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Lasciarsi andare ad un moto inerziale o assumere la guida consapevole della propria esistenza?

Molte persone ritengono che, ponendosi nei confronti della vita con un atteggiamento ultra-rilassato, in altre parole lasciandosi trascinare semplicemente dalla corrente, abbandonandosi alle onde, senza dare alle proprie azioni e scelte una direzione consapevole, senza farsi troppo domande e porsi troppi interrogativi, vivranno meglio, faticheranno e soffriranno di meno.

Nulla – a mio avviso – di più sbagliato, di più illusorio!

In questo modo, infatti, queste persone disperderanno una quantità di energie senza un obiettivo preciso e saranno preda degli umori più diversi e altalenanti: a volte saranno prese dall’entusiasmo (in genere, effimero e breve) altre volte dalla depressione e dallo sconforto (in genere, più frequenti e prolungati).

Tale atteggiamento nei confronti della vita è molto simile a quello di chi, dovendo fare un viaggio, non si preoccupa minimamente di farsi un programma prima di partire, di stabilire un itinerario almeno di massima, con le tappe dei luoghi da visitare e i tempi, almeno orientativi, da dedicare a ciascuna di esse.

Certo costui si risparmierà la fatica e forse anche la noia di questa ricerca e programmazione iniziali; ma poi, quando sarà giunto sul luogo meta del viaggio, dovrà perdere del tempo prezioso per orientarsi e forse questo gli impedirà di visitare tutti i luoghi che avrebbe potuto conoscere, se tale ricerca l’avesse fatta prima di partire.

Indubbiamente chi cerca di assumere il controllo, la guida della propria barca interiore, chi cercherà di darle una direzione, una rotta, pur in mezzo alle onde in rivolta e alle tempeste, chi in altre parole cercherà di connettersi con il proprio Sé profondo, all’inizio e forse anche per un periodo non brevissimo, faticherà parecchio, dovrà sottoporsi ad un esercizio che richiederà sforzo e costanza.

Ma una volta che la sua capacità di guida si sarà consolidata, che la disciplina che si sarà imposta sarà diventata in lui un’azione quasi automatica e irriflessa, egli faticherà molto di meno nel cammino della vita e vi troverà molta più soddisfazione di chi, per pigrizia, indolenza o iniziale paura, si sarà lasciato andare ad un moto inerziale e quasi senza alcun controllo e consapevolezza.

È vero, in questi due tipi di approccio all’esistenza molto c’entrano il temperamento con cui si nasce e l’educazione che si riceve da bambini.

Ma viene un tempo, più o meno per tutti, in cui si è chiamati a decidere in prima persona; anche perché si fanno esperienze e soprattutto si incontrano persone che ci invitano, stimolano al cambiamento.

Per cui anche chi nella prima fase della propria vita ha avuto un atteggiamento del primo tipo potrà decidere di dare una svolta alla propria esistenza ed assumere un atteggiamento del secondo tipo.

Ma è un dato di realtà che pochi ci riescono; qui vale l’antica parola evangelica “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Vangelo di Matteo 22, 14).

© Giovanni Lamagna

Innamoramenti.

Ogni nuovo innamoramento ci apre a nuovi mondi, ci fa scoprire terre nuove.

Per questo ci piace, ci affascina e attira così tanto.

In quanto sollecita, stimola, va a stuzzicare il nostro istinto esploratore, cacciatore, “ferino”, “predatorio”.

Ma per questo ci incute anche tanta paura e resistenza a lasciarsi andare.

In quanto intimorisce, scuote, mette alla prova, il nostro istinto securitario, casalingo, domestico, stanziale.

© Giovanni Lamagna

La seduzione finalizzata a sé stessa, come potere, e non all’amore, come cedimento e dono di sé all’altro.

Ci sono donne che amano sedurre gli uomini, ma che non vogliono costruire realmente un rapporto con loro.

Dopo averli sedotti, li mollano.

A loro interessa sperimentare solamente il potere che dà la seduzione.

Non sono interessate al potere dell’amore, che implica il loro lasciarsi andare, il mollare ogni potere, compreso quello della seduzione.

Mi scuseranno le donne, se ho parlato esclusivamente di loro, come se questo fosse un problema solo loro.

Sono sicuro che esistono anche molti uomini che vivono il rapporto con le donne in questo modo.

Ma io ho esperienza della seduzione da parte delle donne, non da parte degli uomini.

E quindi solo di questa posso, sono capace di parlare.

Ma riconosco, sono sicuro, che molte donne potrebbero raccontare la stessa cosa di molti uomini.

© Giovanni Lamagna

L’isterica e… l’isterico.

L’isterica è una donna che arde dal desiderio, ma che non può permettersi di lasciarsi andare al proprio desiderio.

Ha un blocco dentro che glielo impedisce; è martoriata dai sensi di colpa per il desiderio che prova.

Sia ben chiaro: quello che vale per l’isterica vale anche per l’isterico.

Ci sono, infatti, femmine isteriche e maschi isterici.

Non ho mai capito (e nessuno mai è stato capace di spiegarmela in maniera convincente) la ragione per cui da sempre si parla di isteria solo al femminile.

© Giovanni Lamagna

Sul film di Gabriele Muccino “Padri e figlie”.

31 marzo 2016

Sul film di Gabriele Muccino “Padri e figlie”.

“Padri e figlie” (2015), di Gabriele Muccino, è un bel film. Nonostante le numerose cadute di stile e di tenuta narrativa dovute alle molte sdolcinature e al sentimentalismo debordante che in alcuni momenti hanno preso la mano allo scrittore della sceneggiatura (Brad Desch), prima, e al regista, poi.

Che va accettato così com’è, con i suoi pregi e i suoi difetti. Prendere o lasciare! In questo caso , almeno per me, va preso.

Racconto brevemente la trama del film, anzi le due trame che si sovrappongono e intrecciano.

Prima trama. Jake Davis è uno scrittore affermato e famoso, già vincitore di un premio Pulitzer. Sposato, rimane solo con una bambina, Katie, di pochi anni di età, in seguito alla morte della moglie in un incidente d’auto, mentre lui era alla guida.

Anche Jake, nell’incidente, ha riportato un grave trauma cranico, che gli procura continue crisi epilettiche. E’ costretto perciò ad un ricovero ospedaliero di sette mesi e ad affidare, in questo tempo, la figlia Katie alle cure della sorella della moglie morta e al di lei marito.

Quando viene dimesso dall’ospedale, va a riprendere la figlia dai cognati, ma questi gli fanno resistenza: un po’ lo ritengono responsabile della morte della moglie, un po’ si sono affezionati alla bambina; quindi non vorrebbero restituirgliela; gli dicono brutalmente che vorrebbero adottarla.

Egli rifiuta in maniera categorica la richiesta dei cognati e riporta con sé la bambina, che cresce riempita dall’amore del padre, il quale contemporaneamente si danna l’anima per riprendere a scrivere e pubblicare, anche perché, dopo la degenza in ospedale, è rimasto piuttosto squattrinato.

Per contro i cognati non si sono rassegnati al suo rifiuto della loro proposta di adozione della bambina e gli intentano causa. Il primo libro pubblicato, dopo l’incidente, non va bene: viene stroncato dalla critica e non vende. Questo rafforza gli argomenti dei cognati che pretendono l’affidamento di Katie.

Jake è costretto allora a trovarsi un avvocato di prestigio, che gli chiede un capitale, per poterne patrocinare la causa. Lo scrittore quindi si costringe ad un superlavoro ancora maggiore per poter pubblicare un nuovo romanzo e trovare i soldi per pagare l’avvocato.

Nel frattempo, i due cognati, in seguito alla scoperta dell’adulterio del lui della coppia, si separano e rinunciano a portare avanti la causa nei confronti di Jake. Che oramai lavora di giorno e di notte, per scrivere il suo nuovo romanzo dedicato al suo rapporto con la figlia. In una di queste notti viene colpito da un nuovo attacco di epilessia, batte la testa e muore.

La figlia viene quindi affidata alla sorella della madre, che, nel frattempo, dopo aver divorziato definitivamente dal marito, è diventata una donna più consapevole e si è addolcita. Il romanzo di Jake esce postumo e vince il premio Pulitzer.

Questa è la trama prima del film, che però attraverso una serie continua di flashback e di flash forward, si intreccia con una seconda trama, che è la storia di Katie, oramai giovane adulta, prima universitaria e poi laureata in psicologia, alle sue prime esperienze di lavoro, presso un centro di recupero di bambini molto difficili.

Katie, nonostante l’amore ricevuto dal padre e da lei ricambiato, ha risentito fortemente dei traumi subiti. E’ venuta su, quindi, con un senso di vuoto, che non riesce a riempire. Nonostante gli studi e il training fatto per diventare una psicologa. Nonostante il lavoro appena iniziato le piaccia e l’appassioni molto.

Vive così una doppia vita. Al lavoro è irreprensibile, tenace, competente, abile, piena di dedizione e di amore. Nel privato, specie nelle relazioni affettive e sessuali, è una vera e propria sbandata: si concede facilmente a tutti e passa da un ragazzo all’altro, con molta superficialità, senza riuscire a soddisfare il suo affamato bisogno di amore.

Il lavoro, però, l’aiuta a dare una svolta anche alla sua vita privata. La presa in terapia di una bambina particolarmente difficile, il cui caso sembrava senza speranze, e i successi che ottiene (la bambina che non parlava con nessuno, grazie a lei, piano piano si apre e riprende a comunicare), è come una forma di autoterapia. Forse nella bambina che le è stata affidata ella rivede e cura se stessa.

E, infatti, quasi in contemporanea, incontra un ragazzo, che si innamora sinceramente di lei e che non vuole approfittare soltanto delle sue prestazioni sessuali.

All’inizio anche il rapporto con questo ragazzo non scorre del tutto facile: Katie è succube degli antichi mostri. E’ terrorizzata all’idea che, se si lega e ricambia l’amore appena incontrato, possa prima o poi sperimentare un nuovo e traumatico abbandono, simile a quelli che ha già conosciuto più volte nella sua vita. Quindi fa molte resistenze prima di lasciarsi definitivamente andare.

Addirittura un giorno va in un bar, si ubriaca, incontra un tipo, se lo porta a casa e ci scopa. Quando torna il ragazzo a cui è legata oramai da qualche tempo, Katie fa di tutto perché egli scopra il suo “tradimento”. Ovviamente la reazione del ragazzo è istintiva e violenta: la lascia pieno di rabbia e di delusione.

Katie, insomma, ha fatto di tutto perché si avverasse proprio ciò di cui lei aveva angoscia. Disperata, sembra per qualche tempo riprendere la vita di sbandata da cui era da poco uscita. Ma oramai le energie vitali e positive che si erano attivate in lei avevano messo radici. Le basta poco per riprendersi e tornare all’amore da poco perso.

Il finale del film è lieto, positivo, come nelle belle favole. Ma non del tutto banale e incredibile. Perché è vero che non sempre il male vince: talvolta vince anche il bene. Talvolta l’amore (sia quello ricevuto che quello dato) riesce a sconfiggere il cinismo e la sofferenza. Se l’amore ricevuto supera almeno di poco il dolore sofferto.

Mi sembra questo il messaggio che voleva dare il film. E, mi pare che, pur con tutti i suoi limiti e difetti, sia riuscito a trasmetterlo abbastanza bene.

Un’ultima riflessione sul ruolo che riveste l’attività terapeutica nel riscatto personale di Katie. Riflessione che parte da una domanda: come è possibile che una persona con tanti vuoti affettivi, addirittura una sbandata, come è Katie quando comincia a fare la psicoterapeuta, possa riuscire ad aiutare gli altri, addirittura a guarirli?

La risposta a questa domanda sta in un’affermazione di Aldo Carotenuto, il quale diceva più o meno questo: chi sceglie di fare il mestiere di psicoterapeuta è sempre uno che ha qualche conto in sospeso con se stesso, è uno quindi che, aiutando gli altri, aiuta in fondo anche se stesso.

A patto, ovviamente, di averne consapevolezza. Di aver consapevolezza dei traumi da lui stesso vissuti e che l’hanno spinto ad intraprendere questa professione. Che è in fondo un continuo lavoro su se stessi, una interminabile autoterapia.

Anche questa mi sembra una bella lezione che ci viene da questo film.

Giovanni Lamagna