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La storia di come sono venuto scoprendo nel tempo la mia vocazione nella vita: spero possa interessare a qualcuno.

Sono oramai alla tappa finale del mio cammino esistenziale.

Posso, quindi, chiedermi “dove mi ha condotto? per quali strade? dove volevo andare? cosa volevo realizzare? Qual era, insomma, la mia vocazione, il compito che mi attendeva, il mio daimon?”

E posso, quindi, dare a tali domande delle risposte sufficientemente precise, perché ora mi sono diventate molto chiare; certo, infinitamente più chiare di quando avevo 20 anni.

Quando ero adolescente (diciamo tra i 15 e i 25 anni: la mia adolescenza è stata molto lunga), cresciuto in un ambiente ultra-cattolico, sentivo che la mia vocazione aveva (e che, quindi, la mia vita doveva avere) una precisa, netta caratterizzazione religiosa.

Non ero attratto, però, dalla vocazione sacerdotale: anzi provavo addirittura una certa ripugnanza per la figura, l’immagine dei preti, coi loro abiti troppo marcati e fuori dal tempo moderno, chiusi nel territorio angusto delle loro parrocchie.

Io volevo vivere la mia religiosità senza essere riconosciuto da altro che dallo stile di vita: quindi niente abiti particolari né canoniche; volevo vestire normale, come tutti, ed abitare una casa normale, come quella di tutti.

Ero attratto, fortemente attratto dalla contemplazione, dal silenzio e dalla solitudine; ma allo stesso tempo volevo rimanere in mezzo agli uomini comuni, in mezzo alla folla, fare un lavoro normale, insomma non rinunciare all’azione.

La mia vocazione in quella fase era dunque soprattutto quella di mettere d’accordo contemplazione e azione, deserto e città, silenzio e rumori, solitudine e folla: all’epoca ero stato fortemente attratto prima dalla spiritualità dei Piccoli fratelli di Charles de Foucault e poi da quella dei Focolarini di Chiara Lubich e Pasquale Foresi.

Mi attirava inoltre la dimensione della piccola comunità, a misura di focolare, di “famiglia piccola Chiesa” (espressione coniata da Carlo Carretto).

Nella seconda parte della mia vita, quella di cui situerei l’inizio attorno ai 25 anni (quindi, purtroppo, molto tardi), ho fatto altre due scoperte importanti: la sessualità e la politica.

Non che prima non le conoscessi, ovviamente; solo che fino ad allora non le avevo praticate soddisfacentemente o concretamente.

La prima l’avevo praticata prevalentemente in solitudine e nella fantasia; la seconda non mi aveva ancora coinvolto appieno, la sentivo ancora lontana, se non proprio estranea, rispetto ai miei interessi centrali.

A partire dai 25 anni, ho capito bene che, invece, entrambe dovevano diventare due pratiche centrali della mia vita, assieme alla contemplazione e allo studio.

Allora, in maniera quasi naturale, mi sono allontanato dalla Chiesa; mi sono, quindi, progressivamente, sempre più sclericalizzato; ho perso la fede in un Dio “che sta nell’alto dei Cieli” (ammesso che l’avessi mai veramente avuta) e ne ho maturata una in un Dio che sta dappertutto, in ogni cosa, in un Dio che si identifica con la Natura e con l’Universo: un Dio-Tutto; il Dio di Spinoza, insomma!

È poi venuto il lavoro; e, quindi, mi è risultato chiaro che valeva anche per me l’antico motto “ora et labora”; assieme al sesso e alla politica, come ho già detto.

Attorno ai 35 anni si è aperta poi una terza fase: mi è diventata sempre più chiara non solo l’importanza ma la centralità del sesso nella mia vita.

Ho compreso ancora meglio che vita spirituale/contemplazione ed erotismo/sessualità non erano due dimensioni reciprocamente estranee, lontane l’una dall’altra, ma che potevano andare benissimo assieme, che potevano essere coltivate all’unisono, che anzi l’una poteva rafforzare l’altra.

Si sono quindi fuse in me due correnti che fino ad allora avevo sempre vissuto come separate: quella della meditazione e della contemplazione e quella della sessualità e dell’erotismo.

E così via, via che cresceva l’una cresceva anche l’altra, l’una rinforzava l’altra.

Nello stesso tempo cresceva anche il mio impegno politico, nella direzione di una visione allo stesso tempo radicale e riformista, rivoluzionaria ma nonviolenta.

Impegno che ha però sempre incontrato una difficoltà oggettiva a trovare una collocazione adeguata in qualcuno dei soggetti presenti sulla scena politica; per cui la mia appartenenza ad organizzazioni politiche esistenti è sempre stata abbastanza ai margini, mi verrebbe di dire che è sempre stata “con un piede dentro e l’altro fuori”.

E così la mia vita, a partire dai 35 anni soprattutto, ha camminato potrei dire su tre binari paralleli, che andavano, pur distinti ovviamente, nella stessa direzione fondamentale: 1) quello della mistica, della meditazione e della contemplazione; 2) quello della sessualità e dell’erotismo; 3) quello dell’impegno sociale, culturale, sindacale e politico.

A partire da questi anni (soprattutto dopo i 45 anni) la mia ricerca nel campo della sessualità e dell’erotismo è diventata sempre più audace e trasgressiva.

Ho capito sempre meglio l’ipocrisia, la debolezza, la fragilità di alcune istituzioni plurisecolari (quali il matrimonio) e di alcuni valori tradizionali (quali la cosiddetta “fedeltà in amore” e, quindi, la monogamia).

Ho assodato che il matrimonio mi stava e mi sta stretto e che avrei preferito vivere, se ne avessi incontrata una o fossi stato capace io di metterla su, in una Comune.

Nello stesso tempo si è radicalizzata sempre di più la mia visione politica, senza mai diventare però estremista o minoritaria; ho sempre cercato, infatti, di tenere presente la realtà e il modo di pensare e di essere delle persone comuni, di non allontanarmi troppo mentalmente da esse, andandomene per la tangente.

Come si è radicalizzata sempre di più la mia ricerca interiore, che non esito a definire mistica, senza per questo ritenermi né una persona strana né -meno che mai – un santone o un guru.

Per me, infatti, il mistico è una persona del tutto normale, uno che cerca sempre, instancabilmente, non uno che ha già trovato, uno che è sempre in cammino, non uno che è già arrivato, uno che si sforza di diventare perfetto (“Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”; Matteo 5-48), non uno che è già diventato perfetto e senza macchia (chi lo è? chi potrà esserlo mai?).

Infine, a partire dai 63 anni in poi ho scoperto in me una vocazione alla scrittura, che fino ad allora (forse anche perché ero molto impegnato nel lavoro e nella politica) non avevo mai praticato, se non sporadicamente.

La mia vita di oggi, quindi, è molto incentrata su questi due aspetti, impegni, interessi principali: 1) meditazione e contemplazione = vita interiore); 2) lettura e scrittura.

La politica e l’impegno sociale sono tornati ad essere di nuovo marginali; anche perché, nella situazione socio-politica attuale, non saprei dove concretamente praticarli: tutti i luoghi potenziali che ho conosciuto in passato e che conosco attualmente mi appaiono largamente insoddisfacenti e, quindi, per me praticamente infrequentabili.

In modo particolare la lettura e la scrittura sono diventate – posso dire – il mio nuovo “lavoro”; quello che mi impegna quotidianamente, quasi dal mattino alla sera, e che ha sostituito l’insegnamento, che ho svolto per 31 lunghi anni, dal 1974 al 2005.

Questo è lo stadio in cui mi trovo attualmente.

Che dirne in conclusione?

Tutto sommato sono abbastanza soddisfatto del cammino che ho finora compiuto.

Certo non mi mancano le insoddisfazioni e le frustrazioni, come anche i rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato; credo, tuttavia, che questi siano fisiologici in un uomo della mia età.

Soprattutto posso dire che insoddisfazioni, frustrazioni e rimpianti non oscurano (lo appannano appena un po’) il senso di sostanziale soddisfazione che provo: (quasi) al termine della mia corsa posso, infatti, dire in tutta coscienza di avercela messa tutta e che di più (forse) non potevo fare.

© Giovanni Lamagna

Il principale compito dell’uomo.

Penso che il compito più importante per ogni uomo, per ciascuno di noi, sia quello di passare da uno stato di sostanziale incoscienza ad uno stato di sempre maggiore coscienza.

In fondo che cos’è l’età evolutiva, ovverossia il percorso che dall’infanzia ci conduce alla fanciullezza e poi, attraverso l’adolescenza, alla giovinezza e infine all’età adulta, se non un graduale passaggio da uno stato di sostanziale incoscienza ad uno stato di coscienza matura?

Il problema è che per la maggior parte degli uomini questo percorso evolutivo si arresta ad un certo punto, quando si raggiunge la cosiddetta “età adulta”, in buona sostanza quando si finiscono le scuole o (per chi ci arriva) l’Università.

Come se esso consistesse semplicemente o principalmente in un percorso conoscitivo, cioè di acquisizione di conoscenze che ci vengono dall’esterno.

Mentre esso dovrebbe essere in primo luogo e fondamentalmente un percorso di crescita nella consapevolezza di sé.

Percorso che indubbiamente ha bisogno anche della conoscenza, cioè dell’apprendimento di nozioni esterne, il cosiddetto patrimonio culturale che l’Umanità ha acquisito fino al momento in cui siamo venuti al mondo.

Ma ancora di più abbisogna di “virtute”, della capacità di accompagnare la conoscenza alla virtù, cioè al saper vivere.

Come giustamente ci ha insegnato il nostro padre Dante: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” (“Divina commedia”, Inferno; XXVI, vv.119-120).

E cos’è la virtù se non la capacità di discernere il bene dal male, ovverossia il corretto vivere, il “buen vivir”; una sempre maggiore consapevolezza (e non solo conoscenza), una sempre maggiore capacità di vigilanza, di essere presenti a sé stessi?

Dicevo prima che solitamente questo percorso di crescita nella conoscenza e nella consapevolezza per la maggior parte degli uomini si conclude, nella migliore delle ipotesi, alle soglie della maturità, quando finisce la loro giovinezza.

Mentre, invece, dovrebbe continuare all’infinito; o, meglio, fino all’ultimo giorno della nostra vita.

Cosa che solo in pochi, in genere, comprendono e – ancora di meno – si impegnano a fare.

Lo fanno i filosofi (e neanche tutti i filosofi accademici, ma solo i filosofi che amano davvero la sapienza, che sanno cioè unire, intrecciare, vita e conoscenza), lo fanno gli artisti (perlomeno alcuni artisti, almeno in alcuni momenti della loro vita), lo fanno soprattutto e più di tutti i mistici.

Lo fanno, infine, coloro che vanno in analisi e, quando, hanno finito l’analisi continuano con l’autoanalisi, che per sua natura (come diceva Freud) è “interminabile”; e che, quindi, a mio avviso, un poco mistici sono anche loro.

Cos’è, infatti, il percorso mistico se non un percorso che porta sempre più luce dove prima c’era l’ombra, che rende l’inconscio sempre più conscio (qui la lezione di Jung è fondamentale), che da uno stato di sonno o di dormiveglia ci porta sempre più in uno stato di veglia e di vigilanza piena?

Poca importanza poi ha per me il fatto che il mistico abbia fede o no in una realtà metafisica, trascendente, che nella Storia ha assunto il nome di Dio.

Ci sono, infatti, credenti in Dio che non sono per nulla mistici, che non sanno manco lontanamente cosa sia la mistica, che non ne hanno nessuna esperienza diretta e personale.

E ci sono, invece, agnostici e persino atei che sono profondamente mistici, perché alla continua ricerca del contatto col mistero che è dentro di loro e fuori di loro, nel mondo che li circonda.

Einstein, ad esempio, era uno di questi.

E, infatti, ebbe a dire una volta in un discorso tenuto a Berlino e diventato famoso:

“L’esperienza più bella e profonda che un uomo possa avere è il senso del mistero: che è il principio sottostante alla religiosità così come a tutti i tentativi seri nell’arte e nella scienza.

Chi non ha mai avuto questa esperienza mi sembra che sia, se non morto, almeno cieco.

È sentire che dietro qualsiasi cosa che può essere sperimentata c’è qualcosa che la nostra mente non può cogliere del tutto e la cui bellezza e sublimità ci raggiunge solo indirettamente, come un debole riflesso.

Questa è la religiosità, in questo senso sono religioso.”

Ecco allora qual è, a mio avviso, il compito più importante che è davanti all’uomo, che aspetta di essere da lui realizzato!

Entrare sempre più in contatto con il mistero della vita e coglierne qualche sia pur piccolo frammento.

Questo compito non poteva essere espresso meglio da come lo ha descritto Einstein; io sottoscrivo le sue parole una ad una.

© Giovanni Lamagna

Il contemplativo e la sapienza.

Non c’è forse frase più bella per definire l’atteggiamento interiore del contemplativo che questa: “Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo.” (Luca 2; 19).

Il contemplativo è, infatti, uno che, in un certo momento della sua vita, ha ricevuto una rivelazione e la custodisce poi in cuor suo, come un tesoro, meditandoci sopra.

E da quella prima illuminazione (custodita, coltivata e meditata) ne sgorgano, ne zampillano poi, come da una sorgente continua, cento, mille altre, cui fanno seguito pensieri e parole di sapienza.

© Giovanni Lamagna

Amare il sacrificio o sacrificarsi per amore?

Non vedo nulla di eroico nel cosiddetto “amore per la croce”.

Ci vedo anzi – ad essere sincero – solo del masochismo.

Come non vedo – addirittura! – nulla di cristiano nel desiderio di farsi (fosse anche solo metaforicamente) crocifiggere.

Tanto è vero che Gesù – quando venne l’ora – manifestò chiaramente al Padre il desiderio che Egli allontanasse da lui il “calice di dolore” che vedeva approssimarsi.

Poi si rassegnò – è vero – al suo destino (“… non sia fatta la mia, ma la tua volontà”), ma non lo “amò” affatto; lo sopportò con spirito di abbandono (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”), ma non lo desiderò di certo.

Può essere eroico, invece, può arrivare ad essere eroico, l’amore.

Ma è (può giungere ad essere) eroico l’amore, non il desiderio del sacrificio in sé.

Valga un solo esempio: quello del giovane carabiniere casertano Salvo D’Acquisto, che sacrificò eroicamente la sua vita offrendola in cambio di quella di alcuni suoi concittadini, che i nazisti tedeschi avevano deciso di fucilare per rappresaglia.

In questo caso, però, fu l’amore generoso verso la sua comunità a portare Salvo D’Acquisto verso il sacrificio estremo; non certo il desiderio di morire; che in sé sarebbe stato pura necrofilia.

Dunque, imitiamo pure, prendiamo pure a modello la figura di Gesù Cristo!

Ma per la sua straordinaria testimonianza d’amore universale, che fu capace di giungere fino al sacrificio estremo, passando per la “notte oscura” del Getsemani.

Non per il suo “amor crucis”, che non trova alcun fondamento – anzi trova solo smentite – nei Vangeli che della sua vita ci hanno lasciato memoria.

© Giovanni Lamagna

Pensare e contemplare.

Si pensa un’idea, un concetto astratto, un numero, una figura geometrica…

Si contempla il volto o il corpo di una persona, un paesaggio, la natura, un’opera d’arte…

Il pensiero ha a che fare soprattutto col ragionamento; è un’operazione tutta mentale.

Il contemplare è un atto essenzialmente del guardare (reale o metaforico); si associa spesso alla meraviglia, allo stupore.

© Giovanni Lamagna

L’amore per gli altri.

L’amore per gli altri è premio a sé stesso.

Non ha bisogno dell’attesa di ricompense o premi.

Non ha bisogno, quindi, di sperare nel Paradiso.

Che è pura illusione.

In questa falsa speranza sta l’aspetto più caduco del Cristianesimo.

Il nocciolo duro del messaggio cristiano sta nell’amore per gli altri.

Che ci salva dal narcisismo, dall’egocentrismo, dal triste e malsano ripiegamento su noi stessi.

E, quindi, è terapeutico.

Perciò basta a sé stesso; non ha bisogno di premi o ricompense in un aldilà ipotetico.

© Giovanni Lamagna

“E’ bene per voi che io me ne vada.”

Gesù ai suoi discepoli, poco prima di morire, disse: “E’ bene per voi che io me ne vada” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).

Ed aveva ragione; desiderando egli che i suoi discepoli diventassero persone finalmente e pienamente autonome da lui, capaci di incarnare perfettamente senza di lui lo spirito del suo insegnamento.

La perdita di una persona amata, infatti, scava in noi un vuoto, per riempire il quale siamo costretti a introiettarne le caratteristiche psicologiche, a ricostruire dentro di noi la sua presenza spirituale, in assenza di quella fisica.

© Giovanni Lamagna

Concentrazione.

Se sto bevendo il caffè, sto bevendo il caffè.

Se sto preparando il pranzo, sto preparando il pranzo.

Se sto leggendo un libro, sto leggendo quel libro.

Se sto conversando con una persona, sto conversando con quella persona.

Non posso fare più cose contemporaneamente.

E neanche farle col pensiero rivolto ad altro.

Farò male quello che sto facendo e penserò male quello a cui sto pensando.

Per farla bene, devo essere concentrato sulla cosa che sto facendo.

Quindi devo fare (e anche pensare) una sola cosa alla volta.

© Giovanni Lamagna

In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

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*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

……………………………………………………….

In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

Dare,donare,avere ed essere.

Ognuno può dare agli altri solo ciò che egli ha.

O, meglio, ciò che egli è.

Inutile illudersi di poter dare ciò che non si ha o non si è.

Quindi, prima ancora di dare, preoccupiamoci di sviluppare i talenti di cui Madre Natura ci ha dotati; piccoli o grandi, pochi o molti che siano.

Il dare, il donare verranno di conseguenza: saranno l’effetto naturale dell’avere e dell’essere.

Anzi, prima dell’essere e poi dell’avere.

© Giovanni Lamagna