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Ricerca del Sé ed esperienza mistica.

La ricerca, l’attenzione a e la cura di sé hanno – a mio avviso – molto a che fare con la ricerca che hanno fatto nei secoli gli uomini di religione; o, meglio, i mistici.

I due atteggiamenti sono in qualche modo omologhi.

Non ovviamente nel senso che il Sé (cioè quello che Jung intendeva con questa parola e che io, in buona sostanza, condivido) sia l’equivalente di Dio.

Anzi!

Il Sé, infatti, (per Jung e – si parva licet – per me) non è l’Io.

È l’Io che tende a sentirsi il centro del mondo e, quindi, in un certo senso, Dio; non il Sé.

La ricerca del Sé richiede invece gli stessi fondamentali atteggiamenti interiori degli uomini di religione, in special modo dei mistici; li elenco qui per titoli.

L’atteggiamento della ricerca.

Quello dell’ascolto.

Quello della risposta/obbedienza alla chiamata del proprio daimon.

Quello dell’essere sempre in cammino, in pellegrinaggio.

Quello dell’umiltà; ovverossia del sentirsi un minuscolo granello di sabbia di una spiaggia, una goccia dell’oceano, una infinitesima particella dell’Universo.

Quello della povertà in spirito; o, meglio, della sobrietà, nel senso del distacco dai beni materiali e, persino, da quelli spirituali.

Quello del superamento, quindi, di ogni forma di invidia per ciò che possiedono gli altri.

Quello della castità spiritualmente intesa, cioè della rinuncia a ogni forma di possesso dell’altro, degli altri.

E, quindi, del superamento della gelosia, come paura di perdere ciò che abbiamo.

Il Sé, d’altra parte, è intrinsecamente, strutturalmente relazione: relazione con l’Altro da Sé.

Che è, innanzitutto, l’inconscio, ovverossia la parte in ombra di sé, quella di cui la coscienza non ha nozione e che chiede di essere portata alla luce.

Ed è poi la Realtà (il principio freudiano di realtà) alla quale nessuno di noi si adatta tanto facilmente, ma lo fa solo grazie ad un lavoro (appunto) di consapevolezza e, quindi, di crescita interiore.

Ed è, infine, il mondo del sociale, l’ambiente che ci circonda, col quale abbiamo bisogno di confrontarci continuamente.

Non certo per adattarci passivamente e, quindi, conformisticamente, al suo modo di sentire, pensare ed essere, come ci spinge a fare il Super-io freudiano.

Ma per non diventare vittime della malattia opposta: il delirio autoreferenziale, che non tiene conto di niente e di nessuno.

© Giovanni Lamagna

Anoressia e castità.

La “scelta” anoressica mi ricorda la scelta per la castità.

In entrambi i casi si tratta di una scelta (di una rinuncia) drastica, radicale, totalitaria.

Cambia solo l’oggetto.

Nel primo caso l’oggetto a cui si rinuncia è il cibo.

Nel secondo è il sesso.

Le due scelte, a mio avviso, hanno molte analogie.

Entrambe – mi pare – vogliano affermare la presunzione dell’autonomia, dell’autosufficienza, dell’ “io basto a me stessa” da parte della persona che le fa.

Entrambe – mi pare – esprimano (o nascondano o sottintendano) un’idea (a volte un vero e proprio delirio) di onnipotenza.

© Giovanni Lamagna

Che differenza passa tra chi è in contatto con sé stesso e chi non lo è?

Chi non è in contatto con sé stesso della vita coglie solo la superficie.

Vive in una sorta di stordimento/dormiveglia.

Non fa quello che realmente vuole e desidera (come spesso, invece, si illude di fare), ma quello che è trascinato a fare da una sorta di corrente che lo trascina.

Va, insomma, alla deriva.

E molto spesso non ne ha manco coscienza; quindi non ne soffre neanche particolarmente; perché vive in una sorta di beata (o, meglio, beota) incoscienza, letargia, anestesia.

Questo discorso vale sicuramente per il singolo, per l’individuo, ma vale anche – pari, pari – per molte società di cui si compone l’Umanità.

Oggi – ho l’impressione – stiamo vivendo – come mondo nel suo complesso, specie qui da noi in Occidente – proprio una situazione di questo tipo: stiamo andando verso il disastro e non ce ne rendiamo – salvo rare eccezioni – manco conto.

Siamo come i passeggeri del Titanic, che – mentre il piroscafo navigava nella nebbia e stava per scontrarsi con l’iceberg che lo avrebbe nel giro di pochi attimi fatto inabissare causando la morte di più di 1500 persone – ballavano e si divertivano, completamente ignari (incoscienti, appunto!) della tragedia alla quale stavano andando incontro.

Chi non è in contatto con sé stesso vive il tempo esclusivamente come kρόνος, come uno scorrere anonimo di attimi indistinti, sostanzialmente tutti uguali a sé stessi, senza particolare significato e valore.

Alla rincorsa di beni e piaceri materiali, per lo più voluttuari, nella illusione (che è quasi un delirio) di poter trovare in essi, anzi nell’accumulo di essi, il benessere e persino la felicità desiderati.

Chi è in contatto con sé stesso vive, invece, il tempo come καιρός; tende cioè a dare ad ogni attimo un valore particolare, unico ed irripetibile.

Chi vive il tempo in questo secondo modo non dà particolare valore ai beni materiali, dà invece grande valore a quelli spirituali, fondati non tanto sul valore economico delle cose possedute, ma sul modo del tutto personale – direi creativo, generativo –  di viverle e di goderle.

Può capitare a chi vive il tempo come καιρός di essere, possedendo poco, molto più felice di chi vive il tempo come kρόνος, possedendo molto.

E’ questa la differenza fondamentale tra chi ha scelto di puntare prevalentemente sull’essere e chi, invece, ha puntato le sue carte esistenziali soprattutto sull’avere.

© Giovanni Lamagna

Le tre istanze fondamentali della psiche secondo la mia visione.

Una delle affermazioni più famose (se non la più famosa) di Sigmund Freud è senz’altro questa: “Wo Es war, soll Ich werden”; contenuta nel suo “Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni)”; 1980 Bollati Boringhieri, pag. 190; tradotta da Cesare Musatti con le parole “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Cosa voleva dire il grande viennese con una tale affermazione?

A mio avviso, alcune cose molto semplici.

Innanzitutto questa: all’inizio, quando nasce e nei suoi primi mesi ed anni di vita, l’uomo è essenzialmente un fascio di impulsi o, come le chiama Freud, pulsioni, che in questa fase però assomigliano molto agli istinti animali.

In altre parole nei suoi primi anni di vita l’uomo è poco più di un animale, molto simile agli altri animali: è quindi Es (quasi) allo stato puro.

Poi, un poco alla volta, lentamente, in misura più o meno grande, a seconda delle sue caratteristiche innate (che potremmo anche considerare genetiche) e, soprattutto, delle condizioni ambientali (il contesto nel quale l’individuo nasce e cresce), sopravviene e si afferma in lui una seconda istanza psichica, che Freud definisce l’Io o l’Ego.

Che cos’è l’Io/Ego?

È la dimensione razionale della vita psichica, quella che fa prendere consapevolezza all’individuo, che non tutti i suoi impulsi istintuali, non tutte le sue pulsioni sono realizzabili, praticabili; o perlomeno non lo sono sempre e immediatamente.

Perché esiste una Realtà che spesso o alcune volte si oppone loro, con la quale il soggetto pulsionale deve fare i conti, che ne limita, frena i desideri, rimandando o negando del tutto (alcune volte) la loro realizzazione.

Per usare espressioni freudiane, sopravviene “il principio di realtà”, che si contrappone talvolta (potremmo anche dire: spesso) al puro “principio di piacere”.

In questo modo all’Es (le pulsioni iniziali, la libido allo stato puro, quasi del tutto animalesca) subentra l’Ego (la parte razionale, consapevole quindi dei limiti imposti alle pulsioni dall’impatto con la realtà).

Così il bambino cresce – passando per la fase turbinosa dell’adolescenza – e diventa uomo maturo.

Do per scontato (credo che anche Freud lo desse per scontato) che in alcuni individui questo processo di crescita e maturazione riesca di più, in altri di meno; alcuni individui rimangono sostanzialmente bambini, altri (pochi) diventano addirittura animali selvaggi, preda dei loro istinti più primitivi.

Io condivido sostanzialmente questa lettura che Freud fa della psiche umana, che egli integra poi, come è noto, con una terza dimensione, quella del Super-Ego (o Super-Io).

Che sarebbe – a suo avviso – una variante della coscienza, che impone all’uomo di limitare i suoi desideri, le sue pulsioni istintuali, ma diversa dal “principio di realtà”, che ha una sua consistenza intrinseca, oggettiva.

Il Super-Ego, invece, insorge – come fattore del tutto relativo e contingente – dal contesto ambientale, sociale, culturale, nel quale ciascun individuo nasce, cresce e sviluppa i suoi codici morali.

E’ diverso dall’Ego, perché questo si fonda su una norma intrinseca, il principio di realtà, che ha una sua valenza oggettiva, potremmo dire addirittura universale, uguale per tutti gli esseri umani, a prescindere dal contesto sociale e culturale nel quale nascono, crescono e vengono educati.

Il Super-Ego, invece, pone leggi, norme e regole estrinseche, imposte dal contesto sociale e culturale particolare nel quale l’individuo nasce e cresce, ha quindi una valenza per sua natura variabile e perciò relativa, niente affatto universale.

Ripeto, io in buona sostanza condivido questa topica, fondata sui tre pilastri dell’Es, dell’Io e del Super-Io, con la quale Freud dipinge, direi addirittura fotografa, la psiche umana.

E non ritengo che gli altri studiosi che sono venuti dopo di lui e si sono dedicati a ricerche analoghe siano stati in grado di contestarla sostanzialmente o efficacemente.

Ne hanno magari dato riletture un po’ diverse, modificate in parte, ma nella sostanza quella descritta da Freud è oramai universalmente riconosciuta, anche laddove vengono usati termini diversi o accentuata l’importanza ora dell’una ora dell’altra delle tre dimensioni della psiche umana individuate da Freud.

Per quanto mi riguarda, gli unici appunti che mi sento di muovere (si parva licet) alla teoria freudiana sono che 1) è forse un po’ troppo rigida e schematica, 2) non è del tutto chiara la distinzione tra Ego e Super-Ego; essa forse andrebbe precisata meglio.

1.Per quanto riguarda il primo punto, l’affermazione “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”, almeno per come è stata posta da Freud, lascia supporre una netta preferenza del fondatore della psicoanalisi per il secondo rispetto al primo.

Quasi che il primo (l’Es) fosse per lui solo o tutto negatività e il secondo (l’Io) solo o tutto positività.

In altre parole si coglie in Freud una netta simpatia per il concetto di necessità e quello di realtà rispetto a quelli di piacere e di desiderio.

Laddove io ritengo che tra i primi due concetti e i secondi due debba sussistere non una opposizione netta, come pare intenderla Freud, ma piuttosto una dialettica, una interrelazione feconda, positiva, fruttuosa, che a volte fa prevalere i primi a volte (perché no?) i secondi.

In altre parole, ancora: non ci sono dubbi che in molti casi la realtà oggettiva si opponga ai nostri impulsi istintivi e, quindi, ai nostri desideri; e, in questi casi, maturità vuole che l’Es si pieghi alla realtà diventando Io.

E’ immaturo, infantile, quindi insano, nevrotico, l’uomo che vuole forzare ostinatamente, direi capricciosamente, questa realtà.

Ma ci sono casi in cui può essere l’Es a modificare la (presunta) realtà, laddove questa non si mostri del tutto dura e insuperabile, ma plasmabile e riformabile.

In questo caso Es ed Io possono tranquillamente convivere, anzi coincidono, non sono necessariamente due realtà in antitesi, in conflitto, come a volte infondatamente siamo portati a ritenere.

In altre parole ancora: per me si tratta di essere senz’altro realisti (e in questo sono del tutto d’accordo col maestro viennese), ma non occorre essere più realisti del re (come talvolta a me pare Freud tendeva ad essere).

Sopravvalutando cioè l’ineluttabilità del “principio di realtà” (Ego) e svalutando (a mio avviso in modo esagerato) la forza creativa e generativa (e non sempre e solo dissipativa, dissolutiva e, quindi, distruttiva) delle pulsioni (Es).

In altre parole ancora: l’essere umano per mantenersi vivo deve indubbiamente prendere atto della Realtà, ma senza mai perdere contatto col suo mondo pulsionale, che talvolta lo spinge ad osare, a forzare la presunta realtà.

Laddove un eccesso di “realismo” castrerebbe inutilmente (mi verrebbe di dire sadicamente) i suoi desideri, mortificandone non solo il diritto al piacere, ma anche risorse e potenzialità.

2. Per quanto riguarda il secondo punto occorre a mio avviso fare una netta distinzione tra il “principio di realtà” (che fonda l’Io) e quello che io definirei il “pensiero comune” (oggi potremmo chiamarlo anche “mainstream”), che fonda il Super-Io.

Una corretta coscienza deve a mio avviso tener conto della realtà, non può prescinderne; in alcuni casi quindi deve sacrificare, in tutto o in parte, le proprie spinte e aspettative pulsionali.

L’alternativa è il godimento mortifero, di cui parlava Lacan, mortifero perché ha come esito fatale la dissipazione, se non la vera e propria dissoluzione, della psiche.

Una corretta coscienza individuale altresì non può non confrontarsi con il “pensiero comune”, quello prevalente in un determinato contesto antropologico, sociale, culturale e storico; l’alternativa sarebbe il delirio, la farneticazione e, in ultima istanza, l’ostracismo, se non il totale isolamento sociale.

Ma non ne può neanche essere acriticamente dipendente, con l’esito di diventare inautentica, nel senso heideggeriano del termine (“così si dice! così si pensa!); rinunciando alla propria autonomia e indipendenza di pensiero e di agire, in nome del confortevole conformismo del gregge.

Ci sono casi, situazioni, in cui la coscienza deve avere il coraggio di affermare il proprio desiderio (le proprie istanze pulsionali, quelle che affondano nell’Es) e non reprimerli: quando cioè essi non sono in (vero) contrasto col “principio di realtà” (Io); e anche a costo di andare contro il “pensiero comune”, prevalente (Super-Io).

In questi casi, forse, l’Io patirà un certo grado di sofferenza dovuta all’ostracismo e all’emarginazione sociali, ma ne guadagneranno la sua creatività e vitalità, il suo spirito di indipendenza e di autonomia, che sono e saranno sempre segni inequivocabili di una buona salute psichica, allo stesso livello del senso (necessario) di realtà.

© Giovanni Lamagna

Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.

Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio

E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…

La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…

L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”

Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.

Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.

Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.

C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.

C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.

Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.

Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.

Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.

Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.

Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.

Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.

E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.

Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.

In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.

Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.

Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.

Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).

E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.

Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.

Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.

© Giovanni Lamagna

Innamoramento e amore

L’innamoramento e l’amore – come tutti intuiamo – hanno due psicologie profondamente diverse.

L’innamoramento esclude altri innamoramenti in contemporanea.

L’innamoramento, infatti, ci fa perdere la testa; quando siamo innamorati viviamo una specie di delirio: non vediamo che la persona di cui siamo innamorati.

E’ per questo che, se siamo innamorati di una persona, non lo possiamo essere anche di altre: è (quasi) fisiologicamente, oltre che psicologicamente, impossibile.

L’amore, invece, almeno per me, non esclude altri amori in contemporanea.

Ci si innamora di una sola persona alla volta.

Si possono amare più persone in contemporanea.

Perché, quando amiamo una persona, dopo esserne magari stati innamorati, siamo usciti dal delirio, non ne siamo più posseduti: la nostra mente e il nostro cuore non sono più occupati (quasi ossessivamente) da una sola persona.

Questo ci consente di guardarne e, magari, amarne anche altre: un amore è compatibile con altri amori, non li esclude.

L’innamoramento no.

© Giovanni Lamagna

I “pazzi” e noi

Quelli che vediamo talvolta per strada parlare da soli ad alta voce, quelli che con linguaggio comune definiamo “pazzi”, sono coloro che hanno portato ad un livello estremo, di delirio, quella che dovrebbe essere una nostra condizione abituale e sana: il colloquio costante con noi stessi; o, meglio, con l’Altro che è in noi.

Con la differenza che i pazzi hanno trasferito tutto il mondo esterno in loro stessi; fino ad arrivare a confondere, a non distinguere più mondo interno e mondo esterno.

Mentre noi, invece, se vogliamo restare sani e distinguerci, quindi, dai “pazzi”, dovremmo tener sempre ben presente e non annullare la distinzione tra “esterno” ed “interno”.

In altre parole quelli che non guardano mai all’interno, che ne negano persino l’esistenza, perché per loro esiste solo il mondo di fuori, non sono molto diversi dai cosiddetti “pazzi”, per i quali esiste solo l’interno e non vedono, non considerano più l’esterno, che vivono come pura proiezione del loro mondo interiore.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di follia

Effettivamente, come dice Erasmo da Rotterdam, ci sono due tipi di follia.

Ce n’è una che consiste nella pura perdita di contatto con la realtà ed ha come conseguenza (negativa) l’incapacità di entrare in comunicazione efficace con gli altri e di agire positivamente sulla realtà per modificarla in meglio.

E ce n’è un’altra che, invece, mantiene i piedi ben piantati nella realtà, ma non si rassegna ad essa così com’è, perché mira a modificarla in senso sempre più favorevole agli interessi degli uomini, come individui e come collettività.

La prima è sterile, anzi dannosa, perché pura fantasticheria, allucinazione, delirio, senso futile di onnipotenza, narcisismo solipsistico. Ed ha quindi, in molti casi, esiti devastanti, per sé e per quelli con cui viene in contatto.

La seconda è, invece, costruttiva, foriera di frutti e risultati positivi. Produce cambiamenti e innovazione, che migliorano la qualità della vita delle persone e delle comunità. E’ la follia che genera il progresso degli uomini.

Anche se spesso deve attraversare il deserto dell’incomprensione altrui, per rompere schemi consolidati, pregiudizi, conformismi. Spesso, almeno in prima battuta, viene, infatti, ostacolata, ostracizzata, in certi casi persino perseguitata.

© Giovanni Lamagna

Il sentimento oceanico e lo stato di innamoramento.

Nella risposta ad un lettore, che lo interpellava sul tema della “felicità”, su “D la Repubblica” del 7 luglio 2018, Umberto Galimberti così scriveva:

Ma forse la felicità risiede, come ipotizza Freud, in quel “sentimento oceanico” che ciascuno di noi ha sperimentato in quella condizione prenatale nel ventre della madre, da cui un giorno fuoriuscimmo per nascere come individui separati. Questa primitiva felicità può essere recuperata per brevi istanti, come scrive Freud: “Al culmine dell’innamoramento, il confine tra l’Io e l’oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che l’Io e il Tu sono una cosa sola ed è pronto a comportarsi come se davvero fosse così”.

Vorrei riprendere ciascuna delle affermazioni di Galimberti e sottoporle a qualche riflessione critica.

1.Anche io penso che quel poco o molto di felicità che è dato sperimentare a ciascuno di noi esseri umani abbia parecchio a che fare con l’esperienza del “sentimento oceanico”.

Per conseguenza ritengo che chi non ha mai fatto esperienza di questo sentimento (o ne abbia fatta ben poca e in maniera solo episodica e saltuaria) non abbia sperimentato una quota parte importante (in qualità e grandezza) della felicità possibile agli umani.

  1. Ma che cos’è il “sentimento oceanico”?

L’espressione “sentimento oceanico” si deve a Romain Rolland (scrittore francese, premio Nobel della Letteratura nel 1915), al quale Freud aveva inviato il suo scritto “L’avvenire di un’illusione”, dedicato al tema della “religione”.

Dopo aver letto il testo di Freud, Rolland gli invia una lettera, in cui, tra l’altro, così scrive:

… mi sarebbe piaciuto vederti fare un’analisi del “sentimento religioso spontaneo” o, più esattamente, del “sentimento religioso”, che è … il fatto semplice e diretto del “sentimento dell’eterno” (che può benissimo non essere eterno , ma semplicemente senza limiti percepibili, e come “oceanico”, per così dire).

Per Rolland il sentimento religioso è, dunque, un sentimento spontaneo che ci fa sentire parte di un tutto, è un’esperienza mistica più che l’adesione a un credo dogmatico, ad una fede specifici.

Infatti, Rolland non si riconosce in nessuna Chiesa, manco in qualcuna delle chiese cristiane. Egli si sente molto più semplicemente un uomo in cammino, alla ricerca della verità.

Freud è umanamente colpito dalla persona di Rolland e dalle cose che dice e scrive lo scrittore francese. Tanto è vero che produce una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”, proprio per replicare alle affermazioni di Rolland e dopo aver meditato sugli stimoli intellettuali da lui ricevuti.

Ma le sue resistenze intellettualistiche e le sue difese razionalistiche sono troppo forti. Egli tende a ridurre quindi il sentimento oceanico, di cui gli ha parlato l’amico, a nient’altro che il “sentimento egoico primitivo”, che prova il bambino durante la fase dell’allattamento, quando egli non è ancora in grado di distinguere il suo sé dal corpo (in particolare dal seno) della madre.

Il “sentimento oceanico” è dunque per Freud nient’altro che la memoria preservata di un sentimento primitivo, quindi una forma di regressione ad uno stadio immaturo della psiche, immaturo perché non differenziato.

Ho già avuto modo di muovere delle obiezioni a questo modo di leggere il sentimento oceanico da parte di Freud, in un mio precedente scritto. Per cui non ci ritorno.

Quello che voglio qui sinteticamente ribadire è che per me il “sentimento oceanico” è cosa ben diversa da quel “sentimento egoico primitivo”, che “ciascuno di noi ha sperimentato nella condizione prenatale”, cioè nei nove mesi di incubazione “nel ventre della madre, dal quale un giorno fuoriuscimmo per nascere come individui separati”.

  1. Mi interessa, invece, qui approfondire l’accostamento (citato da Galimberti) che fa Freud tra il sentimento oceanico e lo stato dell’innamoramento.

Per Freud, al culmine dell’innamoramento, il confine tra l’Io (del soggetto innamorato) e il Tu (dell’oggetto d’amore) quasi si dissolve, così come nel sentimento oceanico il confine dell’Io (del soggetto che lo prova) quasi si dissolve nel Tutto (dell’Universo e dell’Eterno, a detta di Rolland). Questo rende le due esperienze assimilabili (a detta di Freud).

Io colgo le indubbie analogie tra le due esperienze (che sono però più apparenti che sostanziali), ma vedo anche le differenze, che sono molto più profonde e significative delle analogie.

Quali sono queste differenze?

La prima differenza sta nel fatto che quello dell’innamoramento è un sentimento primario, primitivo, non particolarmente elaborato, che sorge spontaneo, in maniera istintiva, non ha bisogno di particolari predisposizioni. Potremmo anche definirlo un sentimento grezzo, alla portata di tutti, a prescindere dal livello socioeconomico, da quello culturale e da quello spirituale.

Il sentimento oceanico è, invece, un sentimento, che, per quanto possa sorgere spontaneo anch’esso, richiede, invece, almeno un minimo di preparazione e di predisposizione. Non tutti, insomma, sono in grado di sperimentarlo, ma solo quelli che hanno un cuore puro e libero, che hanno abbandonato un certo numero e un certo tipo di difese.

Freud, ad esempio, pur essendo indubbiamente un uomo di intelligenza, sensibilità e cultura superiori, non fu mai in grado di sperimentarlo, se non forse in un’occasione molto particolare, quella della sua visita al Partenone di Atene nel 1904. E, senz’altro, non è un caso che egli citi questa esperienza, raccontandola nei suoi particolari, in una delle sue lettere a Romain Rolland.

La seconda differenza sta nel fatto che il sentimento di innamoramento si manifesta in genere in forme molto vivaci, se non proprio violente. Chi è innamorato vive una fase emotiva di forte, anzi eccezionale, eccitazione. I sensi ne sono esaltati. La pulsione sessuale, che in genere è il primo motore dell’innamoramento, è alla sua massima potenza.

Il sentimento oceanico, all’incontrario, si associa a sensazioni di pace e serenità profonde. Non è un sentimento forte e violento come l’innamoramento, ma un sentimento disteso e diffuso, che, anziché eccitare ed esaltare, pacifica ed ammorbidisce i sensi. Nel sentimento oceanico la pulsione sessuale, se non proprio spenta, è quantomeno “addomesticata” e sublimata.

Terza differenza. Il sentimento dell’innamoramento è tutto concentrato su un oggetto specifico, molto preciso, particolare e individualizzato: “l’oggetto piccolo”, avrebbe detto Lacan. Io mi innamoro proprio di quel corpo, di quello sguardo, di quel carattere, di quella intelligenza, di quella particolare persona e non di altre.

Nel sentimento oceanico è, invece, proprio l’oggetto specifico, particolare, individualizzato, che viene meno, perché ciò che viene in evidenza, ciò con cui si ha la sensazione di essere in contatto è il Tutto, nel quale le singole parti sfumano, si dileguano, perdono quasi completamente importanza e significato.

La quarta differenza è forse la più importante. Il sentimento di innamoramento ci porta a stravedere per l’altro. L’altro si pone al centro di tutte le nostre emozioni e i nostri pensieri. L’altro è presente spiritualmente anche quando è assente fisicamente. L’altro è non solo il primo, ma per certi aspetti l’unico, il solo. Sull’altro proiettiamo i nostri desideri e le nostre attese primordiali. L’innamoramento è, insomma, una specie di delirio, che tende a deformare l’oggetto del suo amore, anche lo divinizza, anzi proprio perché lo divinizza.

Il sentimento oceanico, invece, esalta le nostre capacità di guardare il mondo a 360°. Non si concentra su nessun oggetto o aspetto di esso in particolare, ma mira a cogliere quanti più oggetti della realtà (e aspetti di essi) è possibile nel loro insieme, con uno sguardo panoramico e ad ampio spettro. Di conseguenza riesce a vedere gli oggetti non solo nella loro individualità e singolarità, ma anche nelle loro interazioni e influenze reciproche. La sua visione del reale è, quindi, la più obiettiva e meno deformata possibile.

A voler approfondire l’argomento, sarebbe forse possibile rintracciare anche altre differenze tra il sentimento dell’innamoramento e il sentimento oceanico. Ma credo che le quattro da me individuate bastino e avanzino per evidenziare a sufficienza la radicale diversità e irriducibilità tra i due sentimenti, pur nelle loro (superficiali) analogie.

Giovanni Lamagna

Il quotidiano e l’assoluto.

Nel suo libro “L’Arcisenso” il filosofo Aldo Masullo introduce il capitolo dedicato alla “Sapienza”, parlando (a pagina 119) “dell’insidioso insinuarsi della produzione mentale di assoluto nel tessuto della quotidianità umana”.

Come a dire (almeno io così l’ho interpretato): la quotidianità umana è fatta essenzialmente di contingenza e di relativo, ma l’animo umano è destinato a incrociare spesso (e volentieri) la dimensione dell’assoluto.

Dimensione quasi sempre fallace: una specie di allucinazione, frutto “della produzione mentale” dell’uomo stesso, che gli fa perdere di vista i contorni della nuda ed effettiva realtà. Tanto è vero che il filosofo Masullo fa cenno al “disastroso effetto” di questo “insinuarsi della produzione mentale di assoluto”.

Io avrei adoperato, invece del termine “insinuarsi” (che lascia pensare a un lento e dolce “introdursi”), piuttosto il termine “irrompere”. In quanto, più che un cambiamento, l’assoluto produce, il più delle volte, un vero e proprio sconvolgimento “della quotidianità umana”.

Eppure, nonostante il “disastroso effetto” che quasi sempre esso produce, sembra esistere nell’animo umano una irresistibile attrazione per l’assoluto, per questa rottura della contingenza e della relatività insite nella condizione umana che il suo irrompere introduce. Anche questo è un dato di realtà.

A questo punto insorgono in me due domande.

Innanzitutto: quali sono le principali situazioni in cui l’uomo sperimenta l’insinuarsi (come dice Masullo) o l’irrompere (come mi permetto di dire io) dell’assoluto nella sua vita? E’ possibile indicarne alcune, almeno le principali, le più ricorrenti nella vicenda umana? A mio avviso, sì.

La prima, la più a portata di mano e, quindi, la più sperimentata dalla grande maggioranza degli uomini, è quella dell’innamoramento.

Quando ci si innamora, infatti, l’altro/a diventa per l’innamorato/a una sorta di assoluto, che rompe, spezza la monotonia della sua esistenza quotidiana.

La figura dell’innamorato/a ci è continuamente presente, come fosse un miraggio nel deserto.

Si dilata, ci accompagna e, quindi, la vediamo dappertutto, anche quando è momentaneamente assente dal punto di vista fisico, moltiplicata all’infinito, proiezione evidente del nostro desiderio che la sua presenza non ci manchi mai.

La nostra giornata è accompagnata, come in sottofondo, da una sorta di dolcissima colonna sonora che la rallegra, anzi la rende felice, perché unica, speciale.

I nostri orizzonti sensoriali si dilatano all’infinito, come sotto un effetto allucinogeno, esaltando la nostra potenza, come in una specie di delirio. Quando siamo innamorati nulla ci sembra impossibile, anzi tutto sembra alla nostra portata.

L’innamoramento produce una vera e propria deformazione ottica. Caudale (re della Licia) “era innamorato di sua moglie; e, nell’esaltazione dell’amore, credeva di possedere la donna di gran lunga più bella di tutte”. Non a caso la sua storia (Erodoto; Storie; Libro I) viene citata da Masullo come esempio perfetto (“una perfetta mitizzazione”) dell’assunto iniziale da cui siamo partiti.

La seconda situazione in cui ci è dato verificare l’irrompere dell’assoluto nella nostra vita è, per certi aspetti, speculare alla prima: è la sperimentazione del rischio e dell’avventura, cioè della possibilità (in certi casi addirittura, paradossalmente, voluta, ricercata) di perdere il bene che ci rende felici, al limite il bene della vita stessa.

L’amore ci conferma e, perciò, rassicura: in questo sta la felicità ad esso collegata. Il rischio e l’avventura mettono tutto in pericolo, in discussione ed a soqquadro, ma introducono, allo stesso tempo, un elemento adrenalinico, che l’eccesso di conferma e di rassicurazione corre il rischio di spegnere: sta in questo l’eccitazione e la felicità che essi possono procurarci.

Caudale mette a rischio la sua felicità di marito, di uomo esaltato dall’amore che nutre per la moglie, offrendola alla vista (e, quindi, al desiderio) di un altro uomo: Gige, la più fidata delle sue guardie del corpo. In questo modo corre il rischio di eccitare anche il desiderio della moglie e di indurla alla infedeltà nei suoi confronti.

Mette a rischio, anzi, come ci racconta Erodoto, la sua stessa vita. Di uomo ricco, di potere e di amore. Eppure egli sceglie (non si capisce bene con quanta consapevolezza; ma la cosa ha molta importanza?) di correre questo rischio, perché l’eccitazione data dal rischio è simile all’eccitazione che danno il potere, la ricchezza e, perfino, l’amore.

Il rischio ha il potere di interrompere la monotonia che possono intervenire in una situazione in cui c’è troppa sicurezza. Il rischio quindi è un altro modo di sperimentare l’irruzione dell’assoluto nella nostra esistenza, nella nostra monotona quotidianità.

Esistono poi, a mio avviso, altri tre modi di incontrare l’assoluto, di interrompere (o, almeno, coltivare l’illusione di interrompere) lo scorrere contingente, fragile, monotono, della nostra esistenza.

Il primo è l’ispirazione artistica, che in certi casi assume le caratteristiche di un vero e proprio raptus. Il vero artista non è colui che decide di fare l’opera d’arte, ma è colui che è trascinato da una forza quasi a lui estranea a fare l’opera d’arte.

Il risultato è qualcosa che è paragonabile alle meraviglie stesse del creato. Non solo perché ne eguaglia per certi aspetti la bellezza. Ma perché è omologo in qualche modo all’atto stesso della creazione.

Perciò anche il semplice fruitore dell’opera d’arte ne è in qualche modo rapito, allo stesso modo di come ciascuno di noi rimane rapito, addirittura talvolta estasiato di fronte ad un cielo stellato, a certe albe o a certi tramonti, a certi paesaggi della natura che sembrano mostrarci l’essenza stessa del bello.

Il secondo è l’intuizione filosofica o scientifica. Io credo che sia il filosofo che lo scienziato vivano e lavorino alla ricerca del mistero della vita. Il primo sotto l’aspetto più spirituale e intellettuale del termine. Il secondo sotto l’aspetto più materiale, in senso lato, del termine, comprensivo della dimensione chimica, biologica, fisica, fisiologica e via dicendo.

Quando il filosofo e lo scienziato (per vie ovviamente molto diverse) incontrano, colgono, uno spicchio, uno sprazzo, un pezzettino di questo mistero assoluto che sono la vita e l’universo, credo che l’esperienza psicologica da loro vissuta sia quella (non saprei definirla in altro modo) dell’incontro con l’assoluto, dell’insinuarsi (o dell’irrompere) dell’assoluto nella loro vita.

Il terzo è l’illuminazione o estasi mistica. Il mistico è una persona che ha un solo o principale scopo nella vita: quello di entrare in comunione, farsi uno, con l’universo che lo circonda (l’universo fisico, costituito dalla natura, e l’universo antropologico, costituito dai suoi simili). Dio è solo la metafora di questo Tutto, con il quale il mistico aspira a connettersi.

Quando vive (nei pochi, rari o, per alcuni fortunati, molti momenti in cui riesce a vivere) l’esperienza dell’illuminazione o dell’estasi (che non è facile da definire, proprio perché essa ha a che fare con il mistero, l’essenza stessa della vita) entra in contatto con l’assoluto (o, almeno ha l’impressione, la percezione, quasi fisica, di entrare in contatto con un qualcosa o qualcuno che per lui è l’assoluto).

Concludo provando a rispondere alla seconda delle due domande che erano insorte in me all’inizio di questa riflessione: che cosa spinge l’uomo a ricercare l’assoluto nella sua vita? o (ponendo la stessa domanda da un altro versante) che cosa lo predispone all’insinuarsi (come dice Masullo) o all’irrompere (come propendo a dire io) dell’assoluto nella quotidianità della sua esistenza?

La mia risposta è secca, netta, precisa: la noia.

L’uomo deve combattere con una malattia, un tarlo incombente, che può diventare addirittura un vero e proprio cancro, in grado di rovinare qualsiasi situazione esistenziale, anche quella di massimo benessere, perfino quella, rara e pure da alcuni sperimentata, almeno in certi momenti, che potremmo definire di felicità.

Questa malattia è la monotonia, la routine, la ripetitività. Che a loro volta producono lo stato d’animo della noia, il tarlo in grado di rodere e consumare anche la più perfetta delle gioie e delle felicità.

L’unico rimedio, farmaco in grado di guarire da questa malattia o, almeno, di interrompere il suo circuito perverso e il suo progressivo aggravamento è l’incontro con l’assoluto o, meglio, con ciò che l’uomo si illude sia l’assoluto, definendolo con questo termine, in fondo del tutto convenzionale.

Questo incontro può avvenire, a mio avviso, solo nei cinque modi che ho provato a descrivere sopra. Anche se non posso escludere che ce ne siano degli altri.

Un altro, il primo che mi viene in mente in questo momento, è forse il gioco. Anche se il gioco mi sembra parecchio più futile, effimero e meno potente degli altri cinque per l’effetto terapeutico che può avere sulla malattia di cui parlavo prima.

Come tutti i farmaci, però, anche quelli da me indicati hanno delle controindicazioni. Che, in alcuni casi, possono essere addirittura devastanti, disastrosi. Come afferma Masullo e come ci dicono le biografie di molti amanti, artisti, filosofi, scienziati e mistici.

Eppure credo che davanti all’uomo ci siano solo due opportunità, due scelte: o quella di un’esistenza potremmo dire senza storia, una vita mancata, persa nella tranquilla mediocrità del quotidiano; o quella di azzardare il rischio, l’avventura dell’incontro (almeno momentaneo) con l’assoluto, con lo straordinario.

In questo secondo caso, è vero, l’uomo corre il pericolo di andare incontro a un esito che potrebbe essere disastroso. Da temere, ma non certo.

Nel primo caso, invece, il disastro è sicuro, perché è già in atto. Non c’è neanche bisogno di temerlo, perché è già presente.

Giovanni Lamagna