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Il primo oggetto dell’amore.

Per chi ama veramente, correttamente, sanamente, l’altro non è mai (o non dovrebbe essere mai) il primo oggetto dell’amore.

Quello dell’altro è sempre il volto attraverso il quale si manifesta il vero oggetto dell’amore, che trascende sempre il singolo oggetto d’amore.

Anche se poi “il vero oggetto dell’amore” s’incarna, si materializza nel singolo, particolare, piccolo, oggetto d’amore, se non vuol rimanere soltanto un’idea.

Se non vuole rimanere anzi, come diceva Giorgio Gaber in una sua canzone famosa (“Chiedo scusa se parlo di Maria”), un’ideologia.

Ma, comunque, il primo vero oggetto d’amore è ciò (la vita in sé) o colui (Dio) che unifica tutti i singoli, particolari, piccoli, oggetti d’amore; in qualche modo li trascende e, perciò, può dare un senso alla nostra esistenza.

Se non fosse così, il nostro amore non sarebbe altro (come spesso purtroppo, invece, è) che dipendenza; e, quindi, un circolo vizioso, avvitato su sé stesso: tu dai un senso a me ed io do un senso a te; io mi appoggio a te e tu ti appoggi a me.

L’amore che regge alcune coppie, ad esempio, è esattamente di questo tipo: come dice Erich Fromm, una sorta di “egotismo a due”.

Quando, poi, questo circolo vizioso viene a crearsi tra genitori e figli è particolarmente grave e insano.

Perché, mentre i figli sono (con tutta evidenza) per alcuni (molti?) genitori ciò che dà senso (in alcuni casi, addirittura, l’unico) alla loro esistenza, quegli stessi figli chiedono ai genitori di indicare, anzi testimoniare, loro il senso dell’esistenza.

Ottenendone, in questo caso, una risposta puramente tautologica e, quindi, del tutto insoddisfacente.

© Giovanni Lamagna