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Tutto o niente?

Ci sono coloro per i quali “o è tutto o è niente!”.

E ci sono poi coloro per i quali “è meglio poco che niente!”

Io sono decisamente dalla parte di questi secondi.

Penso, infatti, che “chi troppo vuole nulla stringe”.

© Giovanni Lamagna

Due modi diversi, anzi opposti, di rapportarsi agli altri.

Ci sono due modi completamente diversi, anzi direi addirittura opposti, di approcciarsi ai rapporti e nei rapporti.

Il primo è quello (supponente, sostanzialmente presuntuoso e chiuso, direi perfino narcisista) di chi ritiene di non aver nulla da modificare di sé stesso.

È l’atteggiamento di chi – consapevolmente o inconsapevolmente – pensa: se l’altro/a mi trova interessante, ha voluto instaurare un rapporto con me, vuol dire che gli/le vado bene così come sono, che non devo cambiare niente di me.

Il secondo è quello (aperto, umile, disponibile, dialogante) di chi considera ogni nuovo incontro, ogni nuovo rapporto che viene ad instaurarsi come una opportunità, che gli/le viene offerta dalle circostanze della vita, per crescere, per migliorare, per evolvere.

E, quindi, è disposto a farsi in qualche modo plasmare dall’altro/a, a prendere dall’altro/a le “cose” che a lui/lei mancano, ad accettare non solo gli apprezzamenti e le lodi (che non possono mancare: effettivamente se l’altro/a è stato attirato/a da noi, vuol dire che ci sono delle cose di noi che gli/le piacciono), ma anche le critiche e i rimproveri.

In altre parole è disposto a modificarsi nel rapporto, consapevole del fatto che ogni nuovo rapporto rappresenta per noi una conferma e una rassicurazione, ma allo stesso tempo ci interpella, ci mette in discussione, ci chiede un cambiamento, in certi casi addirittura una vera e propria conversione a U.

© Giovanni Lamagna

Chi è l’artista?

L’artista non riproduce, non fotografa, non copia la realtà.

E manco (ovviamente) la crea dal nulla.

L’artista ri-crea la realtà.

Non sarà, quindi, non un dio, ma… un semidio sì.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di preghiera.

La preghiera (almeno una certa preghiera, ovverossia la preghiera come la si intende normalmente, di solito) poggia su una grande illusione: che esista “almeno Uno nell’universo (Dio) che non può perdermi, che ama incondizionatamente la mia vita, che rende la mia vita degna di essere amata, assolutamente e immensamente insacrificabile. Almeno Uno che non mi lascerà mai.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli).

Mentre tutti gli altri legami significativi per noi, tutte le altre relazioni amorose, sono a rischio: il rischio che l’Altro voglia porre termine al rapporto con noi, che non provi più il desiderio di stare con noi, che ad un certo punto non ci ami più.

Questa preghiera si poggia su una illusione, perché questo Uno non esiste, è una nostra proiezione, è la creazione fantasmatica di un nostro desiderio di amore illimitato e incondizionato, di protezione dal Male assoluto che è la solitudine.

Abbiamo visto oltretutto e lo vediamo ogni giorno che passa, non solo nella nostra esperienza ma anche nella lettura degli stessi libri “sacri”, che questa fede in questo Qualcuno, non ci garantisce per niente dal rischio dell’abbandono e dallo sprofondamento nella solitudine più cupa e tenebrosa (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”: grida lo stesso Gesù, figlio di Dio, nel momento estremo del suo sacrificio sulla croce).

Diversa è la preghiera che da richiesta di protezione e rifugio diventa accettazione profonda della propria condizione di solitudine radicale, abbandono a questa situazione di contingenza assoluta dovuta alla nostra natura mortale, all’idea che prima o poi finiremo nel nulla dal quale siamo venuti, che ci trasformeremo in materia inerte, la stessa che ci circonda da tutte le parti e dalla quale ci siamo staccati nel momento in cui in noi si è formata la coscienza/consapevolezza di esistere.

La preghiera che trasforma la paura e il rifiuto della morte in accettazione, (o, meglio, rassegnazione) e preparazione (quanto più possibile serena, ma mai del tutto serena: diciamocelo francamente!) alla sua venuta, al suo evento.

La preghiera che ci fa sentire parte di un Universo che esisteva da sempre prima che nascessimo come individui e che continuerà ad esistere anche quando noi saremo morti come persone, cioè esseri coscienti e presenti a sé stessi.

Un Universo, quindi, nel quale in qualche modo continueremo a vivere, anche se in forme del tutto diverse (certamente non più esseri coscienti) da quelle nelle quali abbiamo vissuto per un breve arco di tempo, quando esistevamo come individui/persone.

Una preghiera, quindi, che in qualche modo ci fa sentire immortali, eterni, particelle infinitesimali di un ciclo infinito, che non si arresta con la nostra morte, anche se è e resta del tutto misterioso, perché non sappiamo spiegarcene il fine e, quindi, il senso.

© Giovanni Lamagna

Tutto cambi, perché nulla cambi.

La maggior parte delle persone preferisce cambiare in superficie, cioè solo apparentemente, per non cambiare veramente, effettivamente, cioè in profondità.

“Il Gattopardo”, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, lo insegna: “Tutto cambi, perché nulla cambi”.

© Giovanni Lamagna

Perché non sono buddhista?

Ad un certo punto del suo interessantissimo libro “I quattro maestri” (Garzanti; 2020) – dedicato a Socrate, Buddha, Confucio e Gesù – Vito Mancuso si pone la seguente domanda: perché non sono buddhista?

Qui me la pongo anch’io e quella che segue è la mia risposta; che non è molto diversa nella sostanza da quella che si dà Mancuso, seppure con qualche differenza e aggiunta.

La ragione principale per cui non mi sento buddhista è che tra le due categorie fondamentali nelle quali si dividono (a voler fare quella che è ovviamente una estrema e grossolana semplificazione) i vari pensatori che si sono susseguiti nella storia, quella dei “pessimisti” e quella degli “ottimisti”, Buddha si inserisce a pieno titolo nella prima.

Mentre io non mi riconosco né nell’una né nell’altra, mi situo tutto sommato a metà strada tra l’una e l’altra, forse un po’ più vicino ai secondi che ai primi; quindi abbastanza lontano dalla posizione nella quale, anche se in maniera molto rozza e schematica, possiamo collocare Buddha.

Sono perfettamente consapevole, come ho già evidenziato in altre occasioni, che il pensiero di Buddha presenta alcune, anzi parecchie, ambiguità che ne giustificano (almeno in parte) letture diverse e persino opposte; le letture che ne danno, ad esempio, l’attuale Dalai Lama e Thich Nhat Hanh ne evidenziano il versante positivo ed ottimistico.

E, tuttavia, ci sono alcuni passaggi decisivi dell’insegnamento di colui che resta comunque un grande Maestro, che a me (come del resto a Mancuso, dal cui pensiero traggo conforto e conferma) sembrano inconfutabili, per identificarne il segno, l’anima per me fondamentalmente negativi e pessimisti.

Uno in modo particolare, tratto dal “Dhammapada” (153-154; pag. 51) e citato non a caso da Mancuso: “Per vite innumerevoli ho vagato cercando invano il costruttore della mia sofferenza. Ma ora ti ho trovato, costruttore di nulla da oggi in poi. Le tue assi sono state rimosse e spezzata la trave di colmo. Il desiderio è tutto spento; il mio cuore, unito all’increato.”

Qui Buddha afferma con molta chiarezza tre tesi fondamentali: 1) che la vita è principalmente sofferenza; 2) che la radice della sofferenza sta nel desiderio; 3) che, dunque, si supera la sofferenza nel momento in cui si spegne il desiderio.

Con queste tre affermazioni il pensiero del Buddha si inserisce a pieno titolo tra i sistemi di pensiero “negativi”, nel senso di pessimistici, dell’Umanità.

Per me (come per Mancuso) nessuna di queste tre affermazioni è condivisibile; o, perlomeno nessuna delle tre è pienamente e totalmente condivisibile.

Innanzitutto, per me non è affatto vero che la vita sia solo e neanche principalmente sofferenza; la vita è anche sofferenza (e chi potrebbe negarlo?), ma non è solo, né principalmente sofferenza; la vita è (o almeno può essere) anche piaceri, gioie e, in certi momenti, addirittura felicità.

In secondo luogo, non è vero che la radice della sofferenza sia il desiderio. Anzi, io penso che proprio l’assenza di desiderio, lo spegnimento di ogni desiderio, sia la ragione principale della sofferenza. Come può essere, infatti, definita la depressione in termini psichiatrici, se non come una malattia del desiderio? come lo spegnimento totale e radicale del desiderio, dei desideri?

Infine, il desiderio, anzi i desideri, sono il motore dell’esistenza. Senza desideri la nostra stessa energia vitale si spegnerebbe, andremmo incontro alla morte, altro che alla fine delle sofferenze! Che vita sarebbe, infatti, una vita senza desideri?

Sarebbe una vita già morta prima del tempo; che è forse quello che perseguiva il Buddha (per unirsi all’increato, diventare in altre parole materia inerte); ma non è certo quello che auspico e perseguo io.

Altra cosa è sostenere che anche il desiderio, quando non è contenuto, quando è senza limiti, quando diventa spasmodico e ossessivo, quando è aspirazione al godimento infinito, può essere causa di sofferenza e, persino, di morte: su questo sono (anche sulla base della lezione di Lacan) pienamente d’accordo.

Ma una cosa è affermare “il Desiderio deve presupporre la Legge”, la legge del limite, anche nell’interesse del desiderio stesso e della sua migliore soddisfazione (come sostiene, appunto, Lacan), altra cosa è affermare, come purtroppo fa il Buddha (e come del resto fanno anche molte esperienze ascetiche di altre religioni, comprese quelle occidentali), che il desiderio (ogni desiderio) va represso, anzi spento alla radice.

Da queste due affermazioni derivano due scuole di pensiero e, soprattutto, discendono due pratiche di vita completamente diverse, anzi opposte. La prima punta, come dice Mancuso, non al compimento dell’umanità, ma al suo superamento, anche quando l’umanità fosse buona.

La seconda si propone di realizzare al massimo le potenzialità insite in ogni essere umano, attraverso la incarnazione dei tre massimi valori di cui l’uomo è capace: il vero, il bello e il buono; lungi dal voler superare l’umanità, la vuole anzi espandere, sviluppare ai suoi massimi livelli.

Io mi riconosco senza ombra di dubbio nella seconda scuola di pensiero e pratica di vita. Per questo non mi sento e non posso sentirmi buddhista. Nonostante ne condivida molti aspetti del pensiero e della concezione filosofica che lo caratterizza.

© Giovanni Lamagna

Il senso e il fine del “conosci te stesso”

Gli antichi Greci raccomandavano: “γνῶϑι σεαυτόν” (“conosci te stesso”).

A questa antica massima mi viene da obiettare: ma che senso aveva ed ha predicare il “conoscere se stessi”, se poi comunque noi uomini siamo destinati alla morte, a finire nel nulla, dal quale del resto siamo venuti?

Oltretutto gli antichi Greci avevano una spietata, radicale consapevolezza di un tale destino, forse come nessun altro popolo l’ha mai avuta nella storia, almeno nella storia antica.

Tanto è vero che definivano l’uomo “essere mortale”; facevano quindi della morte la caratteristica, lo stigma principale dell’uomo.

Poi penso ai bambini; la cui occupazione (mi verrebbe da dire: il loro lavoro) principale è il gioco.

E mi chiedo: qual è il senso del gioco (non solo per i bambini, ma anche per noi adulti)?

Risposta: nessuno!

Il gioco non ha nessun senso finalistico, se non il piacere in sé, il piacere che si prova a giocare.

Anche se nel caso dei bambini (e forse non solo dei bambini) il gioco è anche una forma (anzi forse la principale forma) di apprendimento.

E allora penso che è così anche per la vita in generale; è così anche per gli adulti.

Il “conosci te stesso” che raccomandavano i Greci non ha nessun senso finalistico, dal momento che noi uomini siamo “esseri mortali”, la cui vita si conclude definitivamente e ineluttabilmente con la morte.

Il “conosci te stesso” ha un valore in sé, per il piacere che la ricerca di sé dona a chi la fa.

La vita non ha un senso metafisico, un senso che sta oltre se stessa; la vita ha un senso in sé.

Proprio come il gioco, che non si gioca per una qualche utilità pratica e neanche per chissà quale nobile ragione ideale.

Si gioca perché è bello giocare, perché giocare ci distende, ci rilassa, ci diverte, ci fa stare bene.

La vita ha senso viverla non perché trova una giustificazione che sta fuori della vita stessa.

La vita è bella in sé; o, perlomeno, la maggior parte di noi trova che, nonostante tutto, ha senso viverla.

Pur con tutte le sofferenze che inevitabilmente la attraversano e la consapevolezza che essa prima o poi terminerà con la morte.

Allora, fin quando troveremo che essa è – nonostante tutto – bella, avrà senso viverla.

Quando non la troveremo più bella e le sofferenze supereranno le gioie che – nonostante tutto – essa ci dà, forse sarà il caso di togliere le tende e andare incontro – consapevolmente, volontariamente e, se possibile, serenamente – al nostro destino di uomini: quello di essere mortali.

© Giovanni Lamagna

Noi siamo tutto e siamo nulla, liberi e non liberi

Noi uomini siamo tutto e siamo nulla allo stesso tempo.

Siamo, infatti, artefici della Storia, che, senza di noi, semplicemente non sarebbe.

E, allo stesso tempo, non possiamo fare nulla che, in qualche modo, non stia già scritto da qualche parte.

Siamo, insomma, liberi e non liberi.

Liberi di fare ciò che è stato deciso da qualcos’altro o da qualcun altro o da altri; non certo da noi.

E, però, questo qualcosa non ci sarebbe, non potrebbe accadere, se noi non decidessimo, con un atto pensato e voluto, di realizzarlo.

Paradosso dei paradossi!

© Giovanni Lamagna