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Può un corpo apparirmi nel tempo sempre nuovo?

Il corpo di cui conosco a memoria la geografia, le insenature, i rilievi, le profondità, la consistenza, è reso sempre nuovo dall’onda inarrestabile del tempo.” (Massimo Recalcati; “Mantieni il bacio”; Feltrinelli 2019; pag. 120-121)

Sono d’accordo e, allo stesso tempo, non sono d’accordo con questa affermazione.

Sono d’accordo, perché effettivamente quello che dice Recalcati può succedere, non è impossibile, è nell’ordine delle possibilità, anche se, a dire il vero, non è molto frequente.

Il trascorrere del tempo non è fatale, non è destino che renda obsoleto (e quindi non più desiderabile) lo “stesso”, oggetto del mio desiderio; anche – perfino – lo stesso corpo della persona che frequento da anni e che conosco oramai come le mie tasche.

Non sono d’accordo, perché Recalcati in questa sua affermazione utilizza un verbo (“è reso”) al modo indicativo, come se questa esperienza fosse la norma, rientrasse cioè nell’ordine normale e naturale delle cose.

E non fosse solo una possibilità (come, invece, la considero io), quindi niente affatto scontata, anzi – a dire il vero – il più delle volte, come succede nella maggior parte dei rapporti, irrealizzata e, quindi, non verificata.

Non sono d’accordo, inoltre, anche per un altro motivo.

Perché non è il tempo in sé che rende sempre nuovo il corpo dell’altro che amo.

Innanzitutto, per il fatto – persino banale – che il tempo rende oggettivamente più vecchio il corpo dell’altro (altro che nuovo!) e pertanto lo fa meno attraente ai miei occhi.

E, in secondo luogo, perché il tempo di per sé tende a produrre un fenomeno di assuefazione e quindi di appassimento del mio desiderio per quel corpo.

È solo la mia volontà, la mia “buona disposizione” d’animo, il mio voler tener viva la relazione, che mi permette di vedere sempre nuovo il corpo dell’altro, nonostante il trascorrere inesorabile del tempo lo renda sempre più vecchio.

E lo è ancor più, a dire il vero, la capacità dell’altro di rendersi sempre nuovo ai miei occhi nonostante rimanga sempre sé stesso.

È la disposizione dell’altro a rendersi seduttivo in forme sempre rinnovate (una qualità che è della psiche – dell’anima, direbbe Hillman – e non del corpo) che mi fa (può farmi) apparire sempre nuovo il suo corpo.

Niente di scontato, quindi, e meno che mai di spontaneo e naturale!

L’amore, persino il desiderio, possono durare nel tempo; non sono destinati fatalmente ad appassire, come molti (forse i più) ritengono.

Però, perché questo si verifichi è necessario un impegno reciproco delle due persone che si sono incontrate un giorno e che sono state attratte l’una verso l’altra.

L’impegno di ciascuna di loro – direi una “cura”, per usare una bellissima parola che ricorre in una famosa canzone di Battiato – a rendersi ogni giorno nuova agli occhi dell’altra, in modo da rendere possibile ogni giorno l’incanto, la magia della scoperta.

Del “nuovo” nello “stesso”.

© Giovanni Lamagna

La morte di Dio e il potere dell’uomo.

La perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente è, a mio avviso, l’esito necessario e inevitabile della constatazione dell’esistenza, dilagante e non certo marginale, del Male nel mondo, soprattutto nella forma del dolore; questo per chiunque abbia non dico una competenza filosofica all’altezza della contemporaneità, ma almeno un adeguato senso critico e non voglia vivere di alienanti illusioni.

Questo male e questo dolore radicali, che arrivano a colpire anche (e persino) gli innocenti, quindi del tutto ingiustificabili ed assolutamente senza senso, sono, infatti, incompatibili con la fede nell’esistenza non solo di un Dio buono e misericordioso (come quello che Gesù chiamava “Padre”), ma anche di un Dio giusto per quanto severo, l’unico Dio in cui avrebbe ancora un senso credere.

E, tuttavia, questa perdita della fede nell’esistenza di un Dio trascendente non può, non deve comportare come conseguenza (altrettanto necessaria e inevitabile) la presunzione da parte dell’uomo che allora tutto è per lui possibile, che tutto gli è consentito, come ipotizzava un personaggio di Dostoevskij in un famoso passaggio de “I fratelli Karamazov”.

O che l’uomo potrà/dovrà addirittura prendere il posto del Dio onnipotente oramai decaduto, come (con esiti – non a caso – devastanti per la sua salute mentale) arrivò a preconizzare Friedrich Nietzsche, il filosofo del Superuomo o dell’Oltre-uomo.

Sarebbe questo non solo il peccato più grande che l’uomo possa commettere; come dice Recalcati, “il solo peccato che nel testo biblico conta, quello della deificazione dell’uomo, di nutrire il desiderio di essere come Dio, di farsi Dio” (da “La legge della parola”; 2022; p. 240); ma sarebbe soprattutto causa della sua perdizione fatale.

Un uomo che, una volta morto Dio, si considerasse assolutamente libero e padrone onnipotente del proprio destino, dio al posto del Dio morto o definitivamente decaduto, sarebbe destinato a perdersi, a dissiparsi, a frantumarsi, a dissolversi, a schiantarsi prima o poi contro il muro della sua presunzione.

Pe cui l’uomo, almeno a mio avviso, anche dopo la morte di Dio, non può fare a meno di accogliere ed accettare l’intrinseca necessità che lo limita, ovverossia l’esistenza dell’Altro, che non sarà più un Dio che gli si impone dall’esterno e lo domina, ma un dio (gli antichi Greci lo avrebbero definito un “daimon”, un demone) che lo abita dentro, che vive nel suo foro interiore.

In questo dovrà consistere la sua nuova fede; sì, fede; non ho esitazione ad usare questo termine (“fede”), pienamente consapevole che esso ha a che fare con l’idea di “religione”; consapevole, dunque, che l’uomo avrà bisogno di aderire a una (per quanto radicalmente nuova) forma di religione (per quanto del tutto laica); se vorrà salvarsi.

Una religione il cui Dio non sarà totalmente, ontologicamente, metafisicamente, altro da sé, come lo era il Dio delle antiche religioni; ma sarà un dio che rappresenterà il vero Sé dell’uomo contemporaneo, la sua voce e il suo Maestro interiore.

Quindi, un dio guida, Ideale dell’Io, Alter-ego, che gli rappresenterà la Legge, che gli porrà certamente dei limiti, ma gli indicherà anche le sue potenzialità, un dio che gli si imporrà come necessità, ma gli rivelerà anche i suoi più profondi e intimi desideri.

Un dio che non sarà certo in grado di cancellare dall’animo umano lo sgomento, l’angoscia e, perfino, il terrore di fronte al Male e al dolore radicali presenti nel mondo, soprattutto di fronte al male estremo rappresentato dalla morte.

Ma sarà capace, però, di consentire all’uomo, che avrà l’umiltà di affidarglisi, di sperimentare (almeno di tanto in tanto) lo stupore, il piacere, la gioia e (in alcuni momenti, che potremmo definire magici) perfino la felicità, di fronte allo splendore del mondo.

“Ormai solo un dio ci può salvare” è il titolo che la redazione del giornale tedesco “Der Spiegel” diede a un colloquio che si svolse tra Heidegger e due inviati del settimanale.

Non sono in grado di dire a quale Dio Heidegger pensasse quando pronunciò questa frase divenuta famosa; e forse nessuno è in grado di dirlo, data la strutturale e paradigmatica oscurità del pensiero complessivo del filosofo tedesco.

So solo dire quale dio – secondo il mio pensiero – potrà salvarci: è quello che ho provato a descrivere (non so fino a che punto riuscendovi con chiarezza) fin qui con questa mia riflessione.

© Giovanni Lamagna