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Esiste la possibilità di una difesa nonviolenta di fronte ad un’aggressione armata?

Qualche giorno fa ho pubblicato su facebook il seguente pensiero: “Chi è consapevole di essere parte di un Tutto indivisibile non può concepire (e, meno che mai, fare) la guerra.”

Un amico così lo ha commentato: “E se la guerra te la fanno? Non ti difendi?”.

E’ questa, a mio avviso, la domanda fondamentale alla quale i pacifisti “senza se e senza ma”, coloro (tra i quali mi annovero anche io) che hanno fatto la scelta della nonviolenza, devono dare una risposta convincente e non (solo) ideologica, in grado pertanto di sensibilizzare le coscienze a livello di massa e provocare comportamenti conseguenti, non solo di piccole avanguardie ma di un popolo intero.

Ovviamente – sia detto per inciso – il pacifista nonviolento non prende nemmeno in considerazione il ricorso alla violenza di attacco; se rinuncia alla difesa violenta, per quanto legittima, come potrebbe prendere in considerazione l’azione violenta di attacco?

E però il pacifista nonviolento non può evadere, invece, gli argomenti che gli vengono opposti rispetto alla difesa nonviolenta, da lui ipotizzata, nei confronti di un attacco violento ricevuto: “che fai, se la guerra te la fanno, tu non ti difendi?”

A questa domanda bisogna necessariamente rispondere, non la si può evadere.

E la prima risposta che mi viene di dare è che, certo, anche il pacifista, anche il nonviolento hanno il diritto di difendersi; è non solo legittimo, ma naturale, anzi persino doveroso, che lo facciano.

Solo che il pacifista non violento si difende senza fare ricorso alla violenza, senza rispondere alla violenza con altra violenza.

Allo stesso modo di come fanno, del resto, la gran parte dei cittadini civili in una comunità civile.

Anche in una società complessivamente civile si verificano, infatti, talvolta episodi di violenza, ovverossia episodi di inciviltà; e ciascuno di noi corre il rischio di rimanerne vittima.

Io, ad esempio, una volta (era quasi mezzanotte) sono stato rapinato da una piccola banda armata di giovinastri mentre mi ritiravo a casa.

Ma non per questo andiamo in giro armati, per poterci difendere con le armi, nell’ipotesi di trovarci in una situazione simile a quella nella quale mi sono trovato io tempo fa.

Nella gran parte dei casi quasi tutti noi reagiamo a queste forme di violenza senza opporre resistenza, consapevoli che il gioco non varrebbe la candela; e solo successivamente ricorrendo alla denuncia dell’accaduto in un posto di polizia.

Questo è ciò che avviene in una società evoluta, quella che noi definiamo normalmente e sanamente civile.

Le società, nelle quali moltissimi cittadini si armano per poter fronteggiare autonomamente e privatamente situazioni simili a quelle che ho sopra descritto e nelle quali la legge permette o addirittura incoraggia tale tipo di autodifesa, appaiono alla maggior parte di noi più simili al Far West che a delle società compiutamente civili.

Il problema che sembra oramai risolto al livello delle comunità civili, al loro interno, si pone però (bisogna riconoscerlo!) quando la violenza si affaccia al livello dei rapporti tra le diverse comunità, tra i diversi Stati, tra le Nazioni.

Innanzitutto perché la violenza a questo livello assume dimensioni ben maggiori di quelle che normalmente sono toccate al livello delle relazioni interpersonali o tutt’al più delle relazioni tra gruppi all’interno di una stessa comunità.

Sia perché in questo caso mancano norme, legislazioni condivise, che tutelino efficacemente chi subisce violenza; sia (soprattutto) perché, anche quando queste norme e le Istituzioni che dovrebbero farle rispettare almeno formalmente ci sono, esse sono deboli o del tutto inadeguati gli strumenti e le forze per far rispettare queste norme (vedi ONU).

Come ci si può difendere allora a questi livelli, senza fare ricorso alle armi, senza rispondere alla violenza con la violenza, alla guerra con la guerra; e senza nello stesso tempo arrendersi passivamente all’avversario/nemico che ci ha assalito, che ha invaso e occupato i nostri territori?

Esistono risposte nonviolente alla violenza, che non siano la pura e semplice resa? A mio avviso, sì!

La prima è la non-collaborazione; un esercito nemico potrà invadere il nostro territorio, occuparlo, ma non potrà mai invadere ed occupare le nostre coscienze (nota 1); un popolo che non si arrende è un popolo che non collabora col nemico nella gestione del territorio occupato.

La seconda risposta possibile è il boicottaggio di tutte le iniziative che l’esercito nemico proverà a intraprendere sul territorio occupato; boicottaggio innanzitutto psicologico e poi anche materiale.

La terza risposta è quella dello sciopero di protesta nonviolenta; la discesa in campo aperta, con manifestazioni pubbliche, più o meno spontanee, meglio se organizzate, preparate magari in modo clandestino.

La quarta risposta è quella della ricerca il più possibile ampia della solidarietà internazionale, la quale potrà esprimersi con forme di sanzioni e prese di posizione formali diplomatiche da parte di altre nazioni, in modo da isolare il più possibile a livello internazionale la nazione occupante. (nota 2)

Certo, nessuna di queste risposte nonviolente ad un attacco violento è in grado di fermare l’avanzata e – ancora meno – provocare la ritirata e, quindi, la sconfitta militare dell’esercito nemico: di questo sono pienamente consapevole.

Ma d’altra parte è forse in grado di offrire migliori garanzie la risposta violenta?

Non mi sembra! A giudicare dalle immagini che la televisione ci trasmette ogni giorno, quasi ad ogni ora, della guerra attualmente in corso in Ucraina: intere città rase al suolo, migliaia di morti non solo tra i militari ma anche tra i civili, un apparato economico, soprattutto industriale, in gran parte distrutto, milioni di persone costrette a vivere in condizioni inumane da oramai più di tre mesi o ad abbandonare la loro patria per trovare rifugio all’estero.

Immagini di una tale violenza distruttiva non dovrebbero insinuarci qualche dubbio sul tipo di risposta che sia il popolo ucraino che la comunità (?) internazionale (almeno quella occidentale) hanno dato finora all’invasione russa e indurci a ipotizzare e immaginare (quantomeno ipotizzare e immaginare) altri scenari possibili?

© Giovanni Lamagna

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(nota 1): Ricordo a tale proposito la risposta che diede l’attuale Dalai Lama a chi gli chiedeva come mai non incitasse il proprio popolo ad una ribellione armata contro l’occupazione cinese del Tibet: “I cinesi hanno già occupato il nostro territorio; non posso permettere loro di occupare anche la mia anima.”

(nota 2) Ovviamente perché queste risposte possano risultare efficaci occorre che esse vengano preparate bene e anzitempo, cioè in tempo di pace; né più e né meno di come gli eserciti si addestrano ad azioni militari di guerra, quando la guerra non c’è.

E che tutto il popolo (o almeno la gran parte di esso) vi partecipi: non solo i giovani, bene in salute e prevalentemente maschi, ma anche le donne, le persone con handicap fisici e gli anziani; per alcune azioni, perfino i bambini e i vecchi.

Il filosofo costruisce mappe di orientamento.

Il filosofo è paragonabile ad un esploratore, ad un turista, che vuole recarsi in una regione o in una città da lui non ancora conosciuti ed ha bisogno quindi di mappe per orientarsi tra i luoghi che vuole visitare.

Il filosofo è uno che le mappe (nel suo caso del tutto interiori) se le costruisce da sé, per orientarsi all’interno del mondo e della vita, in cui – come dice Heidegger – è stato “gettato”; come, del resto, tutti gli altri uomini, con i quali condivide lo stesso destino.

Queste mappe (che qualcuno ha chiamato non a caso “weltanschauung”) servono innanzitutto a lui per orientarsi nel mondo in cui vive; ma egli spera, si augura (e talvolta – anche se in rari casi – è davvero così) possano servire pure ad altri suoi simili.

La filosofia muove dunque innanzitutto da un’esigenza del tutto individuale di autodifesa, di autoaiuto, di autoterapia; potremmo perfino dire di sopravvivenza.

Ma, allo stesso tempo, ha anche una finalità diciamo pure sociale: si propone cioè di svolgere un servizio (potremmo dire di consulenza?) al proprio prossimo.

Servizio non so fino a che punto realmente richiesto o desiderato, vista la definizione chiaramente canzonatoria che ne dà il popolino: “la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”.

Ma (tant’è!) il filosofo non può fare a meno di svolgere il suo “mestiere”, anche nella incomprensione e perfino nel disprezzo degli altri; perché esso corrisponde ad una vocazione interiore, alla quale (se è un vero filosofo) non può non corrispondere.

© Giovanni Lamagna

Lettera aperta a Massimo Recalcati

Caro Massimo,

ho letto (come sempre, del resto) con molta attenzione il tuo articolo comparso su “la Repubblica” di oggi. Alcune cose mi hanno pienamente convinto, altre meno. Desidero parlartene in un confronto quantomeno virtuale.

Tu affermi: “La colpa di Caino apre la narrazione biblica dell’entrata dell’uomo nella storia.

Per me “l’entrata dell’uomo nella storia” secondo il racconto biblico non è la colpa di Caino, ma la disobbedienza di Adamo ed Eva a Dio, che ne comportò la cacciata dall’Eden. E’ da questo gesto primario che si origina la libertà e quindi la responsabilità dell’uomo: non credi?

Tu affermi, riprendendo Freud, che “all’origine della vita non c’è l’amore, ma l’odio.

Io, invece, penso che all’origine della vita non ci sia né l’amore né l’odio, che sono sentimenti, ma piuttosto un istinto primordiale che Schopenhauer ha ben definito con l’espressione “volontà di vivere”. La volontà di vivere, che è comune agli uomini come agli animali, si esprime poi negli uomini sia attraverso l’amore che attraverso l’odio, che sono sentimenti tipicamente umani.

Tu affermi: “L’illusione della violenza è quella di raggiungere in un colpo solo la realizzazione dei nostri desideri.

Qui sono pienamente d’accordo: sottoscrivo.

Tu affermi: “Il gesto di Caino insegna che la violenza non è affatto l’esito di una regressione dell’umano al regno animale. Non esiste, infatti, tentazione della violenza nel mondo animale perché in quel mondo la violenza non è in rapporto al desiderio, ma all’istinto. Non esiste, a rigore, possibilità di crimine nel mondo animale. Quel mondo è regolato solo dalla forza affermativa dell’istinto di vita che non conosce la tentazione della violenza ma solo il suo uso necessario. Il crimine viene alla luce solo con l’uomo.

Qui, caro Massimo, sono d’accordo e non d’accordo, concordo con alcune affermazioni, sono invece in disaccordo con altre.

Anch’io penso che esista una profonda differenza tra la violenza dell’uomo e quella degli animali. Innanzitutto, perché, come dici bene tu, la violenza degli animali è sempre legata all’istinto, mentre quella dell’uomo può essere legata anche al desiderio.

In questo senso hai ragione tu: nel mondo animale non si può parlare di “crimine”; il crimine è prerogativa esclusivamente umana.

E, però, la violenza degli uomini non è legata sempre al desiderio, ciò che la rende criminale.

Alle volte anche nell’uomo essa è legata al semplice istinto: pensa all’istinto di sopravvivenza, che si manifesta nell’autodifesa personale o nella difesa delle persone che vogliamo proteggere da attacchi altrui. E in questo caso come sai bene è del tutto legittima.

E comunque, in ogni caso, anche quando la violenza nell’uomo è mossa dal desiderio e non dall’istinto, in qualche modo essa è una forma “di regressione… al regno animale”. L’uomo, infatti, non saprebbe usarla se non l’avesse nel suo patrimonio filogenetico. Tanto è vero che, di fronte a certi delitti, ci viene spontaneo parlare di “gesti bestiali”.

Tu affermi: “L’odio è, in questo senso, sempre più antico dell’amore perché incarnerebbe la prima reazione dell’uomo nei confronti dell’Altro che perturba o minaccia i confini della sua identità.

Detta così e presa alla lettera, non concordo (quasi) per niente con una tale affermazione. Sarebbe come dire che “la prima reazione” del bambino appena nato nei confronti della madre o della madre nei confronti del bambino è quella dell’odio, del rifiuto, dell’ostilità.

Ora io non dico che, invece, la prima reazione del bambino e della madre sia quella del solo amore. Anche se la maggior parte dei gesti che caratterizza la maggior parte dei rapporti bambino-madre-bambino mi farebbe dire proprio questo.

Propendo piuttosto a parlare di una profonda ambivalenza del sentimento umano nei confronti dell’Altro. I sentimenti che ciascuno di noi prova per gli altri sono (come sai meglio di me, visto il “mestiere” che fai) un impasto di amore e odio.

Da questo punto di vista propendo a pensare che Caino e Abele siano le due facce della stessa medaglia, due “archetipi” che caratterizzano profondamente la natura di ognuno di noi.

In ognuno di noi si nasconde un Caino o un Abele, come “ombra” o come “persona”, per fare ricorso a due termini coniati da Jung, che di archetipi se ne intendeva. Alle volte nella “persona” prevale l’odio e l’amore rimane in “ombra”. Altre volte avviene esattamente il contrario.

Tu dici: “Perché Caino colpisce a morte il fratello? Nel testo biblico si racconta che egli non poteva sopportare l’amore che Dio mostra verso il fratello, non poteva sopportare di non essere l’unico. Il suo gesto rivela la matrice invidiosa e narcisistica della violenza umana. La violenza che si scatena sul più prossimo e non sull’estraneo, sul fratello e non sul nemico, porta con sé il marchio indelebile dell’invidia poiché l’invidiato non è mai lo sconosciuto, ma quello che vorremmo essere senza riuscirvi, il nostro ideale irraggiungibile. L’invidia, infatti, è sempre rivolta a chi è come noi ma ha o è più di noi; è sempre invidia per il simile e non per il diverso; l’invidiato incarna l’ideale inconfessato dell’invidioso.

Qui sono quasi del tutto d’accordo; anche se la tua riflessione mi suggerisce qualche piccola integrazione.

Sicuramente alla radice della violenza umana c’è molte volte l’invidia, cioè il sentimento narcisistico che ci porta a desiderare di possedere ciò che l’altro è o (più banalmente) ha.

Ma c’è anche un altro sentimento, altrettanto narcisistico (a me pare), che spesso motiva la violenza dell’uomo; ed è la gelosia, cioè il sentimento che ci porta a temere che altri possano portarci via ciò che abbiamo o (addirittura!) siamo.

Gelosia che in fondo prova anche Caino, il quale sente che a lui viene tolto quell’amore che invece viene dato ad Abele, quasi che l’amore dato da Dio ad Abele fosse sottratto a lui. Quanti omicidi (specie femminicidi) avvengono “in nome” di questo sentimento?

Ancora: la tua affermazione “l’invidia … è sempre invidia per il simile” conferma (mi pare) la tesi che ho poc’anzi portato avanti e cioè che l’odio si mescola sempre con l’amore, la violenza, perfino con l’attrazione.

Ma, poi, “l’invidia… è sempre invidia per il simile e non per il diverso”? A mio avviso l’invidia sicuramente a volte è invidia per il simile, per chi ci è vicino; ma a volte è invidia per chi è diverso, per chi ci è lontano.

Da cosa sarebbe scatenata, in fondo, la violenza di un certo recente terrorismo islamico, se non dall’invidia per il diverso e per il lontano, per noi dell’Occidente ricco e culturalmente laico e secolarizzato?

Tu affermi: “Il gesto di Caino rivela che la fratellanza non è mai – come, del resto, il processo stesso della filiazione – un evento di sangue. Non esiste fratellanza biologica. Il che significa che non esiste fratellanza senza riconoscimento della nostra responsabilità verso il fratello.

Anche qui sono quasi pienamente d’accordo. Lo sarei totalmente se al posto dell’espressione “la fratellanza non è mai… un evento di sangue” tu avessi usato la seguente “la fratellanza non è solo e neanche principalmente un evento di sangue”.

Come si fa a negare, infatti, che il legame di sangue ci predisponga naturalmente verso un certo tipo di rapporto (direi viscerale) verso i nostri genitori, i nostri fratelli, i nostri figli e, perfino, verso i nostri nipoti?

Poi sono d’accordo con te che questo legame carnale, di sangue, non basta per garantire l’amore né verso i genitori, né verso i fratelli, né verso i figli, senza un’assunzione (che non è solo e neanche principalmente istintiva) di responsabilità.

Ma l’importanza di questa assunzione di responsabilità non esclude l’importanza del legame di sangue, che conta (eccome se conta!).

Sono d’accordo con te che la fratellanza non si fonda solo sul “suolo” e sul “sangue” e che esiste una fratellanza universale che travalica i confini della patria e quelli della parentela.

Ma non possiamo per questo negare (a meno di non voler negare dati di realtà a me paiono evidenti) che l’essere nati sullo stesso suolo e nella stessa famiglia genera un legame particolare all’interno del legame universale che tutti ci unisce in quanto esseri accomunati dalla stessa umanità.

Non si giustificherebbe altrimenti (per dire una cosa banale, ma si potrebbero tranquillamente fare esempi meno banali) neanche il tifo per le nostre nazionali o, addirittura, per quelle cittadine o di paese.

Sono, infine, totalmente e appassionatamente, d’accordo con la chiusa del tuo articolo: “Dove esiste comunità umana la natura speculare della violenza fratricida deve essere interrotta. Il segno che Dio pone su Caino impedisce all’assassino di essere assassinato in una ripetizione senza fine della violenza fratricida per indicare l’orizzonte di una fratellanza non fondata sull’invidia narcisistica, ma sulla condivisione della responsabilità.

Con questa affermazione anche tu sembri (anzi ne sono sicuro) voler dire che si dà vera comunità umana solo laddove gli uomini che ne fanno parte hanno saputo rinunciare alla loro natura tendenzialmente violenta, hanno saputo cioè sublimare con il linguaggio e con le opere della cultura, l’aggressività che li accomuna alle altre specie animali.

Mi dispiace di non poter essere domani a Carpi ad ascoltarti; lo sarò spiritualmente. E grazie di avermi stimolato questa riflessione che mi ha consentito di tornare su questioni che per me sono centrali!

Giovanni