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Cosa è per me una psicoterapia?

Se dovessi dare una definizione sintetica, molto sintetica, di che cos’è per me una psicoterapia, direi, senza alcuna reticenza e senza mezzi termini, che essa è essenzialmente un addestramento alla vita spirituale.

Che corregge o, in alcuni casi, sostituisce l’educazione sbagliata o mancata che è stata data (o non data) alla persona che va in psicoterapia; nell’epoca in cui essa andava data, cioè negli anni decisivi della formazione di una persona: l’infanzia, la fanciullezza e l’adolescenza.

Questa educazione avrebbe dovuto formare il bambino, il fanciullo e l’adolescente ad un rapporto sempre più maturo e solido con l’Altro da sé; rapporto che per me è appunto l’essenza della vita spirituale.

Quando questa formazione non è avvenuta o è avvenuta in maniera scorretta e si sono quindi formati nuclei, più o meno gravi, di nevrosi, la psicoterapia interviene per surrogarla o correggerla; o, quantomeno, ci prova.

Il terapeuta assume allora la funzione (provvisoria, simbolica e, allo stesso tempo, reale, cioè fisica) dell’Altro da sé, al quale il soggetto che è andato in terapia non è stato educato, formato o, perlomeno, non lo è stato in maniera corretta e adeguata.

Il transfert – cioè quel legame soprattutto emozionale-affettivo, ma anche intellettuale e quindi spirituale, che viene a crearsi (o dovrebbe venire a crearsi) tra il terapeuta e il paziente – è il modo, la via e, in un certo senso, anche lo strumento attraverso il quale avviene questa formazione.

La terapia si avvia positivamente a conclusione in una prima fase quando il paziente incontra e riconosce dentro di sé (e non più solo fuori, nella figura dello psicoterapeuta) il suo Alter-ego e quando, in una seconda fase, costruisce con questo Alter-ego interiore un rapporto sempre più positivo, costante, stabile.

Si conclude poi definitivamente e positivamente (cosa niente affatto scontata) quando il paziente, in una terza fase, è in grado di sostituire l’Alter-ego oramai pienamente e stabilmente interiorizzato a quello simbolico e allo stesso tempo fisico costituito dalla figura esterna del terapeuta.

Quando, in altre parole, il paziente è in grado di camminare con le sue sole gambe.

Quando cioè l’immagine simbolica dell’Altro da sé, costituita per una fase più o meno lunga dal terapeuta mentre è in corso la psicoterapia, è stata a tal punto introiettata dal paziente, che egli può fare a meno del sostegno e della presenza fisica, esterna, del terapeuta.

La terapia fallisce quando l’incontro del paziente con l’Altro da sé simbolico non avviene, quando cioè il paziente rimane dipendente dalla presenza fisica del terapeuta (l’Altro da sé in carne ed ossa), quando è incapace di autonomizzarsi e, quindi, distaccarsi dal suo terapeuta.

O quando (come succede in certi casi) il paziente diventa addirittura ostile (“antitetico”, per usare il termine a cui fa ricorso il dottor Nicola Ghezzani) al suo terapeuta, incapace di introiettare la figura simbolica dell’Altro da sé che il terapeuta gli rappresenta e gli rimanda.

Quando, in altre parole, il paziente si rivela cronicamente e inguaribilmente incapace, refrattario ad avviare un’autonoma e sufficientemente matura vita spirituale, che – in estrema sintesi – è per me – come dicevo all’inizio e ripeto qui – il vero scopo, l’obiettivo finale di un qualsiasi percorso psicoterapeutico.

© Giovanni Lamagna

La propria via

Non si incontra la propria via nei libri.

E neanche nelle parole di un Maestro.

I libri e i maestri, certo, possono essere di stimolo, aiuto, sostegno.

La propria via, però, la si incontra veramente solo nella solitudine e nel silenzio del raccoglimento interiore.

© Giovanni Lamagna

I diversi gradi di un rapporto.

I rapporti tra gli esseri umani (sto parlando qui di un qualsiasi tipo di rapporto) possono situarsi a livelli e gradi diversi di intensità, di forza, di valore.

Il primo grado è quello dell’interesse.

Ovviamente qui non mi riferisco all’interesse materiale che io posso provare per un’altra persona: cioè al fatto che questa persona mi passa dei soldi, mi garantisce una certa quota del suo reddito o che ambisco a entrare in possesso della sua eredità (quantomeno di una sua quota parte).

Che, per carità, pure può essere una motivazione a stabilire e mantenere un rapporto. Ma non mi sembra, di certo, una motivazione sana, moralmente valida.

E non mi riferisco manco alla pura e semplice attrazione fisica e sessuale. Che mi sembra una motivazione troppo limitata ed elementare per sviluppare un vero e solido rapporto umano.

Qui io parlo dell’interesse spirituale che ciascuno di noi può provare per un’altra persona, che non ha niente a che fare con l’interesse materiale o non si limita all’attrazione fisica e sessuale, che posso nutrire nei suoi confronti.

Io sono interessato spiritualmente ad una persona quando questa persona mi piace per come è fatta, mi attira, ha un carattere, un’intelligenza, un modo di fare, uno stile di vita, potrei aggiungere anche dei valori, degli ideali, che in qualche modo finiscono per diventare per me addirittura un modello, qualcosa cioè con cui mi identifico.

La persona verso la quale provo interesse è una persona alla quale io vorrei in qualche modo, almeno per alcuni aspetti, assomigliare. E’ l’attrazione per un maestro o una guida spirituale, per un amico o anche per un parente, col quale però il rapporto in un certo senso prescinde dalla semplice consanguineità, va oltre la normale familiarità affettiva, che di solito c’è tra parenti.

L’interesse di cui sto qui parlando non è un interesse solo (per usare un termine oggi molto in voga) “virtuale”, ovverossia del tutto teorico e solo dichiarato. E’ un interesse reale, molto pratico, che si dimostra coi fatti.

Incontrando il più possibile la persona con cui si è in un tale tipo di rapporto, frequentandola, conversando spesso con lei, facendole delle attenzioni (piccole o grandi) continue. E’ un interesse, insomma, avvertito molto chiaramente dalla persona che ne è oggetto, sul quale questa persona non può nutrire dubbi.

Il secondo livello (per me già un po’ inferiore al primo) è dato dall’affetto.

Io posso non provare interesse per una persona, nel senso di non sentirmi spontaneamente, istintivamente attirata da lei, eppure posso provare affetto per lei.

L’affetto è una forma di attaccamento ad una persona di natura prevalentemente emotiva, a volte addirittura irrazionale, che può scaturire dalle motivazioni più varie. In genere è legato ad una qualche forma di parentela: più il grado di parentela è stretto più è grande l’affetto.

Oppure ad una qualche forma di vicinanza o frequentazione abituale: a furia di vedere una persona o di passarci dei momenti assieme, ci si affeziona a questa persona; quindi nasce e si consolida un affetto per lei.

L’affetto può accompagnarsi all’interesse spirituale di cui ho parlato prima. In questo caso l’uno rafforza l’altro e viceversa.

Ma può anche prescinderne (più o meno) completamente. Nel senso che io posso volere bene ad una persona, avere quindi affetto per lei, anche senza provare un vero interesse spirituale nei suoi riguardi.

Posso provare, ad esempio, affetto per i miei parenti, anche senza essere spiritualmente e profondamente attratto dalle loro persone, quindi interessato a loro per come sono fatti umanamente.

Per questo per me l’affetto è un sentimento inferiore rispetto all’interesse. Infatti, l’interesse per una persona contempla quasi sempre anche una qualche forma di affetto per questa persona. Mentre non vale il reciproco: io posso provare affetto per una persona, senza provare un interesse spirituale profondo per lei.

Il terzo grado di un rapporto è dato dalla gratitudine, dalla riconoscenza.

Io posso non provare interesse per una persona, posso perfino non provare un particolare affetto per lei, e, però, provare gratitudine, riconoscenza, per il bene o, al limite, per i favori (o anche un singolo favore) che questa persona mi ha fatto.

Esiste una differenza profonda tra i primi due gradi del rapporto e questo terzo. Infatti, l’interesse e l’affetto non si comandano, sono sentimenti spontanei, non me li posso imporre. Non posso impormi di essere attratto da una persona e non posso neanche impormi di volerle bene come moto spontaneo, naturale.

Posso, invece, impormi la riconoscenza, la gratitudine. Se una persona mi ha regalato delle cose (dei soldi, dei favori, un sostegno di qualsiasi tipo…) io sono tenuto ad esserle riconoscente, grato.

Se non dall’affetto (che pure sarebbe naturale, ma che – ripeto – non ci si può imporre) almeno dalla buona educazione.

Il quarto grado di un rapporto, quello più elementare, quello minimo, è dato dal rispetto.

Io dico che è quello minimo, perché, se viene meno il rispetto, viene meno il rapporto stesso. In caso di mancanza di rispetto, infatti, il rapporto (o, meglio, una parvenza di esso) può continuare a sussistere solo se la persona a cui viene tolto il rispetto è talmente masochista, nel senso che ha talmente poco rispetto di se stessa, da tenersi, sopportare la mancanza di rispetto dell’altro..

Nel caso, poi, in cui la mancanza di rispetto sia addirittura reciproca, credo sia a tutti evidente che vengono a mancare le condizioni minime di un qualsiasi tipo di rapporto tra due persone.

Un rapporto può nascere, svilupparsi e durare nel tempo sulla base di un interesse spirituale, dell’affetto o della riconoscenza/gratitudine. Ma senza rispetto reciproco non ci può essere nessun vero rapporto. Senza rispetto reciproco un rapporto, un qualsiasi rapporto, manco nasce.

Giovanni Lamagna

La paura della solitudine.

La paura della solitudine è una brutta bestia.

Che spesso ci fotte.

Perché ci rende estremamente fragili.

E dipendenti dagli altri.

Può arrivare, in certi casi, a farci accontentare del primo rapporto che ci capita tra le mani.

Anche dei rapporti di cui non siamo soddisfatti, né tantomeno contenti.

Perfino dei rapporti che ci fanno male.

Perfino dei rapporti in cui siamo costretti a subire violenze.

Spesso “solo” morali e psicologiche. Talvolta anche (e perfino) fisiche.

La paura della solitudine ci rende poco esigenti nel selezionare le nostre relazioni.

Quindi esposti ai ricatti affettivi.

Ancora di più, esposti alla superficialità e alla banalità delle persone di cui ricerchiamo il sostegno affettivo.

Cosa che non ci aiuta certo a crescere, ad evolvere positivamente, ad affermare le nostre potenzialità.

Post scriptum.

Pier Paolo Pasolini un giorno ebbe a dire: “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza.

Cosa voleva dire? A mio avviso questo.

L’indipendenza è una forza, ma presuppone la capacità, il coraggio di affrontare la solitudine. E questa non è una situazione comoda, facile da reggere. Perché fa emergere tutte le nostre debolezze.

Esiste però una “forza” (non lo stare mai soli, lo stare sempre in compagnia, assieme agli altri) che è, in realtà, una debolezza, perché implica la schiavitù dell’incapacità di stare da soli.

Ed esiste una debolezza (essere costretti talvolta ad affrontare la solitudine) che è in realtà una forza, perché ci dona l’indipendenza dagli altri, la libertà, la capacità di stare in piedi da soli.

Giovanni Lamagna

Identità, rapporti e nevrosi.

La nostra mente funziona così: ha bisogno di costanti, di darsi un’unità, una continuità  di emozioni, sentimenti, pensieri, comportamenti.

Chi non ci riesce sta male: è un dissociato, un “malato mentale”, più o meno grave.

Afflitto da una nevrosi (tra le “malattie mentali” meno gravi) o da una psicosi (tra le “malattie mentali” più gravi).

Per questo ognuno di noi, sin dal momento in cui viene al mondo o, meglio, sin dal momento in cui comincia a formarsi un barlume di consapevolezza, cerca di darsi un’unità di comportamento.

All’inizio e per una lunga fase (tutto il periodo dell’infanzia e della fanciullezza) la cosa è piuttosto facile e semplice: perché il nostro comportamento ci è quasi imposto; dalle regole che ci danno gli adulti, in primis ovviamente i nostri genitori.

Regole che noi accogliamo quasi senza fiatare, senza fare nessuna opposizione sostanziale, perché il bambino ha bisogno dei genitori come del cibo. Senza la loro cura e il loro sostegno sarebbe incapace di crescere, anzi addirittura di restare in vita.

Per questo da molti adulti l’infanzia e la fanciullezza sono ricordate come il periodo più felice: perché è stato evidentemente il periodo di maggiore unità interiore della loro vita; quello nel quale il problema di una divisione interiore, tra diverse od opposte alternative di comportamento, non si poneva neanche.

Questo problema comincia, invece, a porsi con l’adolescenza, quando nel (fin allora) bambino comincia a maturare l’esigenza di un Io autonomo, che non sia la fedele fotocopia, riproduzione di quello dei suoi genitori.

Comincia allora a manifestarsi un conflitto tra diverse istanze del Sé: quelle pulsionali (autonome, fisiologiche, connaturate alla sua persona) e quelle superegoiche (legate alle direttive genitoriali).

E, infatti, l’adolescenza è un’età di vera e propria dissociazione, paragonabile per certi versi alle nevrosi (se non alle psicosi) dell’età adulta.

L’adolescenza viene superata (se viene superata: non è un semplice fatto anagrafico) nella misura in cui (e quando) l’individuo trova una sua identità, cioè un’armonia tra le diverse istanze del suo Sé.

Quando cioè le dissociazioni tipiche di questa età vengono assorbite in una relativamente stabile unitarietà di scelte e di comportamenti.

Da questo momento in poi la vita dell’individuo assume (o dovrebbe assumere) una sua coerenza interna ed esterna, una sua linearità e identità e, quindi, persino (potremmo dire) una sua prevedibilità.

Ad esempio, i nostri diversi rapporti si assomigliano tra di loro: tendiamo a frequentare persone più o meno simili per tipologia caratteriale, per stili di vita, per cultura.

E, infatti, diciamo che alcune persone ci sono simpatiche ed altre antipatiche. Con alcune ridiamo, scherziamo, stiamo bene. Con altre stiamo male ed entriamo in conflitto.

Per cui tendiamo a stabilizzare i rapporti con le prime e ad allentare o ad evitare del tutto i rapporti con le seconde.

Quando non riusciamo a fare questo, stiamo male, perché viviamo un conflitto, una dissociazione. Per alcuni versi simile a quelli dell’adolescenza.

Di solito questi conflitti vengono risolti e la persona si unifica, si stabilizza, riacquista prima o poi la propria serenità interiore.

Quando, invece, essi non riescono a ricomporsi, allora la persona che ne è vittima, vive in uno stato di nevrosi non risolta.

In ogni caso tende a dare al suo sistema di rapporti una qualche unitarietà e coerenza. Le sue relazioni prevalenti sono tutte di un certo tipo: saranno, di solito, quelle che le danno maggiore appoggio, sostegno, conforto e, quindi, sicurezza.

Poi ci saranno altre relazioni disomogenee rispetto alle prime, che lei, infatti, vivrà a fatica, con sforzo. Perché saranno in contraddizione e, quindi, in conflitto più o meno esplicito o latente con le prime.

Se la persona non riesce a rinunciarvi è perché evidentemente corrispondono ad una sua istanza profonda, che non è capace però di accogliere del tutto e fino in fondo.

Rappresentano un’aspirazione debole, vaga e poco consapevole piuttosto che una realtà forte, pienamente accettata e vissuta.

Sono, perciò, una momentanea valvola di sfogo, apertura e allo stesso tempo una fonte di conflitto, disagio.

Tra queste opposte polarità ed esigenze persiste tenace e, a volte, si autoalimenta la nevrosi che affligge questo tipo di persone.

Incapaci di scegliere, di darsi, una volta e per tutte, una direzione univoca e non più oscillante.

Giovanni Lamagna