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Età avanzata, vecchiaia e poliamore.

Più volte negli ultimi tempi, alcuni amici, che leggono spesso (bontà loro!) questi miei articoletti, mi hanno chiesto, tra il serio e il faceto, se le mie frequenti riflessioni sulla sessualità (in modo particolare la mia critica alla monogamia e una certa sponsorizzazione da parte mia della pratica, che si va sempre più diffondendo oggi, del “poliamore”) avessero a che fare con la mia incombente vecchiaia.

Sotto, sotto, in maniera manco troppo celata, per quanto scherzosa e pur sempre amichevole, questi amici paventavano – ho avuto l’impressione – una mia tendenza ossessiva verso questi argomenti e forse anche un vegliardo delirio di onnipotenza, proprio quando obiettivamente l’età oramai molto avanzata non favorisce certo la plenitudine della vita sessuale e delle sue prestazioni.

Sono consapevole che tali allusioni (e forse financo preoccupazioni) potrebbero avere (e, forse hanno) un qualche fondamento e perciò intendo confrontarmi con esse, senza sottrarmi non solo all’ironia, per quanto (almeno apparentemente) benevola, bonaria, ma anche alle critiche eventuali verso una posizione ritenuta non solo estremista, utopistica, ma persino stonata (in una persona della mia età) e, quindi, tutto sommato patetica.

A queste critiche velate, per quanto – ripeto – rivestite di bonarietà ed intatta amicizia, dopo essermi esaminato, come faccio di solito quando qualcuno mette in discussione le mie “certezze”, rispondo con i tre argomenti che seguono.

1 Mi capita da alcuni anni non solo di scrivere (come faccio oramai da decenni) privatamente sul mio diario, ma di rendere pubbliche (via email, facebook e su qualche libretto) le mie riflessioni su tutta una varietà di argomenti, tra i quali quello relativo alla sessualità.

Lo faccio, forse, “anche” per una forma di esibizionismo e, quindi, di narcisismo: questo non posso escluderlo del tutto.

Ma, se fosse solo per narcisismo, voglio dire per un narcisismo smaccato ed acclarato, credo che in fondo me ne vergognerei e che non oserei sfidare il fastidio che esso inevitabilmente e giustificatamente provocherebbe in quelli a cui indirizzo le mie riflessioni, per quanto amici (e, quindi, tolleranti nei miei confronti) essi possano essere.

Cosa è, allora, che mi spinge a rendere pubbliche certe riflessioni che non solo sono molto intime, ma spesso toccano argomenti che solitamente si tengono riservati e che (forse) possono addirittura offendere il senso del pudore di coloro che mi leggono o, almeno, di alcuni di loro?

La risposta (meditata) è questa: io considero la vita un viaggio e, come del resto accade a molti viaggiatori, a me piace raccogliere “note di viaggio”, quelle che io considero “mappe di orientamento”, relative ai sentieri e alle vie che sto percorrendo o che ho già percorso.

Ritengo allora di offrire una sorta di “servizio pubblico” rendendo manifeste queste mie “note di viaggio” e queste mie “mappe di orientamento”.

Può darsi pure, anzi è molto probabile, che esse non risulteranno utili a o attraenti per nessuno; ma, quand’anche dovessero risultare utili o attraenti anche solo in qualche sporadico caso e anche solo ad uno dei miei sparuti lettori (come talvolta mi succede di avere riscontro), la mia sensazione (potrei dire anche la mia convinzione) è di non aver soddisfatto solo una mia sterile pulsione narcisistica, come forse ai più apparirà.

Dunque, in sintesi e per tentare di dare una risposta alla domanda che mi sono fatto poco sopra, se io oggi rendo pubbliche certe mie riflessioni su sessualità e dintorni, non lo faccio tanto perché penso di poter mettere (io) in pratica le cose che mi capita di sentire, comprendere e di scrivere, ma perché penso e spero che esse possano risultare utili e attraenti in qualche modo a chi verrà dopo di me, a chi è più giovane di me, in qualche modo traendo frutto e facendo tesoro (anche) da quanto io ho potuto sperimentare nel corso della mia vita, comprese le mie frustrazioni e i miei fallimenti, anzi traendo insegnamenti soprattutto da questi ultimi.

E’ forse presunzione la mia? Può darsi. Ma non ne sono del tutto sicuro. Anzi in tutta sincerità non lo penso affatto. E allora oso scrivere di certi argomenti, anche se a qualcuno la mia potrà sembrare presunzione e vanità. Disposto ad affrontare, dunque, a viso aperto, le critiche e le ironie che me ne verranno.

2. Io non penso affatto (come, forse, i più – a mio avviso con troppa faciloneria tendono a ritenere – compresi alcuni illustri psicologi e psicoanalisti, di cui ho letto molto, quali – per fare solo due nomi – Galimberti e Recalcati) che il cosiddetto “poliamore” sia sinonimo di dongiovannismo, di casanovismo e (meno che mai) di ossessione, dipendenza, mania sessuale, ipersessualità.

Che in alcuni casi sia “anche” questo, forse, è vero; che alcuni puri e semplici maniaci sessuali possano definirsi oggi (visto che il termine è in voga) poliamorosi, è probabile.

Questo però non vuol dire che tale identificazione sia giusta ed appropriata sempre e per chiunque oggi si definisca “poliamoroso”.

Cosa è, infatti, per me il “poliamore”? E’ una visione dell’amore e della sessualità che si distacca, distingue, da quello che è stato finora il modo prevalente di vedere e di vivere sia l’uno (l’amore) che l’altra (la sessualità), fondato sulla esclusività del sentimento e del legame.

E’ l’idea, anzi la convinzione, che un amore non escluda altri amori, che più amori possano convivere serenamente e apertamente in contemporanea, senza sotterfugi e inganni (come, purtroppo, è avvenuto in passato – per secoli, anzi millenni – e come avviene anche oggi nella maggior parte dei casi), se il sentimento del possesso e quello della gelosia (che scattano inevitabilmente quando un amore nuovo insorge in presenza di un amore “vecchio”, ma ancora vivo) vengono educati e superati.

Non è, insomma, niente affatto la ricerca ossessiva, spasmodica e, quindi, anche per me del tutto nevrotica, se non addirittura psicotica, di più legami amorosi e sessuali; in questo caso, a dire il vero, in genere più sessuali che amorosi.

E’, invece, la disponibilità serena, tranquilla, niente affatto ossessiva, a viversi più legami amorosi, laddove se ne presentassero le condizioni, le opportunità e laddove questi fossero occasioni di crescita e di arricchimento di tutti i legami amorosi in atto.

Il poliamoroso, dunque, non ha niente a che fare con gli archetipi del don Giovanni e del Casanova, i quali vivono le loro conquiste amorose come trofei da aggiungere ad una metaforica galleria/bacheca, da ostentare con fanatico e narcisistico orgoglio.

Il poliamoroso è semplicemente una persona aperta, che rimane aperta anche quando vive un legame amoroso solido e ancora valido, perché sperimenta che un nuovo amore non cancella quello precedente e che gli amori (se sono veri amori) non si escludono a vicenda.

Il poliamoroso è oltretutto una persona che (al contrario del dongiovanni) dà molta più importanza all’amore che al sesso; anche se non sottovaluta affatto il sesso, perché ha sperimentato ed è convinto che il sesso è (o, almeno, può essere) una delle manifestazioni dell’amore, in molti casi la sua espressione più intima e profonda.

3. I due argomenti precedenti se ne tirano dietro un terzo, che è il seguente: almeno in linea teorica, anche una persona anziana può essere aperta alla poliamorosità; perché questo non comporta nessun velleitarismo, nessuna smania di prestazioni sensazionali, nessuna ricerca spasmodica e ossessiva di nuove performance amorose e, meno che mai, sessuali.

Comporta solo un’apertura mentale e il superamento di alcuni tabù consolidati che le epoche precedenti ci hanno trasmessi e di cui un po’ tutti quanti noi, anche i più disponibili ai cambiamenti, facciamo fatica a liberarci.

Sono convinto che anche una persona anziana possa, anzi debba, rimanere aperta a nuovi incontri e possa assaporare addirittura nuovi amori; questi, se gli capiteranno, non potranno che fare bene alla sua salute, a quella fisica e a quella psicologica.

Ovviamente, però, non dovrà confondere i nuovi amori col “primo vero grande amore”; non dovrà confondere il nuovo amore con l’amore dei suoi sogni, secondo l’idea romantica, ancora dura a morire e largamente prevalente anche tra gli anziani.

Ma, soprattutto, non dovrà perdere la testa confondendo la “novità” con la “superiorità” del nuovo amore rispetto a quello “vecchio”, già in corso e, oramai, datato; dovrà conservare la lucidità di pensare che un amore nuovo non cancella (necessariamente) l’amore che lo ha preceduto, ma che i due amori possono convivere benissimo, se ci si educa ad un modo meno rigido e convenzionale, più aperto e flessibile, di vivere i propri rapporti.

Infine, con l’avanzare sempre più incalzante dell’età dovrà, forse, prendere atto che la stagione degli amori plurimi per lui è finita e che, nel migliore dei casi, egli oramai sarà in grado di viversene uno solo.

Ma questo dato di realtà non gli chiederà affatto di rinnegare la teoria e la pratica poliamorose; che, se non varranno più per lui, saranno valide comunque per quelli più giovani di lui; e, quindi, comunque degne di essere da lui condivise e propagandate, almeno in teoria, se non nella pratica reale.

Che è esattamente il mio caso; per questo mi capita di parlarne spesso, anche a costo di sottopormi all’ironia benevola di amici e conoscenti.

Non certo perché io pensi che alla mia età si possa realisticamente mettere in pratica la teoria poliamorosa.

Ma perché penso che parlarne possa favorire (specie nei molto più giovani di me) un nuovo modo di pensare l’amore e la sessualità e contribuire quindi alla nascita di una società più aperta, più libera, più tollerante, oltre che meno ipocrita, di quella attuale.

© Giovanni Lamagna

Troppo buoni ed esibizionismo

Trovo sgradevoli, a volte insopportabili, quelli troppo “buoni”: sempre pronti a sacrificarsi, a mostrarsi generosi, amorevoli, altruisti.

In certi discorsi e in certi comportamenti avverto spesso puzza di demagogia e di retorica, di narcisismo e di esibizionismo.

Quello di buono che c’è (se pure c’è) è sommerso molte volte dalla vanità, dal desiderio malcelato di farsi ammirare, elogiare.

Unica, vera, non certo autentica e disinteressata, motivazione, in molti casi, a “fare il bene”, a “dare amore”.

© Giovanni Lamagna

Gli archetipi del “femminile” (dal punto di vista di un maschio)

1.Introduzione

Sono profondamente convinto che non esista un unico archetipo del “femminile”, ovverossia un unico modo di essere donna o (per meglio dire) un unico modo di vedere e vivere la donna da parte del maschio, ma che ne esista una pluralità.

Ovviamente quelli che proverò a individuare e definire non pretendo che siano GLI archetipi dell’essere donna. Essi sono solo i MIEI archetipi, quelli che il mio immaginario (di maschio) associa alla figura della donna.

Anche se ho buoni motivi per ritenere che non siano solo i miei, ma siano anche quelli di molti altri maschi. E (con qualche presunzione, spero non del tutto infondata) anche quelli in cui si riconosceranno non poche donne.

E vengo al dunque, per dire che i miei archetipi dell’essere donna sono otto : 1) la “vergine/madonna”, 2) la “figlia”, 3) la “fidanzata”, 4) la “moglie”, 5) la “madre”, 6) l’ “amante”, 7) la “nonna”; 8) la “zoccola/puttana”.

A mio avviso (ad avviso, quindi, di un maschio; lo ripeto per l’ennesima volta, ad evitare equivoci, che diventano quasi inevitabili, purtroppo, quando si cammina su un terreno così minato) una donna è tanto più realizzata e completa nella misura in cui riesce ad incarnare in sé il numero maggiore possibile di questi archetipi.

La donna top, la più realizzata è (per me) quella che è riuscita, nel corso della sua vita, ad incarnarli tutti. O, meglio, a viverli tutti in sequenza come tappe progressive  della sua storia evolutiva.

Una donna, invece, che è solo o prevalentemente “vergine/madonna” è incompleta, incompiuta: è una donna che ha realizzato solo una parte di sé, del suo potenziale di femminilità.

Così è per la donna che è o resta prevalentemente “figlia” o “fidanzata” o “moglie” o “amante” o “nonna” o “zoccola/puttana”.

La donna completa, perfettamente compiuta, è per me quella che riassume dentro di sé, che ha vissuto e vive senza contraddizioni, ma in modo naturale e tra di loro integrati, tutti gli archetipi che ho nominato sopra.

E la cosa, ovviamente, me ne rendo perfettamente conto, non è affatto semplice.

Di solito la maggior parte delle donne riesce a identificarsi nell’archetipo di “figlia” (in genere fino alla fine dell’adolescenza), poi in quello della “fidanzata” (in genere per un breve lasso di tempo), poi in quello di “moglie” (in genere per molti anni), talvolta in quello di “amante” (da un certo tempo in poi e per periodi molto variabili), infine in quello di “nonna” (nell’ultima fase della vita).

E’ difficile, raro, trovare donne che si riconoscano pienamente nell’archetipo della “vergine/madonna”. Ed è ancora più difficile e raro trovare donne che si riconoscano e riescano a realizzarsi nell’archetipo della “zoccola/puttana”.

E’ quasi impossibile, infine, (una cosa più unica che rara) trovare una donna che si riconosca e realizzi in entrambi questi due ultimi archetipi, che dal senso comune vengono considerati opposti e, quindi, inconciliabili.

Eppure, a mio avviso, è proprio questa la donna completa, la donna ideale, quella che realizza appieno tutto il suo potenziale di femminilità. Come cercherò di dimostrare nell’ultimo paragrafo di questa riflessione.

L’archetipo della “vergine/madonna” e quello della “zoccola/puttana” sono ovviamente gli estremi di un ampio spettro, di un’ampia gamma di figure femminili, che si differenziano significativamente dagli altri sei per due ordini di motivi.

Il primo è che gli altri sei (quelli della “figlia”, della “fidanzata”, della “moglie”, della “madre”, dell’ “amante” e della “nonna”) indicano quasi le fasi di passaggio, le tappe della storia evolutiva, psicologica e relazionale, potremmo dire perfino le età, di una donna normale, comune.

Gli altri due (quello della “vergine/madonna” e quello della “zoccola/puttana”) non corrispondono a nessuna delle fasi di crescita e di evoluzione della donna, ma costituiscono piuttosto le caratteristiche precipue di un certo tipo di personalità femminile, a prescindere dalla sua età e dallo stadio della sua evoluzione psicologica.

L’altro motivo è che, mentre gli archetipi della figlia, della fidanzata, della moglie, della madre, della nonna e, perfino, quello dell’amante sono piuttosto comuni e ricorrenti, stavo per dire “normali”, nella storia di una qualunque donna, quella della “madonna” e quella della “puttana” sono, invece, “figure archetipe” molto peculiari, piuttosto singolari o molto poco comuni.

Nel senso che sono poche le donne che nella storia le hanno incarnate allo stato puro e totalitario. E, ancora oggi, poche le donne che ad esse si ispirano ed in esse si riconoscono.

Non mi soffermerò molto sulle figure dei sei archetipi più comuni, perché appunto sono piuttosto comuni e su di essi sono già stati spesi dai tempi più antichi milioni di parole da alcuni pensatori certamente molto più autorevoli di me.

Se non per rimarcare ancora e in maniera più chiara ed esplicita che essi segnano o dovrebbero segnare, almeno a mio avviso, le tappe della storia evolutiva della donna, di una qualsiasi donna.

Una donna sarà tanto più matura, evoluta e, quindi, realizzata, quante più di queste tappe avrà percorso, non solo (e manco principalmente) nel senso materiale ed esteriore del ruolo sociale a ciascuna di esse corrispondente, ma nel senso profondo, psicologico, interiore e spirituale, direi simbolico, che a ciascuna di esse si riferisce.

Concludo questa introduzione affermando che, se io come maschio mi sono arrogato il diritto (che già immagino più di una donna mi contesterà) di delineare quelli che ritengo siano “gli archetipi del femminile” (almeno dal punto di vista del maschio), analogo diritto riconosco ovviamente alla donna o alle donne che volessero arrogarsi lo stesso diritto nei confronti del “maschile”.

Anzi mi auguro che questa mia riflessione possa essere loro di stimolo ed incitamento.

Nel qual caso io e sono sicuro come me molti altri maschi non solo non avremmo niente in contrario, ma ne saremmo felici. Perché credo che un’analoga riflessione, dal punto di vista delle donne, su “gli archetipi del maschile” risulterebbe utile sia alle donne che ai maschi. Per migliorare la comprensione e la comunicazione (non sempre facili, anzi spesso molto complicate) tra i nostri due sessi.

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  1. Gli archetipi della figlia, della fidanzata, della moglie, della madre, dell’amante e della nonna.

Dal punto di vista anagrafico e sociale ogni donna nasce figlia, ovviamente.

Poi, normalmente, ad una certa età, la donna si “fidanza” (una volta si sarebbe detto “viene promessa o si promette ad un uomo”).

Poi, ancora, dopo qualche mese o anno di fidanzamento, la donna generalmente si sposa.

Quindi (se non ci sono impedimenti fisici o scelte soggettive di natura diversa) una donna, specie se sposata, diventa madre.

Ad una certa età poi (di solito tra i 35 e i 45 anni), una donna può provare l’ebbrezza di innamorarsi di nuovo, di un uomo diverso dal marito. E, quindi, sperimentare, incarnare, anche il ruolo dell’amante.

Infine, ancora un po’ più in là (di solito tra i 50 e i 60 anni, a volte prima, talvolta più tardi) una donna diventa nonna.

Queste sono le tappe quasi normali (a parte la penultima, che lo è un po’ di meno) del divenire, della vita evolutiva dell’essere donna.

Non sempre, però, a queste tappe (definite dalle aspettative sociali diffuse e, in qualche caso, anche dallo stato civile) corrispondono tappe analoghe, altrettanto chiare e nette, sul piano della crescita e dell’evoluzione psicologica della singola donna concreta, in carne ed ossa.

Ci sono, infatti, donne che restano figlie a vita, anche dopo essersi sposate, addirittura anche dopo essere diventate madri e, magari, persino, dopo essersi fatte un amante.

E questo perché non hanno mai resecato il cordone ombelicale che le teneva legate alla loro madre: sono in effetti restate bambine, dipendenti dalle figure genitoriali, specie da quella materna.

Sono, ad esempio, le donne che stanno spessissimo a casa di “mammà”, pur avendo, magari, una casa propria, un marito e dei figli a cui badare. O che passano ore al telefono con la loro genitrice, più che con le loro amiche.

Sono le donne che magari delle amiche manco avvertono il bisogno o il desiderio, perché lo spazio che queste occuperebbero nella loro vita è già “presidiato” da “mammà”.

Ci sono poi altre donne che rimangono (almeno psicologicamente) fidanzate a vita, perché non hanno mai fatto la scelta di sposarsi fino in fondo. Nel senso che stanno con un piede nella coppia che hanno costituito con il matrimonio e con l’altro piede sono rimaste nella loro famiglia di origine.

Alcune di queste donne rimangono “fidanzate a vita” non solo psicologicamente, ma realmente, perché non arrivano mai a fare il passo del matrimonio, ma passano di fidanzamento in fidanzamento, senza trovare mai (così si “giustificano” loro) la “persona giusta”.

In realtà non si sposano mai, perché non hanno il coraggio e quindi la capacità di tagliare i legami primari, quelli della famiglia di origine, di abbandonare gli ormeggi rassicuranti della loro infanzia e adolescenza e prendere il largo nel mare della vita adulta.

Altre donne, invece, si compenetrano talmente nel loro ruolo di mogli e di spose che diventano totalmente dipendenti dal marito, perse per lui. Gelosissime, ovviamente, e possessive.

Per dedicarsi al loro “maritino” rinunciano ad ogni altro interesse: amicale, professionale, intellettuale, culturale. Sono tutte casa e famiglia. Un cuore e una capanna. Sono perciò l’archetipo della “moglie”.

Alcune donne che diventano madri, invece, vengono totalmente assorbite da questo ruolo, quello di “madre”, che è indubbiamente uno degli archetipi più forti e ricorrenti dell’essere donna.

Si dedicano talmente ai figli da arrivare a trascurare perfino il marito o da vivere il marito come se fosse anche lui un figlio.

Queste donne quasi sempre finiscono per trascurare la sessualità, perché la sublimano completamente nella maternità.

La donna “amante”, infine, è la donna che, giunta alla soglia della mezza età, si sente ancora pienamente femmina. Sente ancora forte la pulsione della sessualità e, se il rapporto col marito, almeno da questo punto di vista, langue (come spesso succede, dopo l’arrivo dei figli o anche solo dopo un certo numero di anni di convivenza) allora ricerca in un altro uomo quello che non ritrova più nel rapporto coniugale.

Questa dinamica a tre (o, addirittura, a quattro, col marito che magari si fa anche lui l’amante) alle volte finisce paradossalmente per “salvare” alcuni dei matrimoni che stavano andando in crisi, perché offre loro la possibilità di trovare nuovi (e più soddisfacenti) equilibri, sostitutivi di quelli oramai logori e perciò insoddisfacenti.

Ovviamente, questi matrimoni vivono (e si reggono, paradossalmente) su una scissione fondamentale, in alcuni casi radicale: da una parte ci sono l’ebbrezza e il senso di avventura del sesso (vissuto con l’amante), dall’altra c’è la sicurezza e la tranquillità degli affetti (vissuti col coniuge e con la famiglia).

La donna più evoluta, quindi, dal punto di vista psicologico è per me di gran lunga la donna “amante”. Perché è la donna che ha saputo vivere e superare tutti i ruoli precedenti della donna, quelli cioè che (in parte) la natura e (in parte) la società assegnano all’evoluzione femminile, senza fissarsi, cioè senza rimanere bloccata, in nessuno di essi.

Intendiamoci, la “donna amante” per me è un archetipo, cioè una figura simbolo, che allude e rappresenta determinate categorie psicologiche, prima e più che una situazione reale, effettiva.

Quindi non voglio affatto dire che ogni donna, per evolvere e realizzare al massimo grado la sua femminilità, debba necessariamente farsi un amante. Quello che voglio dire è che la donna pienamente realizzata è la donna che resta “amante”, femmina, cioè sessualmente viva, anche dopo il matrimonio e dopo la maternità.

Per questo tipo di donna, quindi, l’amante (come figura simbolica e non necessariamente concreta, reale) può anche essere (restare) il marito, se il rapporto con lui è riuscito a mantenersi vivo e vitale, malgrado il passare degli anni (che corre il rischio di logorare la libido) e l’arrivo/presenza (obiettivamente ingombrante e ostacolante) dei figli.

Se, insomma, non è rimasta fissata, bloccata, al suo ruolo di madre come spesso succede. Se il suo essere madre non le ha fatto dimenticare e rimuovere il suo essere femmina. E se il suo aver messo al mondo dei figli non ha bloccato a sua volta il marito, che non la vede più come femmina, ma solo come la madre dei suoi figli.

L’amante, insomma, per me non è necessariamente la donna che si fa un altro uomo, ma piuttosto la femmina pienamente realizzata, che non ha rinunciato alla sua sessualità, dopo aver vissuto la fase della maternità.

Ma anzi la vive con ancora maggiore libertà e soddisfazione. Perché ha superato e risolto le timidezze e le pruderie, se non le vere e proprie paure, i cosiddetti tabù del sesso, che quasi sempre accompagnano l’adolescenza e la prima giovinezza.

E’, insomma, la donna che ha oramai alle spalle parecchi anni di vita sessuale intensamente vissuta ed ha imparato a goderne con sempre maggiore gusto e pienezza, fisica ed emotiva.

Perciò “l’amante” può essere benissimo la donna di mezza età (tra i 35 e i 50 anni), con un marito che ama ancora e ne è riamata, con dei figli oramai abbastanza grandi e autonomi o, quantomeno, nella fase della scolarità post-elementare, con un suo lavoro e una sua indipendenza economica, infine con una sua vita sessuale non solo ancora viva, ma ancora più liberata e felice dei suoi inizi.

Per concludere, ciò che a me preme dire a proposito di questo archetipo femminile è che “l’amante” è la donna nel massimo splendore della sua femminilità e nella fase della sua massima realizzazione come donna, da tutti i punti di vista. Non necessariamente, quindi, la donna che “tradisce” il marito.

Perché l’amante in realtà ce l’ha già, sta in famiglia, è il marito, se costui – al pari della moglie – si dimostrerà, anche lui, un uomo nel massimo splendore della sua mascolinità e nella fase della sua massima realizzazione umana da tutti i punti di vista: psicologica, culturale, professionale, spirituale in senso lato.

Altrimenti la donna, che vorrà restare ancora femmina vitale, l’amante se lo cercherà (quasi inevitabilmente) fuori della famiglia.

Questo succede (quasi fatalmente) nel caso in cui il marito si sarà “distratto” e, invece di dedicarsi a se stesso, alla sua crescita personale (caratteriale, culturale, professionale, relazionale, spirituale…), si sarà lasciato andare, dando per “scontato” ed “eterno” (errore fatale!) il suo rapporto con la moglie.

Infine e per chiudere questo paragrafo, l’archetipo femminile che si realizza in genere per ultimo in ordine di tempo nella vita di una donna è quello della “nonna”.

Anche questo archetipo della “nonnità” costituisce un momento molto importante nella storia evolutiva di una donna e, come del resto tutti quelli che lo hanno preceduto, è caratterizzato da un’ambivalenza, che ogni singola donna dovrà poi sciogliere in un senso o nell’altro opposto.

Non ci sono dubbi che esso costituisca una possibilità di notevole arricchimento dal punto di vista emotivo e affettivo.

Io dico spesso (avendone fatto esperienza personale) che il diventare nonni rappresenta un botta di vita sia per il nonno che per la nonna, forse ancora di più che il diventare padre o madre.

Probabilmente perché nonni si diventa in età abbastanza avanzata, mentre padri e madri lo si diventa quando si è ancora abbastanza giovani.

E allora la nascita di una nuova creatura, che di per sé rappresenta il segno della vita che continua, che si perpetua, lo è forse più forte, più chiaro e distinto, per una nonna e un nonno che per una madre e un padre.

Questo accade, forse, perché la nonna e il nonno, che sentono tristemente avvicinarsi la data di scadenza della loro vita, nel momento in cui ne vedono nascere una nuova, fatta del loro stesso sangue, avvertono in modo particolarmente vivo la sensazione che la loro esistenza in qualche modo si prolunga nel tempo. E, perciò, ne sono fortemente gratificati.

Quindi non ci sono dubbi che quella della “nonnità” sia una grande esperienza dal punto di vista emotivo ed affettivo. Non fosse altro che per questo sentimento di fondo che essa riesce a comunicare, oltre che per la grande e particolarissima tenerezza che, in genere, caratterizza il rapporto tra i nonni e i nipoti.

E, però, come dicevo prima, essa può rappresentare anche un’esperienza di ripiegamento e di involuzione; e per questo niente affatto positiva.

Questo succede quando è vista, sentita e vissuta come surrogatoria o del tutto sostitutiva di esperienze considerate come oramai definitivamente concluse o al tramonto.

Quando, per restare al discorso degli archetipi del femminile, la donna si dimentica ulteriormente del suo essere femmina, rinuncia allora definitivamente alla dimensione della sessualità e così al fallo del marito/compagno sostituisce (simbolicamente) il fallo rappresentato dal/la nipote.

Quando la nonna, ad esempio, sta più tempo a casa dei figli o delle figlie, per accudire i nipoti, che a casa sua; o quando si lascia talmente assorbire dal ruolo di nonna (quasi baby sitter) da rinunciare a vivere la “sua” vita e dedicarsi a interessi e impegni molteplici e diversificati, ma, soprattutto, continuare a coltivare il rapporto col marito/compagno.

Quando insomma il focus del “desiderio fondamentale” della donna diventata nonna si è spostato radicalmente e quasi completamente; e finisce per essere incentrato molto di più sul/la nipote che sul marito/compagno.

In questo caso l’esperienza della “nonnità” non costituisce, almeno a mio avviso, una fase di ulteriore evoluzione positiva della psicologia del femminile, ma piuttosto un suo momento di involuzione e di regressione.

Insomma e per concludere, si può essere “nonna sexy” e “nonna baby sitter”. Nel primo caso l’archetipo della “nonna” rappresenta un valore aggiunto, un’ulteriore tappa progressiva ed evolutiva della psicologia femminile. Nel secondo caso costituisce una sua tappa regressiva ed involutiva.

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  1. L’archetipo della “madonna vergine”.

E vengo, adesso, ai due archetipi femminili che sono meno frequenti, nel senso che solo raramente si vedono realizzati allo stato puro e completo da qualche donna in carne ed ossa, ma che comunque fanno parte dell’immaginario maschile. Non certo in maniera secondaria.

E, forse, almeno in qualche misura, ispirano anche i comportamenti e le scelte delle donne cosiddette comuni, normali; quindi della maggior parte delle donne. Alcune delle quali vi si avvicinano moltissimo, altre molto poco o per nulla.

Parlo dell’archetipo della “madonna” e di quello della “puttana”.

Due archetipi apparentemente opposti, nel senso che l’uno sembra escludere l’altro.

E in effetti, quasi sempre, l’incarnazione dell’uno ha escluso storicamente l’altro e viceversa.

Anche se per me (come cercherò di dimostrare nella parte conclusiva di questa riflessione) non è affatto vero che si escludano a vicenda, perché essi invece potrebbero benissimo integrarsi, completandosi l’uno con l’altro, dando corpo e anima al tipo di donna forse più completo che si possa immaginare.

Allora, chi è la “madonna” per me?

E’ la donna (quasi) asessuata, tutta spirituale, la donna angelicata, di solito vergine, ma anche (perché no?) la donna che, dopo aver vissuto l’esperienza della sessualità, in genere dopo averla “santificata” con il sacramento del matrimonio, se ne ritrae profondamente delusa, se non “schifata”, e ci rinuncia definitivamente o per una lunga fase.

La sua incarnazione perfetta, quella storicamente senz’altro più nota, è Maria, che diventa madre del Cristo Gesù. Ma senza aver conosciuto uomo, bensì per opera dello Spirito Santo: quindi rimane vergine anche dopo il parto.

Che cosa rappresenta per me, psicologicamente e in senso profondo, questo archetipo, al di là delle sue versioni concrete, storiche, materiali, come quella rappresentata da Maria, madre del Cristo?

La “madonna” è, per me, l’archetipo della donna che vuole dimostrare a se stessa e agli altri che è possibile vivere (e bene, felicemente) anche senza sesso.

In nome della aspirazione (apparentemente legittima, in realtà nevrotica, come vedremo) alla libertà, alla non dipendenza, da un bisogno, che può diventare (almeno secondo il suo immaginario) una schiavitù.

E che, in ogni caso, la lega ad un altro essere umano per essere soddisfatto. Mentre lei coltiva la fantasia (appunto, del tutto nevrotica) di essere assolutamente libera ed indipendente.

E’ la donna, quindi, che dà importanza a molte cose, a volte addirittura assolutizzandole, ma molto poca o addirittura nessuna a quelle che hanno a che fare col sesso.

Dà importanza, ad esempio, al suo lavoro/professione, allo studio e alla ricerca intellettuale, in alcuni casi (ma neanche sempre) alle relazioni (specie a quelle amicali e filantropiche), ma soprattutto dà largo spazio alla vita spirituale, intesa come vita ascetica e mistica.

E, però, dà poca (o quasi nessuna) importanza al suo corpo, arrivando in certi casi addirittura a mortificarlo, se non proprio a rinnegarlo.

E, per conseguenza, dà poca o nessuna importanza alla sua immagine esteriore ed estetica; ad esempio, al suo abbigliamento, al trucco…

Mentre dà, invece, molta, anzi un’estrema importanza alle cose interiori, alla vita dello spirito (ovviamente inteso come “puro spirito”, quindi come disincarnato e, perciò, poco umano, per non dire disumano).

E, per fare questo, può arrivare a mortificare i suoi desideri corporei, il piacere, le sensazioni e perfino le emozioni e i sentimenti.

Specialmente tutti quei desideri, piaceri, emozioni e sentimenti che sono collegati in qualche modo alla sessualità.

La “madonna/vergine” in questo modo, non c’è dubbio, conquista (almeno apparentemente, perché a mio parere in realtà si illude; e perciò è nevrotica) una libertà interiore che altre donne, la maggior parte delle donne, non hanno.

Ma rinuncia a una dimensione che non è detto debba necessariamente essere sinonimo di dipendenza o addirittura di schiavitù dall’altro, dal maschio.

Perché il sesso può essere anzi (e in molti casi è) uno dei modi privilegiati e più significativi della comunicazione tra due esseri umani.

Icone di questo archetipo nella storia ce ne sono state moltissime.

Oltre alla Madonna, madre di Gesù, lo sono le molte sante vergini della Chiesa Cattolica, da santa Caterina da Siena, a Teresa d’Avila, a Teresa del Bambin Gesù, fino alla (per venire ai tempi più moderni) famosa madre Teresa di Calcutta.

Ma lo sono anche le vergini che custodivano alcuni templi nell’antica Grecia e nell’antica Roma. A significare che anche in culture lontanissime da quella cristiana, pure impregnate di eros, di sensualità e carnalità, come quella greca e quella romana antiche, alla “verginità” di alcune donne veniva riconosciuto un valore speciale, addirittura sacro.

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  1. L’archetipo della “puttana”.

Cosa rappresenta, invece, l’archetipo della “donna puttana”? Potrei cavarmela dicendo: rappresenta tutto il contrario dell’archetipo della “madonna-vergine”. Ma sarebbe troppo semplice. Ed io, invece, non voglio sfuggire la domanda.

Comincio allora col dire che l’archetipo della “donna-puttana” per me non coincide affatto con “la donna che fa il mestiere”, cioè con la donna che letteralmente si prostituisce in cambio di soldi.

E che quindi il termine “puttana” è quantomeno improprio e, perciò, sarebbe da evitare (ne sono perfettamente consapevole), se non fosse che è proprio questo il termine che la società (sui grandi numeri almeno) affibbia (in modo – lo so bene – spregiativo; ma non è in questo senso che io ovviamente lo adopero) al tipo di donna che per me costituisce questo archetipo.

E, quindi, rende bene l’idea e perciò a mio avviso è legittimo usarlo, anche se con le avvertenze di cui sopra. Perché ha a che fare con un immaginario collettivo ben reale, anche se non con un ruolo sociale vero e proprio.

D’altra parte anche l’archetipo della “donna vergine”, di cui ho parlato ampiamente prima, ha una sua consistenza principalmente simbolica e non necessariamente reale. E proprio per questo costituisce un archetipo, non corrispondente esclusivamente e necessariamente a un ruolo sociale.

E, allora, chi è la “donna puttana”, ovverossia la donna che nell’immaginario collettivo diffuso è una zoccola e una puttana?

Per me è la donna che mette al centro dei suoi interessi il suo corpo, così come la “madonna” mette al centro dei suoi interessi il suo spirito.

Anzi (e per dirla tutta) è la donna che dà un’importanza centrale alla dimensione erotica e sessuale della sua vita.

La donna “puttana” è dunque innanzitutto (se non esclusivamente) “corpo”, così come la donna “vergine” è innanzitutto (se non esclusivamente) “spirito”, anima.

E’ la donna, dunque, che è molto sensibile ai piaceri della carne, che ne vuole godere e non ne fa mistero.

E’ la donna che non inibisce, ma anzi ostenta (a volte addirittura in maniera vistosa) i suoi desideri.

E’ la donna a cui piace esibirsi, mostrarsi.

E’ la donna seduttiva, che ama essere guardata, ammirata, corteggiata.

E’ la donna che gode a sentire il desiderio dell’altro, che se ne sente eccitata.

Allo stesso tempo è la donna che ha piacere a donare piacere.

Che prova piacere a vedere che un uomo è eccitato per lei.

Perfino se quest’uomo non le piace e non la attrae particolarmente: lei è lusingata (e quindi eccitata) già dal solo fatto di riuscire a provocare eccitazione ed esercitare così un potere.

E’ la donna che usa un linguaggio molto libero, che sa esprimere i suoi desideri con parole molto esplicite, talvolta anche in forme convenzionalmente scorrette.

Che sa ricorrere (ovviamente nel contesto adatto) anche ad espressioni che comunemente sarebbero giudicate volgari o sguaiate: da “puttana”, appunto!.

E’ la donna che non attende l’iniziativa del maschio per fare delle avance seduttive, ma è capace di prenderla per prima.

E’ la donna che per questo si veste e si trucca in modo ammiccante, che si muove in modo provocante.

E’ la donna che in qualsiasi situazione è capace di attrarre l’attenzione.

Icone di questo archetipo sono donne come Moana Pozzi o Jessica Rizzo, per fare solo due esempi di famosissime pornostar, che hanno segnato moltissimo negli anni trascorsi (e, forse, lo segnano ancora oggi) l’immaginario maschile, sicuramente hanno segnato l’immaginario sessuale di tantissimi maschi della mia generazione.

Anche in questo caso ci troviamo in presenza di una estremizzazione unilaterale (e quindi nevrotica) di una dimensione (quella della corporeità e quella della sessualità, intimamente legata alla corporeità) che, se non isolata ed esasperata, sarebbe, anzi è, del tutto legittima e sana, ma diventa invece nevrotica, se trascura altre dimensioni (altrettanto legittime e importanti) dell’umano (in particolare quella emotivo-affettiva e quella intellettuale-culturale) e se non si integra e armonizza con esse.

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  1. La donna “vergine e puttana”.

Secondo il senso comune, secondo l’immaginario collettivo, ma – a dire il vero – anche secondo una certa letteratura “colta”, anzi la gran parte di essa, questi due archetipi, quello della “madonna-vergine” e quello della “zoccola-puttana”, sono non solo opposti, ma anche reciprocamente escludentesi.

Io penso, invece, che essi siano opposti ed escludentesi solo nella loro versione negativa, che mi verrebbe di definire “psicopatologica” o quasi. Ma non lo siano affatto se considerati nella loro versione positiva, sana, cioè integrata, armoniosa e non parziale, unilaterale ed estremizzata.

Infatti, la “madonna”, che rinnega o mortifica la carne, la sua immagine esteriore, i piaceri, il sesso, considerandoli realtà inferiori rispetto allo “spirito” o, addirittura, negativi e peccaminosi, è una donna “nevrotica”.

E’ una donna inibita, repressa, che, nei casi estremi, può arrivare addirittura alla psicosi schizofrenica, nel senso letterale del termine.

E’ una donna dalla personalità scissa, in certi casi gravemente scissa, che vive la dimensione corporea e quella emotivo-affettiva separate, staccate, dalla dimensione intellettuale e da quella spirituale, con una netta prevalenza delle ultime due sulle prime due, se non addirittura una totale esclusione delle prime due.

Allo stesso modo una donna che pensa solo al sesso, che cura prevalentemente o, addirittura, esclusivamente la sua immagine esteriore e corporea, che non si lascia coinvolgere ad un livello anche emozionale, intellettuale e spirituale nel rapporto erotico con un uomo, è anch’essa, indubbiamente, una donna “nevrotica” o, nei casi estremi, persino “schizofrenica”.

Perché è una donna che vive il sesso (e il rapporto col suo corpo) come una sorta di ossessione, di dipendenza (anche quando – almeno apparentemente – è lei a comandare il gioco), quasi come fosse una droga, un vizio.

E, tuttavia, io ritengo che i due archetipi possano (anzi debbano) essere pensati e possano trovare persino realizzazione anche nella loro versione positiva, sana e non psicopatologica.

In questo caso non solo non sono opposti, incompatibili, ma possono diventare addirittura speculari, complementari, necessari l’uno all’altro.

Un po’ come lo sono la notte e il giorno nell’arco delle 24 ore; o l’alternarsi delle stagioni, specie dell’inverno e dell’estate, nell’arco di un anno solare; o il rapporto tra “la persona-maschera” e “l’ombra”, secondo la psicologia di Jung; o lo “yin” e lo “yang” nel Taoismo e nella religione tradizionale cinese.

La donna che vive sanamente e non patologicamente la sua spiritualità, infatti, non ha bisogno di rinnegare la sua carnalità e, quindi, non ha bisogno di reprimere e mortificare la sua sessualità.

Anzi vive ancora meglio la sua spiritualità nella misura in cui realizza ed esprime pienamente anche la sua corporeità e la sua sessualità. Fino ad arrivare a identificarsi e riconoscersi, senza provarne alcuna ripugnanza o disagio, addirittura nell’archetipo della “donna zoccola”.

E può vivere ugualmente la “verginità”, ovviamente non nel senso negativo (e per me patologico) di astensione dalla sessualità, ma nel senso positivo di non essere dipendente né dall’uomo, con cui fa all’amore, né dal suo “appetito” sessuale.

Qui sta, infatti, a mio avviso, il valore simbolico positivo (e, per restare al nostro discorso, archetipo) della “verginità”: nel bisogno/desiderio (del tutto legittimo e sano) di non “attaccarsi” all’altro né di pretendere che l’altro si “attacchi” a noi, in una logica di possesso reciproco ed esclusivo.

Allo stesso modo la donna, che vive sanamente la sua carnalità e la sua sessualità (starei per dire persino – entro certi limiti – il suo narcisismo e il suo esibizionismo), non ha bisogno di rinnegare la dimensione affettivo/emotiva e quella intellettuale/culturale.

Anzi vivrà tanto meglio la sua corporeità e la sua sessualità nella misura in cui sarà capace di completarla con le altre due dimensioni dell’umano. Fino ad arrivare a identificarsi  e riconoscersi anche nell’archetipo della “donna vergine e madonna”.

Sarà, dunque, una donna pienamente “liberata”, nel senso che non sarà inibita, non sarà repressa, non vivrà sensi di colpa, legati magari alla educazione ricevuta in materia di sessualità.

Sarà una donna assertiva, volitiva, pienamente consapevole dei suoi desideri, che li vorrà affermare e sarà capace di prendere lei stessa l’iniziativa per realizzarli, senza aspettare che sia l’uomo a corteggiarla e a proporle di fare l’amore.

Sarà una donna , perciò, seduttiva, che potrebbe essere giudicata addirittura, secondo il pensiero comune, “spudorata” e “sfrontata”, insomma, una “zoccola”, a voler usare il termine volgare che normalmente viene affibbiato a un tale tipo di donna.

Ma non sarà affatto la persona “leggera”, frivola e superficiale, che l’immaginario maschile prevalente (e non solo quello maschile) tende purtroppo a identificare con tale tipo di donna.

Come si vede, allora in questa ottica l’archetipo “madonna” e quello di “puttana” non solo non si escludono, ma sono addirittura necessari, complementari, l’uno all’altro.

Non si può essere veramente “vergine” (beninteso nel senso positivo e non psicopatologico, cioè sacrificale e patibolare, del termine) senza essere anche “puttana”.

Come non si può essere “puttana” (anche qui beninteso nel senso positivo e non patologico, cioè maniacale e ninfomane, del termine) senza essere anche “vergine”.

Per una donna, quindi, almeno a mio avviso, riuscire ad essere allo stesso tempo “vergine-madonna” e “zoccola-puttana” non solo non è una contraddizione in termini, ma è il top, il massimo possibile della realizzazione della gamma delle potenzialità insite nella cosiddetta femminilità.

Per questo è così difficile, anzi rarissimo, trovare, incontrare una donna simile.

© Giovanni Lamagna

Il talento e la scrittura.

Qualche tempo fa una mia amica ha postato sulla mia pagina facebook il seguente testo di David Foster Wallace, che desidero commentare:

“Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo.

Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo.

Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando.

Che ama e basta, forse.

Il talento è solo uno strumento.

È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive.

Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo.

Ha qualcosa a che fare con l’amore.

Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata.”

Questo testo è bellissimo! Mi ci riconosco molto.

La prima affermazione che mi trova concorde: la scrittura è un gioco, va vissuta come un gioco. Come a dire: chi non la vive come un gioco non è un vero scrittore.

La seconda affermazione che mi trova concorde: nemici della scrittura sono l’insicurezza, la vanità e l’egocentrismo.

L’insicurezza si capisce bene perché è nemica della scrittura. Chi è insicuro di quello che scrive o, meglio, chi non ha un minimo di sfrontatezza nel mettere nero su bianco e farlo leggere agli altri non sarà mai uno scrittore.

Può sembrare, invece, che la vanità e perfino l’egocentrismo siano addirittura necessari per scrivere. E invece… Non lo sono affatto. Forse, stanno dietro la cattiva scrittura, quella inautentica, quella falsa. Non stanno, certo, dietro la buona scrittura.

E David Foster Wallace spiega bene perché, non ha certo bisogno di una mia chiosa.

La buona scrittura è, dunque, figlia di un equilibrio (non facile da realizzare, ma frutto di una certa disciplina) tra sicurezza, perfino sfrontatezza, e rinuncia alla vanità e all’egocentrismo.

La terza affermazione che mi trova concorde, forse ancora più delle altre due: la buona scrittura ha a che fare con l’amore, è figlia dell’amore, prima e più che del talento.

Il talento, cioè la capacità di mettere insieme le parole nel modo giusto, è solo lo strumento utile, anzi necessario. Come la penna che scrive rispetto ad una penna che non scrive.

Ma, se non si hanno cose da dire, non c’è penna che tenga, che basti. La penna, da sola, anche se è buona per scrivere, non è capace di scrivere niente, se chi la usa non ha delle cose da scrivere.

E le cose da scrivere, quelle buone, quelle che ha un senso scriverle, nascono da una necessità interiore. Non certo dall’esibizionismo o dal narcisismo o dalla vanità, cioè dal desiderio di farsi ammirare o applaudire.

E la necessità interiore è figlia dell’amore, dell’amore per la vita, che genera gioia, desiderio di esprimere all’esterno ciò che si ha dentro, di condividere con gli altri la luce che si è accesa dentro di noi in un certo istante, in un certo luogo.

O è figlia del dolore, che non è contraddittorio affatto, come si potrebbe pensare, con l’amore per la vita. Si soffre, infatti, perché si ama molto la vita e magari essa non ci dà le cose che da essa ci aspetteremmo o desidereremmo.

Gioia e dolore sono, dunque, le due facce di un’unica medaglia. Da esse nasce il più delle volte l’impulso creativo. Quindi anche l’impulso a scrivere.

@ Giovanni Lamagna

Bisogna rinunciare all’Io?

3 settembre 2015

Bisogna rinunciare all’Io?

È una idiozia totale pretendere di rinunciare all’io, all’amor proprio, alla vanità e all’orgoglio; è impossibile superarli, e quando si crede di averli vinti, si cade in una serie di menzogne senza fine. L’io è incurabile. Non parliamone più. Non si guarisce dall’io.” (E, Cioran; “Quaderni 1957 – 1972”)

Commento:

Cioran, a mio avviso, fa parecchia confusione tra nozioni diverse. Ad esempio, accomuna l’Io all’amor proprio, alla vanità e all’orgoglio, come se fossero un tutt’uno indistinto. Cosa che per me non è.

Anch’io penso che sia “una idiozia totale pretendere di rinunciare all’io” (che io scriverei con la “i” maiuscola, “Io” alla Freud, insomma).

Rinunciare all’Io è una contraddizione in termini. Nel momento in cui pretendessi di rinunciare al mio Io, lo starei anche in quel momento affermando o riaffermando.

Altra cosa è rinunciare all’amor proprio, alla vanità e, perfino, all’orgoglio. L’Io, infatti, non si identifica affatto inevitabilmente con l’amor proprio e con la vanità, che più che l’Io esprimono una ipertrofia dell’Io.

Già l’orgoglio va considerato in una maniera diversa, perché c’è (starei per dire) un orgoglio sano e uno insano.

C’è l’orgoglio che tende a difendere le giuste prerogative dell’Io e della sua identità: ognuno di noi ha un suo orgoglio da difendere, che coincide sostanzialmente con la sua dignità e i suoi diritti di persona, di essere umano.

C’è invece un orgoglio che ci impedisce di ammettere e di riconoscere anche le debolezze e i difetti del nostro Io, i nostri sbagli, quando li commettiamo, perfino quando sono clamorosi e, addirittura, quando ne diventiamo consapevoli.

Il primo è, secondo me, sano, il secondo è insano.

Rivendicare il ruolo dell’Io e considerare un’idiozia la rinuncia ad esso equivale a considerare impossibile ogni superamento dell’amor proprio, della vanità e dell’orgoglio insano? Per me no!

Certo, forse, il superamento totale di essi è impossibile e una certa loro quota parte persisterà sempre in ognuno di noi, nonostante gli sforzi che possiamo fare per eliminarli.

Ma questo non vuol dire che essi facciano parte intrinseca e irrinunciabile dell’Io stesso.

Certo, non si guarisce (e, in fondo, non bisogna neanche provarci a guarire) dall’Io. Ma dalle manifestazioni della sua ipertrofia (vanità, superbia, narcisismo, egocentrismo, esibizionismo, guasconeria, orgoglio insano…) si può e (aggiungo) si dovrebbe provare a guarire.

Giovanni Lamagna

Tre tipi di approccio al sesso.

22 aprile 2015
Tre tipi di approccio al sesso.
Ci sono tre tipi di rapporto col sesso.
Il primo è quello di chi considera il sesso una cosa schifosa e ne fa del tutto a meno. O quello di chi ne ha vergogna e cerca di evitarlo o farlo il meno possibile. Non solo non ne prova piacere, ma ne ha addirittura fastidio e, in certi casi, perfino ripugnanza.
Si tratta di una situazione estrema ed oggi ridotta a pochi e rari casi. Ma comunque di una situazione ancora oggi esistente, nella quale è possibile riconoscere persone (poche magari) a noi vicine o persone di cui abbiamo o abbiamo avuto conoscenza.
Il secondo è quello di chi ha piacere a vivere il sesso, ma non osa dirlo fino in fondo, manco a se stesso, come se avesse una qualche ritrosia a dire “Il sesso mi piace!”, un qualche pudore (in altre parole: vergogna).
E’ la situazione di chi pratica il sesso, anche con una buona frequenza e costanza, ma quasi come una realtà separata dal resto della propria vita, di cui si parla con qualche ritegno e molta riservatezza, che non si vuole, insomma, dare troppo a vedere. Il sesso deve rimanere una realtà recondita, nascosta. Fa parte della pura privacy, quella che si definisce “intimità”.
E’ la situazione di chi, per fare sesso, (io dico) ha bisogno di tenere gli occhi chiusi. Metaforicamente. Ma, spesso, anche materialmente. Perché in qualche misura ne prova vergogna. Vergogna mascherata da (e presentata) come senso del pudore.
E’ la situazione di chi per fare sesso ha bisogno di essere un po’ brillo, quasi in una situazione di trance, al limite tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra la veglia e il sonno.
Per questo secondo tipo di persone il sesso, in genere, deve essere una cosa mordi e fuggi. Se non proprio una sveltina, manco una cosa che duri troppo a lungo. Altrimenti diventa difficile reggerne la tensione emotiva, legata al senso di colpa.
Per questo tipo di persone in genere la nudità è un problema; si preferisce fare sesso scoprendosi il meno possibile.
Per questo tipo di persone nel sesso prevale nettamente la dimensione affettiva e sentimentale su quella fisica ed erotica. Per queste persone il sesso deve rassicurare più che scuotere, confermare più che turbare.
Esiste, infine, il terzo tipo di rapporto col sesso: quello di chi non solo non ha paura del sesso e non lo trova ripugnante; quello di chi non solo lo trova piacevole ma ha qualche ritrosia a parlarne, come se si trattasse di una realtà in qualche misura comunque scabrosa; ma quello di chi considera il sesso una dimensione centrale della propria vita, allo stesso livello di quella emotiva, di quella sentimentale, di quella affettiva, di quella intellettuale. Non semplicemente funzionale (e quindi subordinata) a queste.
E’ il rapporto di chi trova nel sesso una dimensione unica per conoscere se stesso e l’altro. E, quindi, non solo lo vive senza alcun imbarazzo, ma ha desiderio di raccontarlo, rivelarlo, manifestarlo nel suo agire quotidiano, nei suoi gesti ordinari di ogni momento. Non come forma di (sguaiato) esibizionismo, ma come naturale manifestazione di un suo modo naturale, complessivo e profondo di essere e, quindi, anche di apparire.
E’ il rapporto di chi è erotico non solo a letto, quando fa all’amore col suo partner, ma lo è sempre, in ogni momento della sua vita. E non solo non se ne vergogna, ma ne è fiero (potremmo dire “gay”), perché si sente, in questo suo modo di essere, una persona unificata e perciò liberata.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in maniera privilegiata in contatto con la propria natura animale. E non solo non si vuole sottrarre a questo contatto, ma lo ricerca, come occasione unica e speciale di crescita psicologica e, quindi, umana.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in contatto con la propria natura perversa e polimorfa (come Freud definiva la sessualità umana).
Perversa non nel senso usuale, deteriore e negativo, del termine. Ma perversa nel senso che non si limita a vedere nel sesso un atto puramente procreativo (come ha previsto la natura), ma una forma di linguaggio (del tutto speciale), quindi figlio e generatore di cultura.
Polimorfa perché, proprio dal momento che il sesso è una forma di linguaggio, esso non si realizza in una sola lingua, non usa una sola ortografia, una sola grammatica e una sola sintassi, ma può realizzarsi nelle forme più varie.
Ad una sola condizione: che il linguaggio che io voglio usare sia compreso e condiviso dall’altro/a. Che ci sia alleanza, complicità con l’altro/a.
Il sesso è un linguaggio del tutto particolare, che ci consente, più e meglio della parola parlata, di scendere negli abissi della nostra natura più oscura e quindi di fare luce sulle nostre ombre più inconfessabili.
Per chi lo intende in questo modo il sesso è un’avventura speciale, ogni volta trasgressiva, perché ogni volta alla ricerca del superamento del limite, del confine già raggiunto.
In questo senso il sesso è una forma di conoscenza e di ascesi, che ha a che fare con la crescita spirituale. Gli orientali da questo punto di vista hanno molte cose da insegnare a noi occidentali.
Per questo considero la pratica tantrica la massima espressione della religiosità umana. Perché è quella che più di altre è stata capace di coniugare e conciliare gli (apparenti) opposti: corpo e anima, sesso e spiritualità, amore e trasgressione, fedeltà e infedeltà, desiderio e oblatività, egoismo e altruismo, aggressività e donazione, gioco e impegno.
Laddove, invece, molte forme di religiosità, anzi la maggior parte di esse, vivono, fondano la loro teoria (teologia) e la loro pratica (ascesi) proprio sull’affermazione della inconciliabilità di questi “opposti”. Di cui alcuni rappresentano (per loro) il bene e altri il male, alcuni le virtù e altri il peccato, alcuni la salvazione e altri la perdizione.
La spiritualità tantrica ci insegna (o, meglio, può insegnarci) che non esiste peccato, non esiste dannazione, laddove c’è un desiderio, laddove un desiderio incontra il desiderio di un altro. Che anzi il vero peccato, la vera dannazione stanno – direbbe Lacan – nella rinuncia al proprio desiderio.
Giovanni Lamagna