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Rapporto genitori/figli.

Nessuno di noi nasce ovviamente dal nulla, ciascuno di noi nasce da (è figlio di) due genitori.

Di cui – in un certo senso – è, dunque, la copia, la replica.

È quindi la copia, la replica di un Altro.

Allo stesso tempo ognuno di noi è però Altro rispetto ai suoi genitori, è il Nuovo, il diverso che nasce.

La copia, la replica, infatti, non sono mai fedeli, ma sempre in qualche misura infedeli e, quindi, per certi aspetti almeno, originali.

Il rapporto figli/genitori si gioca, dunque, tutto su questa contraddizione-paradosso: continuità/discontinuità, medesimo/diverso, fedeltà/infedeltà, interezza/rottura.

© Giovanni Lamagna

Può un corpo apparirmi nel tempo sempre nuovo?

Il corpo di cui conosco a memoria la geografia, le insenature, i rilievi, le profondità, la consistenza, è reso sempre nuovo dall’onda inarrestabile del tempo.” (Massimo Recalcati; “Mantieni il bacio”; Feltrinelli 2019; pag. 120-121)

Sono d’accordo e, allo stesso tempo, non sono d’accordo con questa affermazione.

Sono d’accordo, perché effettivamente quello che dice Recalcati può succedere, non è impossibile, è nell’ordine delle possibilità, anche se, a dire il vero, non è molto frequente.

Il trascorrere del tempo non è fatale, non è destino che renda obsoleto (e quindi non più desiderabile) lo “stesso”, oggetto del mio desiderio; anche – perfino – lo stesso corpo della persona che frequento da anni e che conosco oramai come le mie tasche.

Non sono d’accordo, perché Recalcati in questa sua affermazione utilizza un verbo (“è reso”) al modo indicativo, come se questa esperienza fosse la norma, rientrasse cioè nell’ordine normale e naturale delle cose.

E non fosse solo una possibilità (come, invece, la considero io), quindi niente affatto scontata, anzi – a dire il vero – il più delle volte, come succede nella maggior parte dei rapporti, irrealizzata e, quindi, non verificata.

Non sono d’accordo, inoltre, anche per un altro motivo.

Perché non è il tempo in sé che rende sempre nuovo il corpo dell’altro che amo.

Innanzitutto, per il fatto – persino banale – che il tempo rende oggettivamente più vecchio il corpo dell’altro (altro che nuovo!) e pertanto lo fa meno attraente ai miei occhi.

E, in secondo luogo, perché il tempo di per sé tende a produrre un fenomeno di assuefazione e quindi di appassimento del mio desiderio per quel corpo.

È solo la mia volontà, la mia “buona disposizione” d’animo, il mio voler tener viva la relazione, che mi permette di vedere sempre nuovo il corpo dell’altro, nonostante il trascorrere inesorabile del tempo lo renda sempre più vecchio.

E lo è ancor più, a dire il vero, la capacità dell’altro di rendersi sempre nuovo ai miei occhi nonostante rimanga sempre sé stesso.

È la disposizione dell’altro a rendersi seduttivo in forme sempre rinnovate (una qualità che è della psiche – dell’anima, direbbe Hillman – e non del corpo) che mi fa (può farmi) apparire sempre nuovo il suo corpo.

Niente di scontato, quindi, e meno che mai di spontaneo e naturale!

L’amore, persino il desiderio, possono durare nel tempo; non sono destinati fatalmente ad appassire, come molti (forse i più) ritengono.

Però, perché questo si verifichi è necessario un impegno reciproco delle due persone che si sono incontrate un giorno e che sono state attratte l’una verso l’altra.

L’impegno di ciascuna di loro – direi una “cura”, per usare una bellissima parola che ricorre in una famosa canzone di Battiato – a rendersi ogni giorno nuova agli occhi dell’altra, in modo da rendere possibile ogni giorno l’incanto, la magia della scoperta.

Del “nuovo” nello “stesso”.

© Giovanni Lamagna

Il nuovo, lo stesso, il diverso.

Sono pienamente d’accordo con Recalcati quando afferma che “il nuovo” e “lo stesso” non sono per forza di cose due concetti opposti, che debbano stare in antitesi.

Come, d’altra parte, “il nuovo” e “il diverso” non sono necessariamente sinonimi, non è scontato che vadano naturalmente e automaticamente sempre d’accordo.

Si può, infatti, trovare del “nuovo” nello “stesso”.

Mentre non è detto che si trovi sempre e davvero del “nuovo” nel “diverso”.

Fatta questa premessa, possiamo dire che è del tutto legittimo cercare le novità nella propria vita: questo fa parte del naturale, fisiologico bisogno di cambiare periodicamente pelle e dell’altrettanto naturale desiderio di arricchirsi umanamente, di crescere, di evolvere, di non restare fermi allo stesso palo per tutta la vita.

Cosa particolarmente vera, giusta, legittima, nelle relazioni, specie in quelle di coppia.

Non bisogna, però, cadere nell’illusione ingannevole che la novità la si trovi semplicemente cercando il nuovo; ad esempio, un nuovo partner.

Perché ci potremmo molto facilmente ritrovare con un partner nuovo molto simile, nelle sue caratteristiche psicologiche e, persino, in quelle fisiche, al partner vecchio, dal quale ci siamo separati per andare a vivere col nuovo.

Molto meno ingannevole e illusorio potrebbe essere il ricercare la novità, anzi le novità, all’interno dello stesso rapporto, anche se questo magari dura da anni.

La cosa è indubbiamente più faticosa e impegnativa per entrambi i partner di una relazione, ma molto meno a rischio di andare incontro a un (nuovo) fallimento.

Anche se, ovviamente, richiede una disponibilità continua, permanente, costante, alla ricerca, al rinnovamento e al cambiamento.

Richiede in altre parole che entrambi i partner siano persone evolutive, in cammino, disposte a rischiare, a mettersi in continua discussione; e non statiche, ferme, poltronare (oggi si direbbe “divaniste”), piccolo-borghesi, benpensanti, in cerca (solo) di rassicurazioni e conferme l’uno dall’altro.

© Giovanni Lamagna

Sterilità.

C’è una sterilità che non è di natura fisica, biologica, ma è psichica, spirituale.

È l’incapacità di aprirsi all’Altro dentro di sé.

E, quindi, al nuovo, all’ignoto, all’imprevedibile.

È l’incapacità di uscire dal guscio protettivo e rassicurante del proprio Ego.

Incapacità che si traduce in narcisismo ed egocentrismo.

Il narcisista-egocentrico non può dare frutti; è psicologicamente sterile.

© Giovanni Lamagna

Ci sono persone che hanno trovato e altre che non hanno manco cercato.

Ci sono persone (purtroppo, poche!) che hanno trovato (perché l’hanno cercato) dentro di sé un luogo, una sorgente, dalla quale zampilla continuamente il nuovo, l’originale, il mai visto prima.

Sono persone non necessariamente geniali, ma creative.

Ce ne sono poi altre (purtroppo, la maggioranza! almeno ad oggi) che questo luogo non l’hanno mai cercato e, quindi, non l’hanno mai trovato.

Sono le persone che vivono dell’heideggeriano “così si dice” e “così fan tutti”.

Che si accontentano del solito, del già noto, del déjà vu, della routine.

Che, quindi, non sanno manco cosa sia o dove stia di casa la creatività.

© Giovanni Lamagna

Abitudini e regole.

Per me è giusto e utile avere delle abitudini e delle regole.

Perché esse ci fanno economizzare energie, soprattutto intellettuali.

Ma non è giusto né utile diventare loro schiavo.

E rimanere elastici, flessibili, nel tener fede alle proprie abitudini.

Per non diventare automi ed essere aperti al nuovo e all’imprevisto, che la vita periodicamente ci offre, ci propone.

© Giovanni Lamagna

I vantaggi dell’ignoranza.

Ci sono solo due vantaggi nell’essere ignoranti: l’ignoranza ci può e dovrebbe spingere 1) ad essere umili e prudenti quando ci vengono richiesti o vorremmo emettere giudizi su cose, avvenimenti o persone; 2) ad essere sempre aperti al nuovo, a sfruttare ogni occasione e momento per acquisire nuove conoscenze.

© Giovanni Lamagna

I figli possono diventare talvolta il nostro Super-ego.

Nella teoria classica freudiana con il termine di “Super-ego” si intendono quei “comandamenti”, fatti in genere di censure e divieti morali, che abbiamo introiettato soprattutto quando eravamo bambini, in modo particolare dai nostri genitori, ma anche da tutte quelle figure e situazioni (reali o simboliche) che hanno inciso fortemente nella nostra educazione emotiva ed intellettuale, nella nostra formazione umana generale.

Quando diventiamo adulti e generiamo dei figli, accade però, talvolta, che sono questi, con i loro giudizi, più o meno espliciti o impliciti, più o meno manifesti o mascherati, che assumono il ruolo di nostro Super-ego, dandogli un nuovo volto e vesti nuove.

Questo succede quando, con l’età e con l’esperienza maturata, vorremmo assumere comportamenti diversi da quelli che abbiamo avuto fino ad allora, dare un orientamento esistenziale nuovo, in certi casi addirittura una svolta radicale, alla nostra vita, perché non siamo più soddisfatti di quella precedente o perché non la consideriamo più consona, adeguata ai nuovi scenari che abbiamo davanti.

Allora in questo caso i nostri figli, anche quando sono già adulti e magari hanno a loro volta dei figli (i nostri nipoti), si sentono psicologicamente minacciati, quasi traditi, da questi nostri tentativi, che mettono (metterebbero) in crisi i territori sui quali essi sono cresciuti, sui quali li abbiamo allevati ed hanno maturato le loro “certezze” di vita; e perciò ce ne fanno sentire in colpa; a volte maledettamente in colpa.

E allora i nostri movimenti in direzione del nuovo, di nuovi modelli esistenziali e scelte di vita, diventano incerti, maldestri, non solo perché si muovono su territori per noi in parte o del tutto sconosciuti, ma anche perché i nostri figli, coi loro comportamenti, perfino coi loro discorsi, a volte anche solo coi loro sguardi, ci richiamano all’ordine e ci spingono a non abbandonare la via vecchia per la nuova.

Incertezze personali, già presenti in noi (e del tutto naturali quando si imboccano strade nuove e ancora sconosciute), e sensi di colpa indotti da altri (in questo caso parlo soprattutto dei nostri figli), in maniera più o meno palese ed esplicita, più o meno strisciante o invadente, allora si sommano e fanno traballare, rendendo incerto e oscillante il nostro desiderio di novità e la ricerca di nuovi stimoli e percorsi esistenziali.

La tentazione (il più delle volte difficile, in certi casi impossibile, da sconfiggere) è allora quella di ritornare sui propri passi, timidamente e confusamente avviati, e di cercare il conforto delle antiche certezze, accontentandosi di quello che già si ha, rinunciando a quello che si sarebbe potuto avere, solo se si avesse avuto più coraggio, più senso dell’avventura.

Se, in altre parole, si fosse avuto la capacità di sconfiggere i sensi di colpa, di cui i nostri figli si fanno (più o meno coscientemente, più o meno involontariamente) latori, se non ci si fosse fatti paralizzare ancora una volta dal Super-ego, come già ci succedeva da bambini e da adolescenti immaturi, quando esso era rappresentato in primis dai nostri genitori.

So bene che il nostro Super-ego di adulti maturi non ci “parla” e “comanda” solo attraverso i nostri figli; so bene che esso si aggruma attorno ad una molteplicità di fattori, attorno a tutto il contesto affettivo (primario e significativo) che ci circonda, costituito in primis dai nostri parenti (fratelli, sorelle, cugini, cugine…), se ne abbiamo; e poi dai nostri amici più stretti.

Qui però volevo segnalare in modo particolare il paradosso (direi il paradosso dei paradossi!) di un Super-ego, rappresentato proprio da coloro che noi abbiamo generato e ai quali proprio noi (quando loro erano bambini e adolescenti) abbiamo trasmesso censure e divieti, aiutandoli a formare il loro Super-ego.

Censure e divieti che, a questo punto, si ritorcono, in maniera direi quasi beffarda, contro di noi, proprio quando avremmo desiderato trasgredirli, addirittura quando ci sembrava di essere oramai pronti psicologicamente a superarli, a farne a meno.

Ci sembrava, ma, evidentemente, avevamo fatto i conti senza l’oste: senza il Super-ego, rappresentato innanzitutto dai nostri figli.

© Giovanni Lamagna

L’uomo ha “un avvenire vergine che lo attende”?

L’uomo, al contrario di quello che sostiene il primo Sartre, non ha affatto “un avvenire vergine che lo attende”.

L’uomo, infatti, ha un avvenire molto contaminato, condizionato dal suo passato.

L’uomo, anzi, è in gran parte il suo passato.

Anche se di questo passato può fare qualcosa di nuovo, di originale.

Può; non è detto che ci riesca.

© Giovanni Lamagna

Trascorrere del tempo e Storia

Il trascorrere del tempo e la storia sono la stessa cosa? Con tutta evidenza, no.

Il trascorrere del tempo è un processo che riguarda la vita in generale, da quella inerte (o apparentemente inerte) della materia a quella viva delle piante, a quella animata degli animali, fino a quella (più o meno) consapevole dell’uomo.

Il trascorrere del tempo è scandito dall’incedere anonimo e sempre uguale a sé stesso delle lancette dell’orologio.

Da questo punto di vista ogni giorno è (o sembra essere, perché poi in realtà non lo è) uguale a quello precedente e sarà uguale a quelli successivi.

Diverso è per la Storia.

Innanzitutto la Storia è il tempo che riguarda l’uomo e solo lui; le pietre, le piante e gli altri animali, diversi dall’uomo, non hanno storia, hanno solo un tempo di vita, appunto, un tempo che trascorre.

La Storia presuppone la consapevolezza del tempo che trascorre e questa consapevolezza ce l’ha solo l’uomo.

Alcuni – i Greci antichi, ad esempio – hanno paragonato la Storia ad un cerchio, che incomincia da un punto e si chiude sempre allo stesso punto.

Secondo questa concezione la Storia sarebbe un eterno ritorno, un continuo ripetersi dello Stesso.

Altri – i Moderni, ad esempio – paragonano la Storia ad una linea retta destinata a non avere mai fine.

Secondo questa concezione la Storia sarebbe un continuo avanzare del Nuovo rispetto al Vecchio, un continuo progresso.

In questa concezione è implicito il giudizio che il Nuovo sia sempre migliore del Vecchio e che quindi il Progresso sia in sé un valore, un evento sempre e comunque positivo.

Io ho una concezione della Storia che è un po’ a metà tra le due precedenti.

Per me l’immagine che rende meglio il senso della Storia è quella della spirale; un po’ (mi pare) come quella che aveva Giovambattista Vico.

La spirale è una figura geometrica che in un certo senso mette insieme il cerchio e la linea retta.

La Storia per me è quindi sì un avanzamento (secondo l’immagine della linea retta), ma non un avanzamento continuo; bensì un avanzamento che contempla anche dei ritorni (ricorsi?) all’indietro, perfino (almeno in apparenza) al punto di partenza (secondo l’immagine del cerchio).

Nella Storia, quindi, in un certo senso tutto si ripete (concezione conservatrice e statica della Storia), ma mai nello stesso identico modo, bensì sempre in forme inedite e nuove (concezione che, più che progressista, definirei mobile, mai statica e ripetitiva, della Storia).

Quanto al progresso per me, come ho già detto prima, esso non può essere identificato, sic et simpliciter, col nuovo.

Ci sono, infatti, cose nuove che costituiscono un reale progresso ed altre che non lo sono affatto; anzi possono segnare addirittura un regresso: altro che progresso!

Ciò che definisce, può definire, il reale progresso non è il nuovo in sé, ma è la scala dei valori umani, è l’etica, chiamata di volta in volta a giudicare ciò che è reale progresso da ciò che è un falso progresso.

Ma qui entriamo in un campo minato, nel quale nessuno può ergersi a giudice assoluto, in quanto nessuno può avere la pretesa di possedere “la Verità”, ma ognuno può proporre solo “la sua verità”.

Quali sono, infatti, i veri valori umani? Chi li decide? Qualcuno o alcuni possono deciderli per tutti? Si possono decidere (democraticamente) a maggioranza?

Io credo che la scala dei valori umani sia relativa sempre alla storia e alla geografia: la decidono i popoli e le diverse società che li costituiscono attraverso delle convenzioni, che spesso si traducono anche in leggi.

Ma alla fine arbitri ultimi di cosa è bene e cosa è male, quindi di ciò che vale e di ciò che non vale, rimangono i singoli individui, la loro coscienza, il loro foro interiore, che si assumono (o, meglio, potrebbero e dovrebbero assumersi) la responsabilità delle loro convinzioni, scelte, decisioni e azioni.

© Giovanni Lamagna