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Bene e Male, pulsione di vita e pulsione di morte.

Ho la sensazione forte che i pensatori che nel corso della Storia hanno evidenziato soprattutto il lato negativo, quello cattivo, quello distruttivo, violento, dell’animo umano (penso in primo luogo a Machiavelli, ad Hobbes, a Nietzsche e, infine, a Freud, per fare solo alcuni nomi del pensiero moderno e contemporaneo; ma ce ne furono anche nell’antichità), anteponendolo a quello positivo, basato sui sentimenti della bontà, della compassione della solidarietà umana e dell’amore fraterno, lo abbiano fatto per una sorta di narcisistico e snobistico crogiolarsi, di realismo più realista del Re, più che di effettivo  e spietato realismo (come essi hanno voluto dare a intendere), se non addirittura mossi (mi viene il sospetto) da un’inconscia e consolatoria volontà di autogiustificare, in qualche modo, le proprie debolezze umane.

Come a dire: siamo tutti cattivi, ma lo siamo perché così è fatta strutturalmente, geneticamente, la natura umana; quindi nessuno è soggettivamente cattivo, per una qualche sua scelta e, quindi, responsabilità personale.

Per carità, con questo non voglio sostenere la tesi opposta a quella di tanto cotanto senno e, cioè, che nel mondo siano assenti il male e la cattiveria, la perfidia e l’odio, la competizione violenta, che porta a guerre e distruzioni, persino a carneficine.

Sono ben consapevole che il mondo e l’Umanità sono malati, che hanno vizi gravissimi e profondi, che ne minano la salute spirituale e producono danni incalcolabili alla civile convivenza.

Pensiamo solo a quello di cui è stato capace il regime nazista, con la complicità più o meno consapevole di buona parte del popolo tedesco, in pieno XX secolo, inventando le camere a gas e provocando la morte di milioni di esseri umani, che avevano avuto la sorte di nascere Ebrei o zingari od omosessuali.

E pur tuttavia sono convinto che, assieme a tanto male e a tanta crudeltà, nell’Umanità siano presenti anche tanto bene e tanta generosità, che vizi enormi, in alcuni casi persino mostruosi, si mescolino ad altrettanto enormi virtù, persino eroiche.

Bene, generosità, virtù, che si manifestarono addirittura in molteplici momenti e situazioni nel corso della stessa vicenda orrenda dell’Olocausto.

Sono convinto in altre parole che non sia possibile affermare con assoluta risolutezza, come fa, ad esempio, l’ultimo Freud, che la pulsione di morte addirittura preceda filogeneticamente la pulsione di vita e che, sia nella vita individuale di ciascuno di noi che sui lunghi tempi della Storia, sarà la prima a prevalere fatalmente sulla seconda.

Penso, invece, che nel mondo, come del resto nel cuore di ogni singolo uomo, si combatta una battaglia continua ed infinita tra queste due pulsioni, tra Eros e Thanatos, il cui esito è sempre incerto, altalenante: in alcuni momenti e in alcuni individui vince la prima, in altri prevale la seconda.

Affermare come hanno fatto gli illustri pensatori di cui sopra che, invece, a prevalere è sempre e senza alcun dubbio il male contro il bene, la morte contro la vita, non fa che contribuire all’avveramento di quella che si presenta come una profezia, più che come una ricostruzione storico/antropologica.

Chi dice che il male è prevalente, anzi domina, nel cuore dell’uomo, a mio avviso, non fa che avallare (e, in un certo senso, persino fomentare) questo male, dando argomenti a chi con il male è schierato, infondendo scoramento, producendo rassegnazione, distruggendo la speranza, incoraggiando quindi, al di là delle sue (a volte pur nobili) intenzioni, il male e contribuendo così, indirettamente ma di fatto, al suo perdurare, se non al suo prevalere, nella storia del mondo.

© Giovanni Lamagna

Le passioni sono il motore della vita

Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia” afferma “… le passioni non soltanto fanno da piloti per il porto della saggezza, ma si trovano anche in tutte le azioni secondo virtù, come degli sproni stimolanti a fare il bene”.

Io aggiungo: come non esistono azioni virtuose che non siano mosse da passioni, così non esistono vizi che non siano mossi da passioni.

Esistono, dunque, passioni buone che conducono alla virtù e passioni cattive che conducono al vizio.

Ma in ogni caso le azioni degli uomini sono mosse dalle passioni.

L’ideale stoico e buddhista di rinuncia alle passioni, superandole ed annullandole dentro di sé, è, dunque, non solo vano, perché fuori della realtà, ma anche (oserei dire) insano, ingiusto, sbagliato.

Le passioni sono il motore della vita: una vita senza passioni è morta anzitempo.

© Giovanni Lamagna

Ideali, vizi, virtù, realismo, pessimismo, ottimismo in politica.

Norberto Bobbio, in un sapido e piacevole libretto del 2001, intitolato “Dialogo intorno alla repubblica”, frutto di una serie di colloqui avuti con lo storico del pensiero politico Maurizio Viroli (tra pag. 8 e pag. 9) così scrive:

“… In politica sono un realista… La politica, sia quella monarchica, sia quella repubblicana, è lotta per il potere.

Parlare di ideali, così come ne parli tu, per me significa fare un discorso retorico. Anche quando i tuoi scrittori celeberrimi parlavano di repubblica, in realtà quello che di fatto succedeva nel mondo, era la politica com’è sempre stata dai Greci in poi.

La politica come lotta per il potere la capisco, se parli invece della politica che ha per fine la repubblica basata sulla virtù dei cittadini, io mi domando cos’è questa virtù dei cittadini.

Spiegami dov’è uno Stato che si regga sulla virtù dei cittadini, uno Stato che non ricorra alla forza!

La definizione dello Stato che ricorre continuamente è quella secondo cui lo Stato è il detentore del monopolio della forza legittima, forza necessaria perché la maggior parte dei cittadini non è virtuosa, ma viziosa.

Ecco perché lo Stato ha bisogno della forza, questa è la mia concezione della politica.

E’ una categoria della politica diversa da quella che ritiene di poter parlare di Stati fondati sulla virtù dei cittadini.

Ti ho detto, la virtù era l’ideale giacobino.

La ragione per cui ci sono gli Stati, repubbliche comprese, è quella di tenere a freno i cittadini viziosi, che sono la maggio r parte.

Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.”

E’ una delle poche volte, forse addirittura la prima, in cui mi trovo in forte, anzi in radicale dissenso col grande filosofo (del diritto e della politica) torinese.

Il dissenso comincia subito, già rispetto alla prima affermazione di Bobbio, quando egli dice “in politica sono un realista”.

Perché a me non pare affatto che Bobbio sia un pensatore “realista”: è, piuttosto, un pensatore “pessimista”, che cerca di far passare per realismo il suo pessimismo; come fecero già, prima di lui, fior di pensatori, quali Machiavelli, Hobbes e, tutto sommato, anche Weber (per fare solo tre nomi).

Definirsi “realisti”, infatti, per me significa vedere le cose come sono, per quello che sono, senza edulcorarle, cioè senza addolcirle secondo i nostri gusti, secondo quello che ci piacerebbe che fosse e, invece, non è.

Ma significa anche non vederle più nere, più negative di quelle che sono, come fa, ad esempio, l’ipocondriaco, il quale si dà già per morto, appena avverte il minimo sintomo o solo perché ha qualche problema di salute

Ora Bobbio è veramente “realista” nel senso che ho detto sopra?

Certo, lui è convinto di esserlo. E’ convinto, cioè, che la natura umana sia fatta in un certo modo e che, per conseguenza, la politica (attività e dimensione umana per eccellenza), sia fatta in un certo modo.

Ma come intende Bobbio la natura umana e come intende, per conseguenza, la politica? E soprattutto la natura umana e la politica sono davvero come le intende Bobbio, per cui egli avrebbe descritto la realtà effettiva degli uomini e della politica?

Perché è su questo che potremo verificare se il “realismo” di Bobbio sia vero realismo o altro. Provo, allora, ad articolare il ragionamento.

Innanzitutto per Bobbio “parlare di ideali… significa fare un discorso retorico”. Il che significa che per Bobbio gli ideali hanno ben poco peso, se non addirittura un peso nullo. Prima affermazione quantomeno opinabile e non certo insindacabile.

La politica, poi, per Bobbio è essenzialmente “lotta per il potere”, “dai Greci in poi”.

Lo Stato si regge sulla forza, sulla forza legittima, di cui detiene il monopolio, ma pur sempre forza.

La “virtù dei cittadini” Bobbio dice di non sapere manco cosa sia. Anzi per lui la maggior parte dei cittadini sono addirittura viziosi e niente affatto virtuosi.

“Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.”

A questo punto abbiamo abbastanza elementi per chiederci: è veramente “realista” la visione che ha Bobbio della politica e quella della natura umana che la sottende?

La mia risposta è: niente affatto! La visione della politica e della natura umana che ha Bobbio non è affatto realista, ma è una visione che possiamo definire nettamente e decisamente “pessimista”.

Bobbio, infatti, non descrive affatto la natura umana quale essa realmente è, ma quale egli ritiene che sia. Come d’altra parte è del tutto naturale, legittimo e, persino, ovvio che sia.

Il punto è che non può pretendere che tutti condividano il suo pensiero, che esso assurga cioè a pensiero assolutamente obiettivo e, quindi, universale.

So bene che per molti pensatori profondamente pessimisti sulla natura umana (come lo furono Machiavelli, Hobbes e, in parte, Weber; Bobbio intende inserirsi evidentemente in questo filone di pensiero) il loro pessimismo altro non era che realismo.

Ma io non condivido affatto questa equivalenza, come del resto non la condivisero molto illustri pensatori (Platone, Rousseau e, in fondo, lo stesso Marx, per citarne i maggiori).

Personalmente ritengo che nell’uomo convivano vizi e virtù. Che parlare di virtù non sia affatto retorico, ma che le virtù abbiano nella definizione complessiva della storia e dell’animo umano almeno lo stesso peso che hanno i vizi.

Anzi io, francamente, sono portato a pensare che le virtù abbiano addirittura un peso maggiore dei vizi, nonostante le apparenze contrarie, perché ritengo che, se a prevalere nella natura umana fossero i vizi, l’Umanità si sarebbe estinta già da tempo.

Ora, per carità, può anche darsi che ad un certo punto della storia e della evoluzione (a quel punto sarebbe meglio chiamarla “involuzione”) umana saranno i vizi a prevalere sulle virtù. Questo io non mi sento di escluderlo. Per tale motivo non mi iscrivo alla categoria dei pensatori ottimisti.

Ma al momento, valutate le zone oscure, quelle grigie e quelle luminose dell’animo e della storia dell’uomo, non mi sento di dire né che prevalgano i vizi, né che prevalgano le virtù. Questo per me è il vero “realismo”.

Per questo io mi definisco e penso di essere (nel mio piccolissimo e con tutto il rispetto per i grandissimi pensatori che ho fin qui citato, compreso Bobbio) un uomo di pensiero “realista”.

Mentre, a mio avviso, Bobbio non lo è, perché in lui prevale una visione della natura e della storia dell’uomo nettamente pessimista.

Per niente confortata dai dati della realtà (perlomeno non in maniera univoca e incontrovertibile), come vuole dare a intendere e come volevano dare a intendere gli “scrittori celeberrimi” da me citati più volte e ai quali Bobbio evidentemente si collega e si è ispirato nell’elaborare il suo pensiero.

Giovanni Lamagna

La classe media è la peggiore delle classi sociali.

La classe media è, dal punto di vista morale, la peggiore delle classi sociali.

Quella che somma i vizi della classe superiore a quelli della classe inferiore: la gelosia per ciò che possiede nei confronti della classe inferiore; e l’invidia per ciò che non possiede nei confronti della classe superiore.

Giovanni Lamagna