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Maschere.
Pirandello ebbe a scrivere, in “Uno, nessuno e centomila”: “C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E, quando stai solo, resti nessuno”.
Convengo con Pirandello: questa mi sembra, purtroppo, un’amara verità; nella maggior parte dei casi umani.
Aggiungerei che spesso mettiamo una maschera anche quando siamo da soli: tendiamo a nasconderci anche a noi stessi.
Per sfuggire alla orribile sensazione di essere nessuno.
Ecco, allora, che viene a crearsi un micidiale circolo vizioso.
Con il bisogno – di cui parla Pirandello – di indossare poi maschere nelle più diverse situazioni: famiglia, società, lavoro…
© Giovanni Lamagna
Non basta voler amare. Bisogna imparare ad amare.
Non basta volere amare.
Ancora meno basta dire “Ti amo”.
Occorre, si deve, sapere amare, per amare davvero.
Occorre, insomma, tradurre l’intenzione di amare, il sentimento dell’amore, in atti effettivi di amore, di cura, attenzione, rispetto, interesse, ascolto, verso la persona che si dice di amare, che si desidera amare.
Infatti, quasi sempre in noi – come ci ha insegnato la psicoanalisi, specie Jung, che sosteneva l’esistenza in noi di una duplice personalità – c’è una persona che vuole una cosa e una persona che ne vuole un’altra, a volte addirittura una opposta alla prima.
C’è, dunque, una persona che ama effettivamente e una persona che, se non arriva proprio ad odiare (anche se, alle volte, arriva persino a questo), di certo non ama per davvero.
Ora, fin quando questa seconda persona è viva, attiva in noi, fin quando non sfumerà, non si dissolverà, perché sarà stata sconfitta, domata e resa inerme, l’amore in noi, il nostro amore sarà sempre in conflitto con sentimenti che ad esso si oppongono e, quindi, sarà disturbato, incerto, ambivalente, a volte impotente, come paralizzato.
Ne consegue che non basta volere amare.
Bisogna imparare ad amare, bisogna fare dell’amore una “costruzione”, come dice una bella canzone di Ivano Fossati.
L’amore in noi non è, affatto, un moto spontaneo, naturale, scontato, come i più ritengono: se io provo amore per una persona, allora la sto anche amando.
No, non è così, non è così semplice.
In amore non si nasce già imparati, l’amore si deve imparare, si deve apprendere.
Come diceva il grande Eric Fromm, l’amore è un’arte.
Che, come tutte le arti, si apprende, bisogna apprendere.
Se non ci sono, però, la giusta volontà, il desiderio fermo e non oscillante, la decisione forte e non più contrastata di andare alla scuola dell’amore, l’amore non si apprende, rimane in noi una pia intenzione, che non si realizza poi nei fatti.
La volontà e il desiderio di amare non diventano capacità effettiva di amare.
Come spiega bene Luigi Zoja (in “Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza”; 1985, Raffaello Cortina Editore), “L’innamoramento… nasce dall’inconscio. Ma… ha poi bisogno di forza di volontà, di forza dell’Io, per trasformarsi da fantasia autistica in evento reale che assolve una funzione rinnovatrice.”
E diventare, quindi, amore.
“L’amore – afferma ancora Zoja – poco alla volta, non dovrebbe essere più vissuto come “trasporto”, come qualcosa di esterno all’Io, come spinta dell’inconscio che ci trasporta. Va spostato nell’Io.”
In altre parole anche qui – come ci ha insegnato Freud – all’Es (l’amore come forza dell’inconscio, puro “trasporto” e “fantasia autistica”) dovrà subentrare l’Io (l’amore come forza conscia, della volontà; e, quindi, “evento reale”).
© Giovanni Lamagna
Una straordinaria testimonianza di fraternità.
“In giugno (1886) Vincent (Van Gogh) si trasferisce col fratello (Theo) in un appartamento di… Rue Lepic 54 (a Parigi).
(…)
La convivenza tra i due fratelli giova non poco all’umore di Vincent, ma crea… numerosi problemi a Theo, che in una lettera a Willemien la definisce “pressoché insopportabile…
Io gli chiedo soltanto di non farmi del male e invece la sua stessa presenza mi è terribilmente penosa…
È come se in lui ci fossero due persone distinte: la prima tenera, sensibile, straordinariamente dotata; la seconda egoista e di cuore duro.”.
Theo sopporta però ogni mortificazione, nutre la più grande fiducia nelle doti di Vincent.
“È realmente un artista…
Un giorno i suoi dipinti potrebbero essere sublimi, e mi sentirei colpevole di averlo distolto da uno studio regolare.”.”
(da “Notizia sulla vita e le opere di Vincent Van Gogh”; in Vincent Van Gogh; “Lettere a Theo”; Ugo Guanda editore 2022)
Trovo in questa mezza paginetta una straordinaria, bellissima, testimonianza di cosa è, di cosa può arrivare ad essere la fraternità.
Theo non è un genio, non è posseduto dal demone dell’arte, come il fratello Vincent.
Però ama, ama Vincent di un amore puro (fraterno, appunto!), quindi disinteressato.
Perciò è disposto a sopportare “ogni mortificazione”, anche quando la convivenza col fratello gli risulta insopportabile.
Non solo; ma l’amore lo rende anche saggio, sapiente, acuto e preveggente critico d’arte; gli fa vedere quello che gli altri, i più, non vedevano, non riuscivano a vedere.
E cioè che Vincent era un genio, che prima o poi avrebbe dipinto quadri sublimi.
Cosa che fu; la Storia gli ha dato meritoriamente ragione.
A lui, pertanto, alla sua abnegazione, dobbiamo essere tutti immensamente grati.
In questo caso – ne traggo qui spunto per fare una ulteriore breve riflessione – la (apparente) mortificazione di un uomo ha avuto un senso; perché era sostenuta da una “fede”.
Una fede “oscura” perché smentita dai continui insuccessi del fratello: Vincent Van Gogh, fin quando è stato in vita, non è stato apprezzato quasi da nessuno, ha venduto pochissimo, quelli che riconoscevano il suo valore artistico si contavano sulle dita di una mano.
La mortificazione di Theo ha avuto un senso, perché era finalizzata ad uno scopo: prima o poi il genio di Vincent sarebbe stato finalmente riconosciuto.
Non aveva, quindi, nulla a che fare col masochismo, per il quale la mortificazione e il sacrifico sono fini a sé stessi, obbediscono solo ad un istinto di morte.
© Giovanni Lamagna
Perché si scrive?
Credo che il motivo principale per cui si scrivono libri (anzi il motivo per cui si scrive in generale) sia lo stesso per cui si mettono al mondo dei figli.
Il motivo è quello di lasciare tracce di sé, anche dopo che non ci saremo più.
È, quindi, in un certo senso, quello di combattere la morte, in qualche modo trascendendola.
La parola scritta, da questo punto di vista, ha una funzione enormemente superiore alla parola orale.
Perché “verba volant, scripta manent”.
© Giovanni Lamagna
Psicoanalisi e poesia.
La sfida della psicoanalisi è quella di trasformare il non-detto in detto.
Di portare alla luce il rimosso.
Di trovare “le parole per dirlo”.
A pensarci è una dinamica molto simile a quella della poesia.
© Giovanni Lamagna