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Pensare è dialogare.

Per pensare io devo sempre mettere una distanza tra me e l’Altro da me.

Che è, dunque, “me” e, allo stesso tempo, “un altro”.

Pensare è, pertanto, sempre una forma di colloquio tra un “Ego” e un “Alter-ego”.

Quando io non riconosco (simbolicamente) l’Altro da me, quando non lo vedo, quando non ci parlo, perché sono tutto ripiegato e chiuso in me stesso, il mio pensiero subisce un arresto.

Quantomeno subisce un arresto il pensiero meditativo, riflessivo, cioè il “pensiero nobile”

E resta – nella migliore delle ipotesi, quando non viene meno anche questo – solo il pensiero meccanico, come pura logica: quello che Heidegger chiamava “pensiero calcolante”.

Cioè il pensiero robotico, che è lo stesso pensiero del computer e – possiamo ipotizzare – di quella che oggi viene definita “Intelligenza Artificiale” (IA).

© Giovanni Lamagna

Ideali e centralità della vita.

La vita umana può trovare senso e unità solo nella dedizione ad una causa, a un ideale, a un compito, a una vocazione, che in qualche modo la trascendano.

Ma questa causa, questo ideale, questo ideale, questa vocazione, non dovranno mai negare il valore, anzi la centralità, della vita umana.

E non la vita umana come concetto astratto, ideologico: ovverossia la vita dell’Umanità come specie.

Nel nome della quale (quasi come nel nome di Dio) gli uomini hanno compiuto i peggiori delitti e si sono resi colpevoli delle peggiori efferatezze.

Ma la vita umana intesa come singola vita umana, quella che si incarna in ogni singolo individuo della specie, anche il più piccolo e apparentemente insignificante.

Anche l’ideale più grande, la più nobile delle cause, non potranno e non dovranno mai prescindere dal principio che la vita di ogni uomo è il fine e non il mezzo per altri fini, presunti superiori.

© Giovanni Lamagna

C’è selvaggio e selvaggio… (2)

C’è un “selvaggio” che è puro istinto: l’ES freudiano; o altrimenti l’animale allo stato puro.

Che non si concilia con l’umano; quando è presente nell’uomo, è – possiamo dire – l’umano bestiale.

Ma c’è anche un “selvaggio” educato, che la civiltà ha preservato (almeno in parte), senza troppo edulcorarlo, addomesticarlo o addirittura negarlo.

È il selvaggio che l’IO freudiano non sente la necessità di colonizzare, trasformare, perché ha superato il vaglio del “principio di realtà” e allo stesso tempo non si è conformato alle richieste/censure del Super-io freudiano.

È un selvaggio che potremmo definire nobile, pienamente compatibile con “l’umano”.

A volte come istanza psichica anche molto esteso e niente affatto residuale.

Fortunato chi è riuscito a conservare dentro di sé questo “selvaggio”, resistendo ai divieti e alle seduzioni omologanti e confortevoli del Super-io!

© Giovanni Lamagna

Cosa rende nobile una vita?

Non è l’assenza totale (o meno) di incoerenze o contraddizioni morali che rende nobile e apprezzabile (o meno) la vita di una persona.

Ma il fatto che questa vita – pur nel suo inevitabile e umano zigzagare – abbia alla fin fine un suo riconoscibile percorso, che segua cioè una determinata direzione e abbia una sua coerenza fondamentale, un fil rouge sotteso, quand’anche in presenza di molteplici deviazioni e ondeggiamenti.

© Giovanni Lamagna