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Morale sessuale.
La morale sessuale della maggior parte delle persone è figlia della pigrizia, del conformismo, delle convenzioni, del quieto vivere, delle paure e dei tabù, della povertà di fantasia e della scarsa immaginazione.
È, insomma, a mio avviso, figlia della loro miseria emotiva, sentimentale, intellettuale e spirituale in senso lato.
Altro che virtù: la virtù c’entra ben poco!
Se fosse figlia della virtù, sarebbe accompagnata dalla gioia di vivere e, quindi, dall’allegria, dall’entusiasmo, dalla vitalità, dalla pace interiore ed esteriore.
E, invece, io vedo ben poche di queste “qualità” in giro tra le persone con le quali vengo in contatto, in maniera più o meno intima e profonda.
© Giovanni Lamagna
Alcune tesi fondamentali per me in materia di psicoterapia.
Nel capitolo intitolato “Sul fenomeno del suicidio” del libro “In dialogo con Carl Gustav Jung”, curato da Anna Jaffé (Bollati Boringhieri 2023; p. 151-155), il grande psicoanalista svizzero affronta in modo specifico – come dice il titolo – il tema della cura della tendenza al suicidio in alcuni pazienti.
Ma alcune sue affermazioni qui riportate, a mio avviso, si possono estendere alla psicoterapia in generale, alla cura anche di altri tipi di pazienti; e credo, suppongo, che Jung non avrebbe avuto obiezioni a questa mia lettura delle sue parole.
Cosa dice, dunque, Jung?
Enucleo qui di seguito quelle che mi sono sembrate le sue tre tesi principali in proposito (alcune prese alla lettera dal testo citato) e ne do una mia interpretazione, senza – presumo – fare alcuna forzatura indebita.
1.Ci sono persone che entrano in terapia, ma non recepiscono nulla di quello che il terapeuta dice loro; in questo caso, prima o poi, “il paziente abbandonerà la terapia o l’analisi.” (p. 152).
Qui do per scontato che il terapeuta, di cui sta parlando Jung, sia esperto e dotato della necessaria e adeguata empatia, che non faccia errori grossolani nell’approccio con la persona che è venuta a cercare il suo aiuto; e che, quindi, l’abbandono della terapia non dipenda dalla professionalità dello psicoterapeuta (come, invece, in altri casi, può accadere e si può ritenere).
Ci sono pazienti coi quali si ha l’impressione di parlare ad un muro; qui Jung, a proposito di una sua paziente, afferma testualmente: “Avrei potuto parlare altrettanto bene – o forse anche meglio – con una pietra.”; di fronte a pazienti di questo tipo il terapeuta non può fare molto; non può aiutare il paziente “se l’interessato stesso non lo vuole; verrebbe curato contro la sua volontà, e questo non si può fare.” (p. 152)
Dal che io deduco – e questa mi sembra una prima tesi fondamentale implicita nel pensiero di Jung – che una psicoterapia può avere un esito positivo, ovverossia sbloccare un paziente che soffre di conflitti nevrotici, solo se nel paziente la volontà inconscia di guarire è almeno un poco superiore alla sua volontà inconscia di restare nella sua nevrosi; dalla quale evidentemente – come tutti i nevrotici – ricava il famoso “vantaggio secondario”, di cui parlava Freud (lezione n. 23 di “Introduzione alla psicoanalisi”).
2. Di fronte a questo tipo di paziente e dopo aver fatto vari tentativi di sblocco della sua nevrosi, il terapeuta dovrebbe prendere onestamente atto della sua impotenza nella relazione di aiuto e comunicargli quello che Jung – molto candidamente e fermamente – ebbe il coraggio (quasi cinico) di comunicare ad una sua paziente, che era decisa a suicidarsi (e lui ne era pienamente consapevole): “Io non posso più esserle di aiuto. Io non posso più darle alcun consiglio.” (p. 153)
Ci sono pazienti che affrontano la terapia con un atteggiamento così sciatto e superficiale, che l’analista farebbe bene ad affrontarli di petto con un atteggiamento forte e deciso, senza alcuna forma di complice (e, potremmo dire, persino banale) tolleranza; Jung in questo testo confessa di essersi adirato una volta con una sua paziente di questo tipo e di averla addirittura “mandata via” in malo modo; eppure si trattava di una paziente a rischio suicidio.
Ci sono nevrotici, nei quali la “volontà di morte” è (più o meno vistosamente) superiore alla “volontà di vivere”; il che non significa che essi arriveranno necessariamente al suicidio (come accade, purtroppo, in alcuni casi estremi).
Spesso questa “volontà di morte” si presenta in individui che conducono (almeno apparentemente) una vita del tutto normale; che si aggrappano disperatamente a vari “oggetti” esterni a sé (un matrimonio, un figlio, un nipote, gli amici, il lavoro, la fama, la ricchezza, il potere…), che diano un senso alla loro vita, ma sono incapaci di trovare questo senso dentro di sé.
Naturalmente questi soggetti è come se vivessero – dice Jung – “con un solo piede o… con una sola mano”; e non è certo questa una “condizione ideale”. (p. 155)
“È qualcosa a cui ci si rassegna”. Ma “… non è la soluzione ideale”. Anche se in “certe circostanze non si può fare altrimenti. Allora è giusto rassegnarsi… Se un paziente… arriva… a quarant’anni a rassegnarsi, nessuno può impedirglielo. Ma che sia felice così, oppure che sia normale, che trovi tutto questo come ricco di senso è un altro paio di maniche.” (p. 155)
Questa mi sembra, allora, la seconda tesi fondamentale in materia di conduzione di una psicoterapia contenuta in questo capitolo: quando uno psicoterapeuta si rende conto che la psicoterapia non approderà a nulla di buono, è bene che congedi il suo paziente, senza tanti salamelecchi e senza troppa diplomazia, ma persino con una certa durezza; ci sono pazienti che sono (si dimostrano) incurabili, che sono destinati a vivere una vita apparentemente normale ma in realtà infelice, a campare metaforicamente con una sola mano o un solo piede.
3. Afferma Jung: “Che lo si voglia o meno: quando uno viene analizzato abbastanza a lungo, arriva da solo alle domande fondamentali. Non è proprio possibile altrimenti.” (p. 155)
Ed è proprio qui – a mio avviso – che un’analisi si può bloccare ed avere come suo esito (triste) l’abbandono: quando il paziente non vuole (o non ce la fa: ma questo cambia poco in termini di ricadute terapeutiche) affrontare queste “domande fondamentali”; quando ne è terrorizzato o quando non vuole affrontare (per pigrizia o per paura) i cambiamenti che le risposte a queste domande comporterebbero di conseguenza.
È questa, mi pare, la terza tesi fondamentale che si può ricavare dal pensiero di Jung in materia di psicoterapia: l’esito di questa non è mai scontato; può essere positivo, ma può anche essere negativo; una psicoterapia può sbloccare un paziente e aprirgli nuovi orizzonti mentali e, quindi, esistenziali; ma può anche arenarsi.
La psicoterapia si arena quando, di fronte alle “domande fondamentali” a cui, prima o poi, il percorso psicoterapeutico conduce, il paziente si rifiuta o è incapace di darsi delle risposte congrue, adeguate, soddisfacenti e di fare scelte conseguenti.
È da sottolineare, a mio avviso, in modo particolare questo secondo aspetto: quello delle scelte conseguenti.
Perché, per avere un buon esito psicoterapeutico, non basta capire sé stessi, come siamo fatti e come funzioniamo; bisogna anche avere o trovare da qualche parte la forza, il coraggio e l’energia necessari per mettere poi concretamente in atto le cose che si sono capite.
Che, nella maggior parte dei casi, significa realizzare dei cambiamenti radicali: nei comportamenti, nelle scelte, nelle situazioni, che hanno resa fino a quel momento infelice la nostra vita.
Se non si trovano la forza e il coraggio di realizzare questi cambiamenti, la psicoterapia sarà servita a ben poco, si sarà risolta in un sostanziale fallimento.
© Giovanni Lamagna
Fondamentalismi e identità aperte.
Il concetto di “fondamentalismo” ha a che fare col termine “fondamento”.
In sé, quindi, non ha o non dovrebbe avere una connotazione negativa.
In fondo siamo tutti chi più e chi meno alla ricerca di un fondamento o di fondamenti, di qualcosa cioè su cui poggiare la nostra esistenza, per darle stabilità, sicurezza, il senso di una continuità, di un qualcosa che dura, che non è fuggevole.
Anche Gesù parla dell’uomo saggio definendolo come colui “che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia.
Per contro l’uomo stolto è colui “che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande. (dal Vangelo di Matteo 7, 24-25).
Si può dire, inoltre, che tutta la storia della filosofia (a partire dai presocratici – VI/V sec. a. C. – fino ai giorni nostri) non sia altro che (o sia anche) una ricerca dei fondamenti, cioè delle risposte alle domande ultime o fondamentali.
Quindi è del tutto legittimo andare alla ricerca dei fondamenti su cui poggiare la propria visione del mondo, senza la quale diventa difficile per ciascuno di noi orientarsi nella vita.
D’altra parte i fondamenti sono anche ciò che dà sostanza, anima, volto, alla nostra identità.
A seconda se noi abbiamo trovato o troviamo fondamento in certe cose la nostra identità sarà di un certo tipo, se l’abbiamo trovata in altre cose sarà di altro tipo.
Anche qui sovviene il Vangelo, la parola di Gesù, quando dice “… laddove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (dal Vangelo di Matteo; 6, 21).
Perché allora la parola “fondamentalismo”, che si… fonda su un termine in sé positivo (fondamento/i), assume oggi, agli occhi di molti di noi una connotazione del tutto negativa?
Perché il fondamentalismo (come molti fenomeni che vengono definiti con parole che terminano col suffisso “ismo) è un fenomeno degenerativo di quella che abbiamo definito come “ricerca dei fondamenti”, che in sé è del tutto legittima, in quanto connaturata agli esseri umani.
Così come il termine “identitarismo” è un fenomeno degenerativo della ricerca in sé del tutto legittima e perfino positiva e auspicabile della “ricerca di una propria identità”.
Che cosa rende allora negativi questi due fenomeni: quello del fondamentalismo e quello dell’identitarismo?
La loro propensione alla chiusura, al dogmatismo, al settarismo, al rifiuto del diverso, il loro sfociare spesso in forme di intolleranza, quando non anche di vero e proprio razzismo.
In altre parole e per chiudere questo discorso: non è negativo che io abbia dei fondamenti su cui poggiare la mia identità e neanche che abbia una mia identità distinta e autonoma da quella degli altri.
E’ negativo che io non sia disposto a mettere in discussione, in ogni momento, i fondamenti su cui ho poggiato la mia vita, che non sia disposto a modificare, nel dialogo e nel confronto con gli altri, la mia identità.
E’ negativo, in altre parole che io non resti aperto, pur avendo un’identità e delle convinzioni solide; che io mi chiuda, per paura o per pigrizia, all’Altro diverso da me.
E’ ancora più negativo che il mio modo di pensare, la mia identità, tendano a diventare strumenti di prevaricazione e oppressione dei modi di pensare e delle identità di altri.
E’, infine, oltremodo negativo e del tutto deprecabile l’atteggiamento, l’abito mentale di chi tende addirittura a negare la stessa legittimità ad esistere di altri modi di pensare e di altre forme di identità, diverse dalle mie.
© Giovanni Lamagna
L’uomo è un animale portato a trascendersi.
L’uomo è portato per sua natura a trascendersi, ad andare cioè oltre se stesso, oltre il suo attuale, per realizzare il suo potenziale.
Se non lo fa – e spesso non lo fa; essenzialmente per due motivi: la paura e la pigrizia – si ammala nell’anima (nel senso che diventa infelice) e, a volte, anche nel corpo.
© Giovanni Lamagna
Gaudium e apertura all’altro.
Non esiste “gaudium”, gioia interiore, se non nell’apertura all’altro.
All’Altro da sé, innanzitutto.
Che è una forma di liberazione dalla prigione del ripiegamento su di sé, a cui pure tende naturalmente e non di rado la nostra anima, a causa in parte della paura della vita e in parte della pigrizia.
Il rapporto con l’Altro da sé, con quella voce interiore che abita in ognuno di noi, anche se spesso non le diamo ascolto, è il primo moto di apertura dell’anima.
E già esso produce automaticamente una prima forma di gaudium, di gioia, espansione interiore; perché ci fa uscire dalla tristezza e dalla malinconia che sono frutti bacati del malsano ripiegamento su di sé.
Il secondo è l’apertura agli altri in carne ed ossa, che è un movimento non esclusivamente intrapsichico e spirituale, come lo era invece il primo, ma anche fisico e materiale.
Il primo movimento senza il secondo è astratto, puramente teorico, quindi falso.
Il secondo senza il primo è superficiale, epidermico, senza profonde radici.
Entrambi da soli non producono vero “gaudium”; per sperimentare la pienezza della vera gioia interiore vanno vissuti entrambi, all’unisono.
© Giovanni Lamagna
L’uomo e la donna sono tendenzialmente poligami non monogami
Io penso che nessun uomo e nessuna donna siano in grado di soddisfare appieno, totalmente le aspettative erotico-sessuali, emotivo-affettive, intellettuali- culturali, spirituali in senso lato, di un altro uomo o di un’altra donna.
Ci sarà uno o una che ne soddisferà soprattutto quelle erotico-sessuali, un altro o un’altra che ne soddisferà soprattutto quelle emotivo-affettive, altri o altre ancora che ne soddisferanno soprattutto quelle intellettuali-culturali o quelle spirituali.
Sarà difficile, molto difficile anzi io dico impossibile, che li soddisferanno tutti allo stesso modo e in uguale misura; soprattutto nessuno/a che li soddisferà tutte in maniera totale, completa.
In altre parole non esiste per me la cosiddetta “anima gemella”, sulla cui esistenza l’amore romantico ha costruito un vero e proprio mito.
Ma l’avevano fatto già molti secoli prima Platone e poi, per certi aspetti, anche Dante e, con lui, i “dolcestilnovisti”.
D’altra parte la natura ci ha voluto diversi, ognuno con i suoi pregi e i suoi difetti, coi suoi pieni e i suoi vuoti, con le sue doti e le sue défaillances.
Perché, dunque, un uomo o una donna in particolare dovrebbero corrispondere in tutto e per tutto al nostro ideale di uomo o di donna?
Siamo tutti diversi/e l’uno/a dall’altro/a ed è difficile a volte stabilire chi è più amabile o più desiderabile; né più e né meno di come è difficile stabilire se è più bella una rosa o una gardenia, più bello un garofano o un girasole, più buona e saporita una mela o una pera o una pesca.
Penso, quindi, sia naturale che ogni uomo ed ogni donna, trascorsa la fase inevitabilmente transitoria dell’innamoramento per una singola donna o per un singolo uomo, quello o quella che ci fa perdere la testa per un singolo uomo o una singola donna, come se al mondo non esistessero altri uomini e altre donne, avverta prima o poi, in maniera più o meno forte o appena latente, delle spinte centrifughe, delle attrazioni, dei desideri per altri uomini e per altre donne.
A mio avviso tali spinte sono del tutto normali e naturali, non hanno niente di perverso e disdicevole; anzi trovo strano che alcuni/e (almeno stando a quello che dicono) non le avvertano.
In altre parole ritengo che la natura abbia dotato ciascun uomo e ciascuna donna di una propensione poligama e non monogama nelle relazioni affettive.
Non solo nelle amicizie (cosa questa su cui tutti concordano, ovviamente), ma anche nelle cosiddette relazioni amorose (cosa su cui i più, invece, dissentono profondamente, a volte addirittura violentemente; forse perché una tale tesi va a smuovere in loro pulsioni profondamente sepolte o del tutto rimosse).
Ora, se la natura ci ha fatti così, non vedo perché dovremmo andare contro natura, imponendoci delle restrizioni, che non solo non ci danno – come è ovvio – piacere (perché limitano la nostra libertà, inibiscono i nostri desideri, ci fanno sentire costretti e non spontanei) ma ci fanno anche psicologicamente (e talvolta persino fisicamente) del male.
Nel senso che limitano la nostra possibilità di realizzazione, di arricchimento umano sotto molteplici aspetti: erotico-sessuale, emotivo-sentimentale, intellettuale-culturale, spirituale in senso lato.
Io sostengo, quindi, che, una volta assolti i propri compiti, diciamo pure i propri doveri, genitoriali nei confronti dei figli, un uomo e una donna, quand’anche provassero ancora amore l’uno per l’altro (cosa che io reputo – sia ben inteso – del tutto auspicabile e desiderabile), dovrebbero poter liberare la loro propensione poligama e poter costruire una molteplicità di altre relazioni di amore, anche (perché no?) sessuali, oltre a quella (basica, di partenza) costituita dalla relazione con il padre o con la madre dei propri figli.
Ciò non solo non danneggerebbe questo primo e originario rapporto d’amore, ma potrebbe addirittura favorirlo, costringendolo a vincere la pigrizia della routine e a rinnovarsi continuamente, per poter reggere così alla “concorrenza” (il termine è infelice, lo so, ma non ne trovo adesso un altro ugualmente efficace) dei nuovi amori che ciascuno dei due partner incontrerà (o quanto meno potrebbe incontrare) sul proprio cammino di vita.
Ovviamente la condizione perché questo si verifichi è che i due partner abbiano la capacità di controllare e di vincere il male oscuro dell’istinto di possesso e della gelosia che dall’istinto di possesso inevitabilmente consegue, rinunciando alla pretesa (in fondo, a pensarci bene, un po’ infantile) di avere il partner tutto, sempre e solo, per sé; e dimostrandosi all’incontrario disponibili a “condividerlo” con altri/e partner.
Privilegiando quindi rispetto al fattore quantità del tempo trascorso insieme, (magari spesso in maniera routinaria e perciò in molti casi scialba e noiosa) quello di una sua migliore e maggiore qualità.
© Giovanni Lamagna