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La mia testimonianza al convegno per i 50 anni di vita della Comunità cristiana di base del Cassano.

8 giugno 2019

Cari amici, compagni e fratelli,

mi sono domandato tempo fa come avrei potuto impostare questa testimonianza che mi avete chiesto in occasione dei 50 anni di vita della vostra/nostra comunità. E mi sono orientato a donarvela sotto forma di lettera, mi verrebbe di dire di epistola, per fare un esplicito riferimento ad un termine utilizzato nella tradizione biblica, neotestamentaria.

Ho pensato di farlo per almeno due motivi. Il primo è di ordine comunicativo: chi mi conosce bene sa che ho difficoltà a parlare a braccio (mi confondo, perdo il filo, non riesco a dire tutte le cose che vorrei…), mentre me la cavo un po’ meglio quando scrivo.

Il secondo motivo è che in questo modo potrò lasciare agli atti di questo convegno il testo della mia testimonianza, se (come prevedo) non riuscirò a leggerla tutta restando nei tempi che mi avete assegnato. E così chi di voi ne avrà voglia potrà continuare a leggersene la restante parte. Scripta manent!

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Come avrete notato, ho iniziato questa mia epistula con tre termini: amici, compagni e fratelli. E l’ho fatto non per retorica, ma perché essi mi sono molto cari, sono per me tutti e tre carichi di significato. E lo sono perché esprimono bene la mia storia umana, culturale e politica.

Ma l’ho fatto anche perché esprimono bene i valori fondamentali che mi hanno sempre unito e ancora oggi mi uniscono a voi.

Se ci pensate i tre termini – amici, compagni, fratelli – sono collegati (ciascuno in modo più specifico ad una di esse) alle tre culture fondamentali che hanno costituito l’architrave della mia (ma credo di poter dire anche nostra) storia umana, culturale e politica: quella liberale, quella socialista e quella cristiana, con i loro tre valori fondamentali di libertà, uguaglianza e fraternità.

Mi verrebbe di dire – senza tema, credo, di apparire troppo presuntuosi – che la nostra vita si è svolta all’insegna di quelli che, a mio modesto, ma fermo, avviso, dovrebbero essere i tre valori portanti di una nuova cultura politica, che io spero prima o poi – nonostante i segnali contraddittori che sembra oggi consegnarci l’attualità – possa caratterizzare la scena del XXI secolo: i valori della libertà, della uguaglianza e della fraternità, appunto!

Valori che nella storia finora sono apparsi sempre scissi, come se fossero inconciliabili tra di loro, e che noi, invece, abbiamo sempre considerati e vissuti come inscindibili, inseparabili l’uno dall’altro.

Non può esserci, infatti, per noi vera libertà separata dall’uguaglianza, come non ci può essere vera uguaglianza separata dalla libertà.

E, soprattutto, libertà e uguaglianza non bastano a garantire una società veramente e pienamente umana senza la fraternità.

Come la fraternità è ipocrita, puro sentimentalismo paternalistico, senza la sussistenza della libertà e dell’uguaglianza effettive e non solo formali (cioè non solo astrattamente giuridiche) tra gli uomini.

Ecco questa è la prima testimonianza che intendevo darvi quest’oggi: le nostre vite, al di là degli alti e bassi dei nostri rapporti concreti, hanno viaggiato mi sembra di poter dire sempre all’unisono durante tutti questi anni su questi tre binari valoriali, etici, ma io credo di poter dire soprattutto spirituali: il binario della libertà, quello della uguaglianza e quello della fraternità. Per cui sono stati veri rapporti di amicizia, di compagneria (se si può usare questo termine) e di fraternità.

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Certo, poi (come dicevo prima) nei nostri rapporti ci sono stati alti e bassi, nel senso che ci sono stati momenti in cui ci siamo frequentati di più e momenti in cui ci siamo frequentati di meno, momenti in cui abbiamo condiviso più cose e momenti in cui ne abbiamo condivise di meno.

Mi viene allora spontaneo fare una piccola storia di questi nostri rapporti, distinguendola in tre fasi principali, che corrispondono poi grosso modo alle tre stagioni principali della nostra (oramai abbastanza lunga) vita.

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La prima fase è quella che inizia addirittura con la nostra adolescenza e si prolunga fino alla nostra prima giovinezza. Per quanto mi riguarda va (più o meno) dall’anno 1962 all’anno 1973. Comprende quindi circa 11 anni.

Ci siamo conosciuti con alcuni di voi (Gennaro Sanges, Aldo Bifulco, Ezio Esposito, Corrado Maffia…) nell’oramai lontano 1962, al Centro Diocesano dell’Azione Cattolica napoletana in Largo Donnaregina. Io ero delegato aspiranti di una piccola parrocchia dalle parti di via Arenaccia: stavo ancora al ginnasio, al Garibaldi. Gennaro e Aldo erano i delegati della parrocchia del Vasto con padre Errico. Ezio e Corrado (che si occupava degli juniores) venivano dalla parrocchia di piazza Capodichino.

Un poco più tardi (ma solo un poco) ho conosciuto poi Mario Corbo, Rosario Sanges e Benedetto Musacchia, della parrocchia del Vasto, e quindi Nello Esposito, Donato Michini della parrocchia di Capodichino.

Importante tramite tra di noi in quel periodo fu Biagio Passaro, che era mio compagno al ginnasio-liceo Garibaldi, ma abitava a San Pietro a Patierno (zona limitrofa a Capodichino) e nella parrocchia di san Pietro faceva anche lui il delegato aspiranti.

Che anni sono stati quegli anni!

Anni in cui ognuno di noi era alla ricerca di un suo percorso di fede più autentica, più vera e personale, che andasse oltre la religiosità un po’ ritualistica, tradizionale e, diciamolo pure, anche un po’ bigotta, che ci avevano trasmessa i nostri genitori e i preti delle parrocchie che frequentavamo.

E questa ricerca, anche se forse non proprio in una forma esplicita e molto palese, ci accomunava, si sentiva che era qualcosa che ci metteva assieme.

In questo ci aiutava molto l’atmosfera del Concilio, indetto da papa Giovanni (guarda caso!) nel 1962 e durato fino all’8 dicembre del 1965, che segnò (come tutti sappiamo) una svolta nella storia della Chiesa, potremmo dire la fine della Chiesa tridentina, chiusa al mondo moderno, e l’inizio della Chiesa ecumenica, aperta alla modernità, anzi alla contemporaneità.

Sono stati questi gli anni, penso per ciascuno di noi, dell’incontro più intimo e personale col Vangelo e con la figura di Gesù (ricordo l’importanza fondamentale che ha avuto per me la lettura dei libri di Carlo Carretto, di Arturo Paoli, di Renè Voillaume, di Jacques Maritain) con la spiritualità dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld e con quella dei Focolarini, che pure nella loro grande diversità (l’una più contemplativa, l’altra più sociale ed attiva) hanno contribuito a fornirmi modelli di Cristianesimo nuovi, meno ritualistici e più autentici, proprio quelli che sia io che voi, per vie magari un po’ diverse tra di loro, andavamo già cercando da qualche anno, anche se ancora all’interno dell’alveo tradizionale e un po’ protettivo delle nostre parrocchie.

Poi è venuto il momento del distacco pure da questa dimensione. Io sono andato per due anni e mezzo a Loppiano, presso la cittadella internazionale dei Focolarini vicino Firenze e sono stato lì per due anni e mezzo (dagli inizi del 1967 fino alla metà del 1969).

Al ritorno da questa esperienza (a Loppiano avevo capito con chiarezza oramai che la strada dei focolarini non era propriamente la mia), dopo circa un anno e mezzo (credo dovesse essere il 1971) ci siamo incontrati di nuovo: la Comunità (non ancora del Cassano) si era appena avviata, frutto sostanzialmente dell’incrocio dei due gruppi di Azione Cattolica del Vasto e di Capodichino.

Ricordo di aver conosciuto allora Remigio Raimondi e la fidanzata Rita Esposito, Antonia Melino (fidanzata con Corrado), Marinella Filosa (fidanzata con Mario), Rosa Raimondi (fidanzata con Aldo), Elisa Palmieri (fidanzata con Gennaro).

Molte riunioni della Comunità in quell’anno tra il 1971 e il 1972 si svolsero proprio a casa mia o meglio presso la casa dei miei genitori, in via colonnello Lahalle, 24, dove io abitavo ancora in quanto studente universitario di filosofia.

In quella fase era forte tra di noi il desiderio di recuperare lo spirito dei primi cristiani e delle loro piccole comunità, al di fuori dei formalismi e delle liturgie delle parrocchie, all’interno delle quali tutti noi avevamo incontrato il cristianesimo.

Poi nel 1972 mi sono laureato e a settembre di quell’anno sono partito per il militare, che ho fatto a Roma, a Pietralata. Ricordo che all’epoca, per respirare aria di comunità, il sabato pomeriggio andavo alla basilica di san Paolo, dove si riuniva la comunità di Giovanni Franzoni e spesso vi tornavo anche la domenica mattina per la messa, in una basilica enorme eppure strapiena di gente, che veniva per ascoltare le bellissime omelie di Giovanni.

E’ stato quello l’anno in cui ho maturato il mio distacco finale dalla fede. Ricordo di aver ricevuto la mia ultima ostia eucaristica proprio dalle mani di Giovanni Franzoni nella basilica di san Paolo.

Ma il distacco era maturato gradualmente negli ultimi tre anni di Università, sotto gli stimoli dei libri di filosofia che andavo leggendo, ma soprattutto di un libro che ha segnato la mia vita, “L’arte di amare”, di Erich Fromm.

E’ stato quindi un distacco graduale, leggero, mi verrebbe di dire soft, che non ha avuto nulla di traumatico. Perché in realtà io non ho mai smesso di credere in Gesù Cristo, nel senso di amarlo come un mio Maestro fondamentale di vita.

Ho “solo” smesso di considerarlo “il figlio di Dio”, perché ho smesso di credere nell’esistenza di un Dio, separato da questo mondo; cosa che (più ci penso e più mi appare chiaro) non mi sembra l’essenza del messaggio che ha voluto lasciarci Gesù.

Che sta piuttosto in questo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato!”. Nell’amore tra gli uomini, dunque, non nella fede in un Dio trascendente.

E qui, in questo anno, il 1973, io considero chiusa la prima fase della nostra storia, di noi come persone singole e di noi come amici e come fratelli, non ancora compagni: non avevamo, infatti, ancora scoperto la politica come impegno grosso, centrale, della nostra vita.

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E’ iniziata a questo punto una seconda fase della nostra vita: la fase della maturità. Quella del lavoro, del matrimonio, della famiglia, dei figli, per molti di noi dell’incontro con la politica, della scelta a sinistra, cioè dalla parte dei lavoratori, della lotta per un mondo più giusto, più equo, più solidale, oltre che più libero.

Qui le nostre strade si sono (almeno fisicamente) divaricate abbastanza e per un bel po’ di tempo. Io incontravo spesso Gennaro, Aldo, Benedetto, ma quasi sempre al sindacato o nei luoghi della politica.

Non più negli spazi della Ecclesia tradizionale, nei quali ci eravamo conosciuti, o della comunità di base, nei quali ci eravamo incontrati un poco più tardi, dopo un breve e provvisorio distacco.

Voi, invece, avete continuato fedeli, tenaci, direi perfino testardi e quasi imperterriti, nel vostro cammino di comunità. Io me ne sono fisicamente allontanato.

E non perché fosse venuta meno in me analoga esigenza, ma perché sentivo, avvertivo, che l’esperienza di una comunità di fede (quale fede poi, se non ce l’avevo più?) mi stava stretta.

Continuavo a sentire ancora (come sento del resto ancora tuttora) l’esigenza della comunità, ma di una comunità che uscisse dai confini ristretti della Chiesa e si aprisse all’universo mondo.

Avvertivo, in altre parole, l’esigenza di una comunità radicalmente laica, fondata certamente sull’amore: da questo punto di vista il valore della libertà e quello dell’uguaglianza non mi sono mai bastati come valori ispiratori fondanti del mio impegno politico.

Ma un amore totalmente profano, nel senso letterale del termine: un amore cioè vissuto “fuori dal tempio”. Il “tempio mi era divenuto inutile”, aspiravo ad abitare “la città planetaria”, per usare termini che ho ritrovato poi, qualche anno più tardi, nelle parole di un nostro comune maestro.

Non a caso questi sono stati gli anni in cui per me hanno acquistato sempre più importanza l’incontro (in questa fase solo teorico e conoscitivo) con la psicoanalisi e l’esperienza (questa, per fortuna, soprattutto pratica e vissuta) della sessualità.

Che io avevo visto (ed esperito) sempre come un po’ castigata (per non dire decisamente repressa) all’interno dell’esperienza religiosa, per quanto aperta, avanzata, rivisitata, modernizzata essa fosse.

E qui ci sarebbe molto da dire ed approfondire. Ma non lo faccio, perché il discorso mi prenderebbe la mano e sforerei di troppo i tempi del mio intervento.

Dico solo che in questi anni al mio primo Maestro, quello della mia (nostra) adolescenza e della mia (nostra) prima giovinezza, che è stato Gesù, se ne sono aggiunti (almeno) altri due, che io considero di (quasi) uguale importanza, Marx e Freud.

Che hanno rappresentato sul piano simbolico i due binari fondamentali lungo i quali ha camminato poi in seguito la mia vita: – quella di una ricerca interiore, introspettiva, intrapsichica, quasi di autoanalisi continua, – e quella dell’impegno sociale e politico, di attenzione, altrettanto continua, alla realtà esterna che ci circonda.

E in questi anni (purtroppo!) i nostri rispettivi percorsi hanno camminato un po’ distanti. Mai del tutto divaricati e però quasi sempre paralleli: solo di tanto in tanto, infatti, solo raramente si incontravano, sia sul piano materiale, dell’incontro fisico, sia sul piano spirituale, del confronto di anime.

Di questi anni – diciamoci la verità – io so poco di voi: quel poco che so l’ho appresso dal libro che avete pubblicato in occasione dei primi 25 anni di vita della Comunità. Ma anche voi sapete poco di me.

Oggi in parte, ma ovviamente solo in piccolissima parte, ho riempito questo vuoto: questo era il senso e la motivazione del mio breve racconto di questa fase.

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Passo, quindi, rapidamente alla illustrazione di quella che ritengo la terza fase dei nostri rapporti, che incomincia con quello che per me e per la maggior parte di noi è stato l’inizio della terza età. L’inizio di questa fase io lo situo anagraficamente per me attorno ai 54/55 anni, quindi attorno agli anni 2001/2002.

Attorno a questi anni incomincia una nuova fase della mia vita non solo fisica e anagrafica, ma soprattutto psicologica. Perché recupero, gradualmente, ma sempre più distintamente, con sempre maggiore energia e consapevolezza, quella che era stata una dimensione che (a dire il vero) non mi aveva mai abbandonato del tutto, ma che negli anni della maturità, negli anni di mezzo della mia vita, avevo messo un po’ in secondo piano: la dimensione della spiritualità, della contemplazione, in altre parole potrei definirla pure della ricerca della Sapienza (Sapienza con la S maiuscola): la dimensione che oggi non esiterei a definire perfino religiosa della mia vita.

Anche se una dimensione del tutto laica, fondata su nessuna fede cieca e su nessun libro sacro. Religiosa nel senso semplice ma letterale del verbo “religo”, ovverossia del sentirmi membro dell’intera famiglia umana, quindi legato essenzialmente, strutturalmente a ciascun componente di questa famiglia, anzi (di più) frammento dell’intero universo, quindi legato al Cosmo intero e non solo all’Umanità in quanto specie.

E, infatti e non a caso, il “sentimento cosmico” (come lo ha spesso descritto  Einstein) o il “sentimento oceanico” (come lo hanno definito Romain Rolland e Sigmund Freud in un loro celebre scambio epistolare) è ciò che caratterizza specificamente la mia religiosità attuale e ritrovata, che è poi null’altro che la mia spiritualità rinsaldata e maggiormente consapevolizzata.

Sulla base di una convinzione forte che mi ha accompagnato sempre in questi ultimi anni: “la spiegazione razionale del mondo divulgata dalla scienza ha inesorabilmente corroso lo spazio sacro, che è il (….) naturale dominio” (delle religioni), ma non ha rese superate le domande da cui sono nate le religioni. Che sono poi “domande di senso”: le stesse a cui cerca di rispondere la filosofia.

Ora quali ricadute ha avuto questo mio percorso spirituale sui nostri rapporti? E’ successo (e per me mai niente succede a caso) che abbiamo ripreso a vederci più spesso, non solo in ambiti politici, ma anche alla Scuola di pace e anche qui, in alcuni omenti di incontro della comunità.

Dove alcuni miei interventi di riflessione politica ma anche filosofica (filosofica, proprio nel senso letterale di cui dicevo prima, di amore e ricerca della Sapienza) sono stati riconosciuti e (perfino) utilizzati in alcune vostre “liturgie” (se posso ancora continuare a chiamarle così) o momenti di riunione.

Fino all’ultima scoperta (per me molto piacevole) che per voi si era aperto un cammino di riflessione e ricerca che dalla dimensione religiosa si spostava nettamente (se non proprio esclusivamente) sulla dimensione spirituale, attraverso il superamento della stessa religione.

Quindi non più o non tanto l’esperienza di una “religiosità altra” e, per conseguenza, di una “Chiesa altra”, ma il superamento della stessa religiosità e, quindi, dei confini stessi della Chiesa.

Dell’abbattimento perciò di tutti gli steccati che separano una comunità cristiana (per quanto di base) dall’universale e (mi verrebbe di dire: scusate il gioco di parole) comune comunità degli uomini.

Qui, se questo vostro cammino dovesse andare avanti e arrivare alle sue estreme conseguenze, i nostri rispettivi percorsi potrebbero di nuovo incrociarsi e forse addirittura tornare a coincidere. Come in cuor mio mi auguro e vi auguro.

E non certo perché sia cosa importante che questo succeda: in fondo ci vogliamo già bene così e continueremmo a volercene anche se continuassimo a camminare su strade un po’ diverse.

Ma perché questo fatto sarebbe la realizzazione di quanto auspicato da un uomo che molti di noi qui presenti hanno sicuramente molto amato e molto stimato, un uomo che è stato uno dei profeti più importanti della Chiesa cattolica del ‘900: sto parlando di Ernesto Balducci.

Che in un suo libro bellissimo del 1985, “L’uomo planetario”, già profetizzava l’avvento di “una nuova epoca per la spiritualità umana”. E lo faceva più di 30 anni prima che John Shelby Spong, Maria Lopez Vigil, Roger Lenaers e Josè Maria Vigil scrivessero il loro “Oltre le religioni”, che so essere stato al centro della vostra riflessione/meditazione all’incirca un anno fa.

In questo libro, che sicuramente molti di voi avranno letto, Ernesto Balducci parlava dell’uomo planetario in questi termini (ne cito i paragrafi finali):

L’uomo planetario è l’uomo postcristiano, nel senso che non si adattano a lui determinazioni che lo separino dalla comune degli uomini.

Liberata dalle sue obiettivazioni ontologiche e restituita alla sua dinamica esistenziale, che cos’è l’Incarnazione se non un’immersione di Dio nell’umano, in virtù dell’amore che di Dio è la stessa essenza?…

… La qualifica di cristiano mi pesa. Mi dà soddisfazione sapere che i primi credenti in Cristo la ignoravano…

… Non sono che un uomo: ecco un’espressione neotestamentaria in cui la mia fede meglio si esprime. E’ vicino il giorno in cui si comprenderà che Gesù di Nazaret non intese aggiungere una nuova religione a quelle esistenti, ma, al contrario, volle abbattere tutte le barriere che impediscono all’uomo di essere fratello all’uomo e specialmente all’uomo più diverso, più disprezzato…

… E’ questa la mia professione di fede, sotto le forme della speranza. Chi ancora si professa ateo o marxista o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi.

Io non sono che un uomo.”

E’ questa la mia stessa professione di fede. In essa mi riconosco pienamente. Ci tenevo a darvene testimonianza in questa occasione in cui festeggiamo i 50 anni della vostra/nostra Comunità.

Con i migliori auguri, il vostro affezionato amico, compagno e fratello!

Giovanni Lamagna