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La nostra ambivalenza nei confronti della pulsione sessuale.
Nel quarto capitolo de “Il disagio della civiltà” Freud elenca molti motivi che dimostrano la tendenza della civiltà a limitare la vita sessuale delle persone.
Mi pare però che non ne abbia elencato uno che a me sembra fondamentale e forse è addirittura quello principale.
A mio avviso nei confronti della pulsione sessuale gli esseri umani hanno un atteggiamento ambivalente.
Da un lato ne sono fortemente attratti; perché, “avendo sperimentato che l’amore sessuale (genitale) … procurava (loro) il massimo soddisfacimento”, arrivano a identificare nel piacere sessuale il modello di riferimento di ogni altro piacere; e quindi della stessa felicità; per cui tendono a porre “l’erotismo genitale al centro della vita stessa”. (p. 237; Bollati Boringhieri; 2019)
Dall’altro ne diffidano, ne hanno quasi timore e persino panico; proprio perché la pulsione sessuale è dotata di una tale forza (e, mi verrebbe di dire, persino violenza) che gli uomini evidentemente temono di esserne travolti, perdendo il controllo di sé stessi; col rischio paventato di dissiparsi e quasi disintegrarsi, psicologicamente, se non fisicamente.
Questo sembra spiegare, d’altra parte, perché, da sempre, “eros” è associato a “thanatos”.
E perché i francesi (ma non solo i francesi) denomino l’orgasmo con l’espressione “petit mort” (piccola morte), come a significare che nell’orgasmo il soggetto in qualche modo si dissolve, perde i suoi confini o quantomeno la consapevolezza di essi, esattamente come quando sopravviene la morte.
La conseguenza di questo asserto è – a mio avviso e sia detto a latere del ragionamento fin qui svolto – che l’ambivalenza nei confronti della vita sessuale può essere superata, forse, solo da chi ha instaurato un buon rapporto con la morte, da chi ha fatto pace con la morte.
E chi possiamo dire ha fatto pace con la morte?
Solo chi ad un certo punto della sua vita ha avuto il coraggio di guardarla bene in faccia e di accettare e amare la vita, nonostante la morte.
Anzi di godersi le gioie che la vita – pur alternandole a molte e indubbie sofferenze e persino angosce – è in grado di donare.
In altre parole, chi è in grado di godersi la vita nonostante l’incombere della morte.
In altre parole ancora, forse solo chi ha imparato ad affrontare la morte, il “timor panico” che si accompagna all’idea della morte, non avrà paura di abbandonarsi senza resistenze alla “piccola morte”, a quel “sentimento oceanico”, di pura estasi, che l’orgasmo comporta.
Al contrario chi, per una ragione o per l’altra, con l’idea della morte (e col “timor panico” che essa comporta) non ha ancora fatto i conti molto probabilmente avrà delle resistenze a vivere una vita sessuale senza troppe ambivalenze.
Anzi, in certi casi estremi e nevrotici, ne avrà persino un vero e proprio rifiuto.
Paradosso dei paradossi, visto che, come sostiene giustamente Freud, l’amore sessuale procura il massimo soddisfacimento possibile per un essere umano e che l’erotismo sessuale è normalmente associato all’idea stessa di piacere.
© Giovanni Lamagna
Heidegger, il problema del linguaggio e la ricerca dell’Essere.
Heidegger (non solo, ma soprattutto nel suo “In cammino verso il linguaggio”; 1959) fa tutta una serie di considerazioni (francamente molto fumose, allusive, suggestive, ma a mio modesto avviso di non grande valore speculativo) sul linguaggio, in buona sostanza per dire (io almeno così le leggo) che ci sono cose (io aggiungerei le cose fondamentali – fondamentali nel senso etimologico, cioè ontologico, del termine – su questo nostro stare al mondo) di cui non si può parlare, sulle quali al linguaggio (almeno al linguaggio filosofico) mancano le parole adatte.
Io concordo. Ma solo in parte. In quanto per me non è questione di linguaggio o, meglio, non è questione in primo luogo o solo di linguaggio (come sembra dire Heidegger in certi passaggi, tranne poi sostenere il contrario in altri), ma di limiti oggettivi, intrinseci, strutturali, del nostro potere conoscitivo.
Per cui mi pongo le seguenti domande radicali: non sarebbe meglio – a questo punto della storia della filosofia – abbandonare del tutto la ricerca in certi ambiti del pensiero filosofico classico? Non sarebbe meglio prendere atto definitivamente che in certi ambiti è stato detto oramai sostanzialmente tutto e che oltre una certa soglia non è possibile andare, che a certe domande non è possibile dare risposte?
Non sarebbe meglio a questo punto dedicarsi ad una ricerca – tutta psicologica e sociologica e magari politica – delle vie, delle pratiche più efficaci per campare il meglio possibile su questa terra, visto che bene o male, almeno la maggior parte di noi esseri umani su questa terra vogliamo continuare a restarci, che, nonostante tutti i suoi contro, le sue sofferenze e perfino le sue angosce, a questa vita, almeno la maggioranza di noi, siamo affezionati e che da essa non vogliamo distaccarci per nostra autonoma decisione, prima che il nostro destino di mortali si compia alfine e nostro malgrado?
Non sarebbe meglio da questo momento in poi dedicare almeno la gran parte della nostra ricerca filosofica alla “critica della ragione pratica” anziché alla “critica della ragion pura”, visto che questa ad un certo punto si arena, oltre una certa soglia non riesce ad andare, non trova le parole adatte?
E non per un problema semplicemente linguistico, ma semplicemente perché l’Essere, nel momento in cui si manifesta negli enti, si nasconde dietro gli enti e non si rivela mai nella sua nuda essenza. Non quindi (solo) per un problema di linguaggio, ma (soprattutto) per un problema di sostanza.
© Giovanni Lamagna
L’animo fermo e coraggioso
L’animo fermo e coraggioso non è esente dalle paure, non è privo nemmeno di angosce.
E’ però capace, al contrario dell’animo oscillante e pavido, di tenerle sotto controllo.
Capace, se non di dominarle (il che alle volte è del tutto impossibile), quantomeno di non farsene travolgere.
© Giovanni Lamagna
La religione ha ancora un futuro?
Nel bell’articolo comparso su “la Repubblica Napoli” di oggi 22 agosto 2021, don Gennaro Matino si chiede “C’è speranza per la fede? Ce n’è ancora per la sopravvivenza della religione?”
E con lucido, quasi spietato, realismo prende atto che da tempo, almeno qui in Occidente, la grande maggioranza delle persone “ha voltato… le spalle alla religione tradizionale”, o, meglio, a quella “burocratizzazione del sacro”, alla quale si sono ridotte la maggior parte delle chiese e delle religioni.
Per aggiungere che non sarà facile invertire questa tendenza, anzi che “siamo ad un punto di non ritorno”; non basteranno certo “nuovi linguaggi che traducano il vecchio catechismo”; “non è solo questione di rinnovamento della chiesa o delle chiese perché la crisi non è questione solo del cattolicesimo”.
“Tuttavia – conclude don Matino – la ricerca di senso, la nostalgia di cielo, di un rifugio in cui accamparsi, l’esigenza di protezione, di accettazione, di conferma non sono diminuite, anzi mai come nel nostro tempo gli uomini sembrano naufraghi in cerca di terra, un approdo dove trovare risposte.”
D’altra parte – egli dice – “il fallimento delle chiese, che certamente è sotto gli occhi di tutti, non migliora per quanto mi riguarda il genere umano, al di là di tutte le colpe degli uomini di chiesa. Perché le domande restano, l’uomo con le sue speranze e le sue angosce pure, e sarebbe un peccato se cercare il cielo fosse soltanto questione di astronauti.”
In estrema sintesi sembra dire don Gennaro: se impareremo a “non giudicare il mondo con le sue scelte, con le sue contraddizioni”, se riusciremo ad “ascoltarlo… umilmente” per capire “dove sta andando”, “sarà ancora possibile annunciare il Vangelo” e far sì “che Dio ritorni ad essere interessante per la gente”; perché la gente non aspetta altro.
Questo mio breve intervento per dire che ho letto con molto interesse e con ancora maggiore rispetto l’articolo di don Matino; che ne condivido in gran parte le premesse analitiche; più volte in altre sedi ho avuto modo di affermare che, a mio avviso, sono entrate in crisi le religioni, ma non sono venute meno le domande fondamentali dalle quali le religioni sono nate.
Ma non ne condivido, invece, (è, però, “parva materia” tra uomini accomunati comunque dalla “buona volontà”) le conclusioni. A mio avviso le religioni, tutte le religioni tradizionali, sono entrate in una crisi oramai irreversibile.
Ascoltare il mondo moderno e contemporaneo significa per me arrivare alla conclusione che sono venuti meno i fondamenti teorici (cioè filosofici) basilari per sostenere l’esistenza di un Dio trascendente, abitatore di un “cielo” metafisico, e di una vita ultraterrena, che ci aspetterebbe dopo la morte.
Questo non vuol dire però – e ciò mi accomuna profondamente ad un uomo di fede (posso dire ancora “tradizionale”?) come don Gennaro – che con la “morte di Dio” sia venuta meno la stessa domanda di senso, di fondamento, da cui le religioni tradizionali sono nate alcuni millenni orsono.
Non vuol dire, in altre parole, che l’unico esito possibile alla crisi delle metafisiche sia la deriva del superomismo narcisista o del nichilismo disperante e autodistruttivo; meno che mai quella offerta come surrogato consolatorio dalle luccicanti seduzioni di un futile e ubriacante iperconsumismo.
Credo, insomma, anche io in un futuro della religione; ma auspico l’avvento di una religione del tutto laica, che prenda il meglio delle varie religioni tradizionali, le depuri dei loro apparati dogmatici, clericali, burocratici, ritualistici, per scoprirne e praticarne l’essenza ancora attuale, il nucleo di verità ancora viva.
Su questo terreno – che, ad essere più precisi, è piuttosto quello della spiritualità che quello della religione in senso classico e letterale – credo che due persone come don Gennaro Matino e (si parva licet) il sottoscritto possano senz’altro incontrarsi; e fruttuosamente, nell’interesse del mondo il cui bene entrambi sinceramente ricercano.
© Giovanni Lamagna
Dio NON è morto
Dio non è morto; ma semplicemente perché non è mai nato e non è mai vissuto.
Non può, dunque, essere morto chi non è mai nato e non è mai vissuto.
Dio semplicemente non c’è e non c’è mai stato.
Anche se gli uomini ci hanno creduto ingenuamente (e, spesso, fanaticamente) per alcuni millenni.
Perché questo leniva le loro paure, le loro angosce.
Soprattutto quelle legate al pensiero della morte.
© Giovanni Lamagna
Sulla regola d’oro
Nel suo “La filosofia come modo di vivere” Pierre Hadot a pag. 255, a proposito della famosa regola “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, sostiene che “questo principio non si fonda su nessuna filosofia, è legato all’esperienza umana”.
Io sono fondamentalmente d’accordo, ma allo stesso tempo non sono del tutto e completamente d’accordo con una tale tesi.
Sono fondamentalmente d’accordo, perché a mio avviso la “regola d’oro” di cui parla Hadot è figlia piuttosto di un pre-giudizio che di un vero giudizio (ovverossia di un atto compiutamente filosofico).
La regola d’oro si fonda su un certo tipo di esperienza umana piuttosto che su una considerazione teorica, intellettuale.
Un’esperienza umana tutto sommato positiva, potremmo anche dire “buona” e perfino – almeno in una certa misura – ottimistica, che sorride alla vita e non ne è rattristata.
Non certamente un’esperienza di (acclarata o latente) depressione, da cui non può derivare che pessimismo, se non addirittura disperazione.
Bisogna tuttavia mettere in conto che per molti uomini l’esperienza della vita non è stata e non è affatto positiva, che essi nella vita hanno ricevuto più male che bene e che, di conseguenza, sono portati a dare dell’esistenza un giudizio piuttosto negativo, sono portati dunque al pessimismo, se non proprio alla disperazione.
Per questo tipo di uomini la regola d’oro non ha senso, non ha valore, è inapplicabile. Per essi vale piuttosto l’ “homo homini lupus” o il “bellum omnium contra omnes” di Hobbes.
Possiamo dunque concluderne che il giudizio sulla vita più che a considerazioni di carattere teorico-filosofico è legato ad esperienze di vita (soprattutto primarie; quelle che facciamo nell’infanzia, in modo particolare nella primissima infanzia).
E tuttavia è anche vero però (e in questo non sono d’accordo con Hadot) che quello che potremo definire una specie di pregiudizio esistenziale si trasforma in un vero e proprio giudizio teorico.
Che fonda addirittura l’orientamento filosofico, potremmo anche dire “la visione del mondo”, di cui ciascuno di noi (più o meno consciamente, più o meno consapevolmente) è portatore.
Per cui le nostre azioni, il nostro agire, perfino il nostro stesso stile di vita complessivo, si adeguano, si conformano a questo giudizio teorico.
Di conseguenza sono portato a dire (su questo in dissenso con Hadot) che ogni orientamento etico-morale si fonda necessariamente (anche) su una (per quanto minima e appena abbozzata) teoria dell’uomo e dell’Umanità (intesa come l’insieme delle relazioni tra gli uomini).
Questa teoria , quindi, nasce indubbiamente e in primo luogo da un’esperienza pratica di vita. Ma la teoria a sua volta influenza e rafforza l’esperienza e la pratica di vita della persona che la professa.
In un circolo che alle volte è virtuoso, quando la pratica di vita è stata positiva e da essa è derivata una concezione del mondo tutto sommato positiva, se non proprio ottimistica.
Altre volte è vizioso, quando la pratica di vita è stata negativa, perché i dolori e le angosce hanno di gran lungo sopravanzato le gioie e i piaceri, e da questa è derivata, quasi come suo frutto naturale, una visione pessimistica dell’esistenza.
A me pare che la storia della filosofia, con la sua sequela di filosofi e delle loro rispettive concezioni del mondo, ci dia una conferma inoppugnabile di tale assunto, cioè del rapporto intrinseco, strettissimo, che esiste tra una determinata weltanschauung e la biografia del filosofo che ne è autore.
Ora ciò che vale per i filosofi affermati e universalmente riconosciuti può non valere (a maggior ragione) per gli uomini comuni?
© Giovanni Lamagna