma non lo desiderò di certo.
Può essere eroico, invece, può arrivare ad essere eroico, l’amore.
Ma è (può giungere ad essere) eroico l’amore, non il desiderio del sacrificio in sé.
Valga un solo esempio: quello del giovane carabiniere casertano Salvo D’Acquisto, che sacrificò eroicamente la sua vita offrendola in cambio di quella di alcuni suoi concittadini, che i nazisti tedeschi avevano deciso di fucilare per rappresaglia.
In questo caso, però, fu l’amore generoso verso la sua comunità a portare Salvo D’Acquisto verso il sacrificio estremo; non certo il desiderio di morire; che in sé sarebbe stato pura necrofilia.
Dunque, imitiamo pure, prendiamo pure a modello la figura di Gesù Cristo!
Ma per la sua straordinaria testimonianza d’amore universale, che fu capace di giungere fino al sacrificio estremo, passando per la “notte oscura” del Getsemani.
Non per il suo “amor crucis”, che non trova alcun fondamento – anzi trova solo smentite – nei Vangeli che della sua vita ci hanno lasciato memoria.
© Giovanni Lamagna
L’amore per gli altri.
L’amore per gli altri è premio a sé stesso.
Non ha bisogno dell’attesa di ricompense o premi.
Non ha bisogno, quindi, di sperare nel Paradiso.
Che è pura illusione.
In questa falsa speranza sta l’aspetto più caduco del Cristianesimo.
Il nocciolo duro del messaggio cristiano sta nell’amore per gli altri.
Che ci salva dal narcisismo, dall’egocentrismo, dal triste e malsano ripiegamento su noi stessi.
E, quindi, è terapeutico.
Perciò basta a sé stesso; non ha bisogno di premi o ricompense in un aldilà ipotetico.
© Giovanni Lamagna
“E’ bene per voi che io me ne vada.”
Gesù ai suoi discepoli, poco prima di morire, disse: “E’ bene per voi che io me ne vada” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).
Ed aveva ragione; desiderando egli che i suoi discepoli diventassero persone finalmente e pienamente autonome da lui, capaci di incarnare perfettamente senza di lui lo spirito del suo insegnamento.
La perdita di una persona amata, infatti, scava in noi un vuoto, per riempire il quale siamo costretti a introiettarne le caratteristiche psicologiche, a ricostruire dentro di noi la sua presenza spirituale, in assenza di quella fisica.
© Giovanni Lamagna
Concentrazione.
Se sto bevendo il caffè, sto bevendo il caffè.
Se sto preparando il pranzo, sto preparando il pranzo.
Se sto leggendo un libro, sto leggendo quel libro.
Se sto conversando con una persona, sto conversando con quella persona.
Non posso fare più cose contemporaneamente.
E neanche farle col pensiero rivolto ad altro.
Farò male quello che sto facendo e penserò male quello a cui sto pensando.
Per farla bene, devo essere concentrato sulla cosa che sto facendo.
Quindi devo fare (e anche pensare) una sola cosa alla volta.
© Giovanni Lamagna
In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?
Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:
“In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.
La mia concezione è diversa.
Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.
Più di questo non posso desiderare!
Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.
Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.
Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.
Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.
Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.
Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.
Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.
Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.
Si tratta della totalità.
Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.
In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.
Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.
In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.
E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.
Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.
La cosa è del tutto irrilevante.
È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.
Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.
E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.
L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.
Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.
Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.
Perciò Dio da solo non basta.
C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.
Deus et homo.”
………………………………………………….
*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”
(…)
Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.
……………………………………………………….
In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.
Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.
Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.
1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.
Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.
Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.
2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.
In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.
3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.
Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.
4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.
Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.
5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.
Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.
Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.
© Giovanni Lamagna
Dare,donare,avere ed essere.
Ognuno può dare agli altri solo ciò che egli ha.
O, meglio, ciò che egli è.
Inutile illudersi di poter dare ciò che non si ha o non si è.
Quindi, prima ancora di dare, preoccupiamoci di sviluppare i talenti di cui Madre Natura ci ha dotati; piccoli o grandi, pochi o molti che siano.
Il dare, il donare verranno di conseguenza: saranno l’effetto naturale dell’avere e dell’essere.
Anzi, prima dell’essere e poi dell’avere.
© Giovanni Lamagna