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Non sempre l’obbedienza alla Legge è una virtù.
L’unica funzione che riconosco legittima della Legge (sia quella giuridica che quella morale) è di far presente al soggetto i limiti che impone la Realtà.
Quando la Legge pretende di imporre limiti che niente hanno a che fare con il principio freudiano di realtà, commette un abuso.
E’, a mio avviso, una Legge… fuori legge, una legge capricciosa; alla quale, quindi, è lecito disobbedire.
Non sempre, allora, l’obbedienza è una virtù etica.
Anzi, in certi casi, disobbedire è un dovere morale.
© Giovanni Lamagna
Etica, mistica e religione.
Kierkegaard, commentando l’episodio di Abramo, che per obbedire alla volontà di Dio, si dispone ad uccidere il figlio Isacco, “contrappone l’uomo religioso a quello etico” (Massimo Recalcati; “La legge della parola”; Einaudi 2022, p. 138).
Nel senso – evidente – che la scelta di Abramo va contro ogni etica umanistica: cosa c’è di più abominevole sul piano etico dell’ammazzare un uomo, per giunta un figlio?
E avviene in nome dell’obbedienza a Dio che è propria – la scelta fondamentale – dell’uomo religioso.
Io faccio un’ulteriore distinzione, anzi pongo un’ulteriore contrapposizione: quella tra il mistico e il religioso.
Il religioso per me è colui che obbedisce alle leggi della propria religione come norme esterne, che gli si impongono dall’esterno o, meglio, dall’alto, spesso incarnate da qualche autorità religiosa o scolpite su qualche tavola di pietra.
Il mistico, invece, è colui che obbedisce unicamente alla sua voce interiore, perché è in contatto diretto con Dio, non con le sue Leggi.
E, infatti, talvolta, il mistico va in conflitto con le norme della sua religione, con i sacerdoti e i fedeli ossequienti – ma passivi – della sua comunità.
Il mistico (come Gesù) è in grado di dire “non è l’uomo fatto per il sabato, ma è il sabato fatto per l’uomo”, nel senso che per il mistico l’amore per la Legge viene dopo un amore più grande, che è quello per la chiamata assolutamente singolare del suo Dio.
In questo senso, dunque, Abramo non è affatto uomo di religione (come lo considera Kierkegaard, in contrapposizione all’uomo dell’etica), ma è l’esemplare tipico del mistico, che va in conflitto con la stessa religione (oltre che con l’etica).
Questo per dire che “mistica” e “religione” non sono affatto la stessa cosa, come si potrebbe semplicisticamente pensare.
Anzi spesso sono addirittura opposti.
I sacerdoti del tempio erano indubbiamente uomini di religione; Gesù era, invece, un mistico.
E sappiamo bene qual fu la natura dei loro rapporti; mai idilliaca!
Alla fine i secondi richiesero addirittura la messa a morte del primo.
A significare, in maniera inequivocabile, la distinzione che c’è tra “religione” e “mistica”; in molti casi addirittura il conflitto, l’opposizione.
© Giovanni Lamagna
Sul concetto di “normalità”
Volendo affrontare questo argomento, credo che per prima cosa bisogna chiedersi: ma esiste la normalità? Esiste un criterio per definire ciò che è normale e ciò che non lo è?
A me sembra di poter dire che fino a non moltissimi decenni fa queste domande sarebbero apparse del tutto stravaganti; anzi nessuno se le sarebbe neanche poste.
Da qualche tempo, invece, esse sono entrate a pieno titolo nel dibattito filosofico e perfino in quello pubblico, della gente comune, anche quella per niente abituata a riflessioni e discussioni di carattere speculativo.
Tanto è vero che il pensiero moderno tra le sue varie caratteristiche potrebbe comprendere proprio quella del relativismo.
Ovviamente anche sul concetto di “relativismo” bisogna intendersi, perché potremmo parlare di un relativismo soft, morbido, e di un relativismo hard, estremo.
Il relativismo estremo è quello che nega la possibilità stessa di accedere a una qualche nozione che possa essere definita non dico oggettivamente, ma almeno soggettivamente, come vera; sfiora il nichilismo o, addirittura, si identifica con esso.
Per questo tipo di relativismo anche il concetto di “norma” e conseguentemente quello di “normale” finiscono per non avere alcun solido fondamento teorico-razionale.
Per esso ogni norma e, quindi, ogni riferimento al concetto di “normale” hanno un valore estremamente labile: possono perciò essere messi in discussione da chiunque e in qualsiasi momento; dalla stessa persona che in altri momenti li aveva ritenuti validi.
Il relativismo soft, morbido, non è invece così drastico; infatti, non nega che ciascuno di noi possa raggiungere delle nozioni/convinzioni che per lui, almeno per lui, hanno il valore di “verità”; solo che questa verità nessuno (manco chi la professa) la potrà mai definire come la Verità assoluta.
Ogni “verità” (non a caso scritta con la iniziale minuscola) sarà sempre e solo la mia verità, nella quale magari io crederò con ferma convinzione, ma sempre accompagnandola con un qualche margine di dubbio, disposto dunque a metterla sempre in discussione e a rivederla di fronte ad altre e superiori evidenze.
Io personalmente non condivido il relativismo hard, estremo, mentre mi riconosco in quello soft, morbido.
In questo credo di trovare man forte nel pensiero scientifico, per il quale vale il metodo sperimentale, in base al quale io formulo delle ipotesi e le assoggetto a delle verifiche; se esse vengono validate da prove non contraddette dalla comunità scientifica, queste ipotesi divengono “verità”, nel senso di tesi condivise, quantomeno da un certo numero di persone o di gruppi, più o meno grandi.
Ma anche queste “verità” non hanno nulla del dogma, nel senso che non sono verità indiscutibili ed assolute, valide cioè una volta e per sempre, magari contro ogni evidenza e smentita della realtà.
Rimangono “verità” (e, quindi, risultano utili come forme di orientamento sia teorico che pratico) fino a che non vengono invalidate da qualche nuova scoperta e da qualche nuova teoria.
Questo discorso, anzi questo metodo, si può (anzi, a mio avviso, si deve) applicare anche quando parliamo di ciò che è normale e di ciò che non lo è.
Per me si può applicare il concetto di “normale” a qualsiasi ambito della vita, a patto di non considerarlo un assoluto (ciò che è normale per me o per un gruppo di cui faccio parte lo deve essere per tutti) e a patto di riuscire a metterlo in discussione laddove cadano i presupposti teorici e pratici che in un dato momento storico, in una data fase della mia vita, me lo hanno fatto considerare tale.
Dopo questa premessa teorica, allora che cosa è “normale” per me e che cosa non lo è?
Io credo che si possano distinguere tre criteri per definire il concetto di “normalità”: un “criterio statistico”, un “criterio funzionale” e un “criterio ideale/valoriale”.
In base al primo criterio è normale tutto ciò che rientra nel numero maggioritario di casi all’interno di un universo di casi presi in esame e da noi (più o meno approfonditamente o più o meno superficialmente) conosciuti.
Ad esempio, è “normale” che le donne siano meno alte della maggioranza degli uomini. E per converso è “anormale” che una donna sia più alta della maggior parte degli uomini.
Altro esempio: una volta definita l’altezza media di una determinata popolazione (in questo caso potremmo anche considerare quella dell’intera popolazione mondiale), allora tutti gli individui che si discostano di molto da questa altezza media potranno essere definiti “anormali”; cioè nani, nel caso se ne discostino in basso, o giganti, nel caso se ne discostino in alto.
In base al secondo criterio – quello “funzionale” – è “normale” tutto ciò che “obbedisce” alla funzione per cui è nato o è stato pensato.
Non è “normale”, quindi, un occhio che non vede o un orecchio che non sente, un polmone che non respira o un rene che non depura il corpo di cui fa parte.
Non è “normale” l’utero della donna che non è in grado di farla procreare, come non sono “normali” i testicoli dell’uomo che non producono spermatozoi capaci di assicurare la riproduzione nel caso dell’accoppiamento con una donna fertile.
Non è “normale” un tavolo che non sta in piedi o una lampada che non si accende.
Non è certamente “normale” la persona che non si nutre per restare in vita e così si lascia morire.
Infine non è “normale” la persona che logora e prima o poi rompe i rapporti con tutte le persone con le quali entra in relazione, a causa del suo “brutto carattere”.
Ma anche qui siamo andati, un poco alla volta, verso un concetto di “normalità” che non è facile da definire, perché diventa sempre più difficile fissare il concetto stesso di “funzione”: che cosa è, infatti, un “brutto carattere” e cosa è invece un “bel carattere”? in base a quali criteri si può definire bello o brutto un carattere?
C’è, infine, un terzo criterio per definire la “normalità”, quello che io ho chiamato “ideale/valoriale”.
Qui il concetto di normalità si lega strettamente a quello di etica e a quello di morale: è “normale” ciò che si attiene, è conforme all’etica e alla morale; non è normale ciò che è difforme dall’etica e dalla morale.
Ed è proprio in questo ambito che il concetto di “normalità” in molti casi diventa alquanto vago e ambiguo, in alcuni casi estremamente soggettivo e, quindi, relativo.
Può succedere, infatti, che ciò che è morale per la società nella quale io vivo non sia etico per la mia coscienza individuale, che ha interiormente elaborato e riconosciuto “valori” difformi da quelli nei quali si riconosce, più o meno convintamente, più o meno ipocritamente, la maggioranza delle persone che compongono la “societas” nella quale sono nato, cresciuto o nella quale, in un certo momento storico, vivo.
In questo caso, cosa è “normale” per me? Il “valore” esterno che mi viene additato da coloro o dalla maggioranza di coloro che vivono attorno a me? O il “valore” interno, che io sento come “vero” nel mio foro interiore?
A mio avviso, nel caso in cui si ponesse questo conflitto, dovrebbe valere il “valore interno”.
Ma sono ben consapevole che per i più non è così, che per i più il valore – e quindi anche il concetto di “normalità” – è dato, stabilito, da ciò che pensa e ritiene la maggioranza del “popolo” di cui essi fanno parte.
Fu così, ad esempio, per la grande maggioranza del popolo tedesco durante il periodo della dittatura nazista, quando questo popolo si rese complice di atrocità incredibili, addirittura di un genocidio, perché riteneva che l’obbedienza alle leggi “esterne” imposte dal regime fosse un dovere (molti così dichiararono ex post) rispetto all’obbedienza a ciò che magari leggi “interne”, quelle della coscienza, loro suggerivano.
C’è, infine e per concludere, anche una dimensione teorico-filosofica, che non garantisce facili scelte, quando il discorso va su questo terreno.
Cosa è, infatti, “bene” e che cosa è “male”? A queste domande la filosofia non è mai stata in grado di dare risposte univoche e meno che mai definitive.
Per alcuni filosofi, infatti, perseguire il proprio bene individuale, diciamo pure egoistico, in parziale o perfino totale e radicale conflitto con il bene degli altri, del mio prossimo, non parliamo poi di quello dell’intera Umanità, è del tutto legittimo, anzi doveroso.
Per altri filosofi, meno radicali dei primi, esiste una doppia morale: quella “individuale” e quella “politica”; la prima deve (o dovrebbe) obbedire a determinati valori, la seconda può (e, in alcuni casi, deve) contraddire i valori della prima, in nome del superiore interesse e bene della polis.
Per altri filosofi, infine, il valore dell’amore scambievole e fraterno e della solidarietà tra gli uomini è quello supremo e deve dettare le “norme” del nostro comportamento, sia individuale che collettivo.
Per questi filosofi non solo è inconcepibile una doppia morale, ma una morale fondata sull’egoismo estremo (per intenderci, sulla realtà – data per inscritta nella natura – che “homo homini lupus”) è una contraddizione in termini.
Date queste premesse, – illustrate qui (ne sono consapevole) in modo estremamente sommario e schematico – è del tutto ovvio che il concetto di “normalità” che voglia fondarsi sul criterio “ideale/valoriale” è del tutto opinabile e soggettivo; e, pur tuttavia, è un criterio dal quale nessuno di noi potrà prescindere.
Sia che voglia adeguarsi conformisticamente al pensiero e all’agire della maggioranza (come fecero i più del popolo tedesco durante il regime hitleriano) sia che voglia distaccarsene per obbedire alla propria coscienza individuale (come fecero pochissimi dissidenti tedeschi nello stesso periodo di cui sopra, spesso pagando con la vita questa loro scelta), ciascuno di noi si dovrà assumere per intero la responsabilità delle proprie scelte.
Ciascuno di noi si dovrà assumere la responsabilità intellettuale, etica e, persino, estetica di considerare normali certe cose e anormali altre; nessuno altro potrà fare questa scelta (e prendere le decisioni esistenziali che ne conseguono) al posto suo.
Ma non potrà certo pretendere che esse siano considerate universali ed assolute, cioè valide per tutti.
Tutt’al più si potrà battere, sul piano intellettuale, etico ed estetico, per convincere gli altri del loro valore e spingerli a condividerle con scelte e decisioni meditate e, anche per loro, a loro volta, del tutto personali, individuali e, quindi, soggettive.
Senza integralismi, senza presunzioni dogmatiche e, meno che mai, facendo ricorso alla forza e alla violenza, potrà provare a persuadere gli altri della bontà dei propri argomenti, utilizzando le uniche e umili, oltre che miti, “armi” della parola, del dialogo e della ragione.
© Giovanni Lamagna
Sull’idea di comunità.
Nel numero 6/2018 di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, in un suo articolo, sostiene: “La logica della comunità… è la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi, autoritari e dogmatici.
Una logica che annienta proprio quel ciascuno che tutti noi siamo, esistenze singolari e irripetibili intorno a un nucleo di opinione irriducibilmente libera. E in nome di cui nessuna collettività, nessuna ipostasi, può parlare, senza ridurre l’individuo a mera replica. Per cui, parafrasando Marx, andrà sempre ricordato che una comunità può essere libera senza che liberi siano gli individui che la compongono”.
Ora, a mio avviso, tali affermazioni sono senz’altro vere e condivisibili, se riferite ad alcune tesi politiche attuali, quali ad esempio quelle sovraniste oggi tanto in voga, in primis quelle portate avanti dalla Lega (ex Nord) di Matteo Salvini.
Non lo sono, se riferite alla nozione stessa di “comunità”, quale categoria filosofica, sociologica e finanche religiosa, se per religione intendiamo una visione del mondo, più e prima che la sua incarnazione storica in una Chiesa.
Vorrei provare, quindi, a confrontarmi con le affermazioni di Flores, contestandole e smentendole in buona sostanza, almeno in alcuni loro passaggi.
Partendo da una domanda: la logica della comunità è davvero solo “la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi e autoritari e dogmatici”?
La mia risposta è: dipende da che cosa intendiamo, quando pensiamo al concetto di “comunità”. Perché ci sono comunità e comunità: non tutte le comunità concretamente esistenti (o esistite) sono, infatti, da far rientrare nella stessa categoria filosofica e perciò astratta di “comunità”.
Se per comunità intendiamo un gruppo chiuso, che si fonda sulla condivisione di credenze inossidabili, ritenute verità rivelate e perciò dogmatiche, dunque assolute, eterne e indiscutibili, sulla presunzione di possedere la Verità da trasmettere o perfino imporre a color che ne sono ritenuti privi, sulla fede e obbedienza ad un’autorità a cui si attribuiscono poteri sacri o addirittura derivati da Dio stesso, sulla emarginazione dal gruppo di colui o coloro che si permettano anche solo minimamente di avanzare dubbi, riserve, critiche, perplessità riguardo sia ai valori fondanti del gruppo che alle “autorità” che quei valori sono chiamati a custodire, sulla appartenenza alla stessa etnia o, perfino, nei casi estremi sui soli legami di sangue, se per comunità intendiamo, quindi, un gruppo che vive sulla difensiva o, in alcuni casi, sulla competizione e, perfino, sulla guerra con i gruppi “stranieri”, allora la “comunità” effettivamente è quello che dice Flores d’Arcais, cioè un ghetto.
Ma la comunità è solo questo? O, meglio, dato per scontato che alcune (molte) comunità sono quello che sostiene Flores, nel concetto di comunità rientra solo questo? Per comunità dobbiamo intendere solo lo scenario che ne ha descritto Flores, anche se esso è effettivamente e indubbiamente un’esatta e precisa descrizione di alcune (molte) comunità?
Io dico di no. Io dico che ci può essere, anzi c’è, un’altra idea di comunità. E che questa (in parte almeno) è stata non solo teorizzata ma anche praticata (e tuttora viene praticata) in alcune realtà. Realtà magari piccole, minoritarie, ma che non per questo vanno ignorate o escluse dal vocabolario che definisce il concetto di “comunità”.
Per “comunità” noi possiamo intendere anche altro. Io personalmente così la intendo. La comunità è innanzitutto un luogo, un gruppo che mette insieme le persone non certo in base alle etnie e manco in base ai legami familiari, ma sulla base di una scelta, di una decisione/adesione libere e consapevoli (quindi senza nessuna forma di coartazione, né fisica né psicologica, né plateale né subliminale), del singolo individuo. Altro che individuo, quindi, come “mera replica” del gruppo!
Per comunità, inoltre, possiamo intendere un gruppo di persone che si mettono insieme sulla base di alcuni interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Parliamoci chiaro: nessun gruppo nasce, potrebbe nascere, senza un denominatore comune, costituito appunto da interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Ma, rispetto alla logica della comunità-ghetto, questi interessi, opinioni, convinzioni… possono anche non avere nulla di dogmatico e di rigido. Bensì aperti al confronto con interessi, opinioni, convinzioni… diversi di altri gruppi.
La comunità che intendo io è una comunità fondata sul dialogo con le diversità, sulla collaborazione e sulla cooperazione e non sulla competizione e sulla ostilità della comunità-ghetto.
E’ una comunità che ha sposato convintamente il motto (erroneamente attribuito a Voltaire, in realtà di una sua amica-discepola, la scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall): “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.
E’, insomma, una comunità aperta al pluralismo delle idee e niente affatto integralista.
E’ un gruppo che, come tutti i gruppi, ha una sua leadership, ma essa è di natura democratica e per nulla autoritaria. Il leader è tale per le sue qualità umane, cioè caratteriali, relazionali, intellettuali, spirituali. Viene riconosciuto quindi come tale dal gruppo e non investito dall’alto e subìto dal gruppo.
Tanto è vero che, nel momento in cui egli non dovesse più esprimere il sentire e la volontà della comunità, questa prevede (formalmente o informalmente) meccanismi piuttosto semplici, fluidi e rapidi per la sua sostituzione con altra persona ritenuta più adeguata alla funzione.
In questo tipo di comunità il leader è un “primus inter pares” e la struttura psicodinamica del gruppo è circolare e non verticale, come invece lo è nelle comunità-ghetto, di cui parlava Flores.
Infine, la comunità, per come la intendo io, è tenuta insieme dal sentimento caldo e affettuoso dell’amicizia fraterna e non dalla condivisione di una fede fanatica, che lascia in realtà estranei gli uni agli altri i membri della comunità-ghetto.
La comunità di cui parlo io è un gruppo, nel quale si pratica concretamente, non solo a parole, ed è quindi realizzato il motto del 1789: “Libertà, uguaglianza e fraternità”.
E’ un gruppo nel quale l’individuo lungi dall’essere sacrificato e mortificato (come avviene nelle comunità-ghetto dei paesi sottosviluppati, ma anche nelle società-massa dei paesi cosiddetti ipersviluppati) è esaltato al massimo, è considerato una persona umana e non un soggetto anonimo.
E’ un gruppo allora che realizza pienamente, almeno nel micro, gli ideali che la rivoluzione francese avrebbe voluto realizzare nel macro e che in realtà non furono mai portati a compimento, perché realizzati solo in minima parte; certamente molto poco (o per niente) per quanto riguarda la dimensione della fraternità.
E’, quindi, in qualche modo, la prefigurazione micro di una società “altra” rispetto a quella macro nella quale pure è inserita.
Una realtà micro, fondata sui principi-ideali della libertà individuale, della laicità, del pluralismo, della tolleranza, della democrazia, dell’uguaglianza, della solidarietà umana, della fraternità, che aspira (perché no?) a diventare macro.
Ma senza coltivare alcun fanatismo, senza teorizzare alcuna prevaricazione e, soprattutto, senza praticare nessuna forma di violenza, ma utilizzando esclusivamente gli strumenti e le vie della democrazia formale e sostanziale.
© Giovanni Lamagna
Gli uomini si dividono in due categorie: quelli ordinari e quelli straordinari.
Più o meno a metà del suo grande romanzo “Delitto e castigo”, Dostoevskij fa dire al protagonista del suo racconto, Raskol’nikov, le seguenti parole che riporto integralmente:
“… gli uomini, per una legge della natura, si dividono sempre in due categorie: in quella inferiore (gli uomini ordinari), ovvero per così dire il materiale, che serve per riprodurre solo suoi simili, e gli uomini veri e propri, ovvero quelli che hanno il dono o il talento di dire al proprio mondo una parola nuova. E’ chiaro che vi possono essere infinite suddivisioni, ma ognuna di queste categorie ha dei tratti suoi piuttosto definiti: la prima categoria, ovvero per dirla in modo generico il materiale, è fatta di persone per loro natura conservatrici, rispettose, che vivono in obbedienza e amano essere obbedienti. E, secondo me, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questa è la loro funzione e in questo non vi è nulla di umiliante. Nella seconda categoria tutti violano la legge, sono dei distruttori, o comunque sono portati ad esserlo, a giudicare dalle loro capacità. I delitti di queste persone, naturalmente, sono relativi e svariati: la maggior parte richiede, con varie formulazioni, la distruzione del presente in nome di un futuro migliore. Ma se qualcuno di loro, per realizzare la sua idea, ha bisogno di passare sul corpo di qualcuno, di versare del sangue, be’, secondo me egli dentro di sé in coscienza ha diritto a decidere di versare quel sangue, ma questo, notate bene, a seconda anche dell’idea e della sua importanza. E solo in questo senso… io parlo del loro diritto al crimine… E comunque, non c’è da allarmarsi: la massa di gente non gli riconosce mai questo diritto, li giustizia e li impicca (più o meno) e lo fa con buone ragioni, compiendo in questo modo la propria funzione conservatrice, anche se poi nella generazione successiva questa stessa massa si inchinerà a coloro che erano stati giustiziati e innalza loro monumenti (più o meno). Alla prima categoria appartiene il signore del presente, alla seconda il signore del futuro. I primi conservano il mondo e lo accrescono numericamente, i secondi muovono il mondo e lo guidano alla meta. Sia gli uni che gli altri hanno lo stesso diritto a esistere. Insomma, hanno tutti pari diritto…
Di uomini con idee veramente nuove, o anche solo capaci di dire qualcosa di nuovo, ne nascono estremamente pochi, è persino strano quanto siano pochi. Ma è chiara una cosa, che l’ordine in cui nascono le persone di tutte queste categorie e sottocategorie deve dipendere in modo esatto e preciso da una legge di natura. Ovviamente questa legge ancora non la conosciamo, ma io credo davvero che esista e forse in futuro riusciremo a scoprirla. L’enorme massa degli uomini, il materiale, esiste solo per riuscire ad arrivare alla fine mediante un certo sforzo, mediante un processo che è tuttora misterioso, attraverso un incrocio di specie e di razze, a generare una persona, sia pure una su mille, dotata di un po’ di spirito d’indipendenza. E di persone con un grado ancora maggiore d’indipendenza, una su centomila. Ma di uomini geniali ne nascono solo uno su milioni, e di grandi geni, di figure che hanno portato a un perfezionamento dell’umanità, be’, ne potrà nascere uno solo dopo che siano passate sulla faccia della terra migliaia di milioni di persone. Insomma, ovviamente non ho guardato nell’ampolla da cui tutto ha origine, ma certamente alla base di tutto ciò c’è e ci deve essere senz’altro una legge della natura, non può essere frutto del caso.”
Trovo questa pagina di Dostoevsky di una densità e profondità fenomenali. Potrà piacere o meno, qualcuno la potrà trovare addirittura ributtante, ma a mio avviso non si può negare che essa descriva la realtà del mondo così com’è e che in ogni caso riveli una straordinaria conoscenza dell’animo umano.
Ritrovo in essa tracce del pensiero di Schopenhauer e di Darwin, forse persino di Malthus; e anticipazioni di quello di Nietzsche.
Ora vorrei provare a darne una mia personale lettura.
Condivido in buona sostanza l’idea che gli uomini si dividano (almeno così si sono suddivisi nel corso della storia che abbiamo conosciuto finora) in due categorie: quelli “ordinari”, che hanno esclusivamente (o quasi: a voler essere un po’ meno radicali) il compito di assicurare la riproduzione e quindi la continuità della specie; e quelli “straordinari”, capaci di dire al “mondo una parola nuova”.
I primi sono sostanzialmente dei conservatori, dei conformisti: il loro compito primario, se non proprio esclusivo, è quello di garantire la stabilità sociale.
I secondi sono degli innovatori. A voler usare due termini della politica contemporanea potremmo dire che sono dei riformisti (nella loro versione più moderata) o dei rivoluzionari (nella loro versione più radicale). Ma in entrambi i casi sono degli uomini che non si accontentano del presente, bensì aspirano a “un futuro migliore”.
Ora questa distinzione potrà piacerci o meno: a me personalmente non piace; preferirei un mondo e un’umanità diversi. Ma è difficile contestare che essa corrisponda alla realtà. Io, perlomeno, non riesco a contestarlo.
Dostoevskij fa dire a Raskol’nikov che i secondi, gli innovatori, essendo degli uomini speciali, hanno diritto a compiere azioni criminose, a passare sul corpo degli altri e a versare il loro sangue, per affermare la loro idea di cambiamento.
E su questo, invece, non mi trovo d’accordo. Perché penso 1) che il cambiamento (anche quando è necessario, anche quando non è più rinviabile) debba avvenire auspicabilmente senza versamento di sangue e 2) che nessuno abbia diritto a spargere il sangue degli altri per affermare il cambiamento desiderato.
Inoltre ritengo 1) che gli uomini “straordinari” non debbano approfittare in nessun modo dei talenti, che ha loro fornito la natura, per sottoporre gli altri uomini e tenerli in uno stato di inferiorità, come se questa fosse una condizione immodificabile e 2) che sia compito imprescindibile degli uomini “straordinari” quello di elevare il più possibile gli uomini “ordinari” al loro stesso livello.
La mia è, insomma, una concezione evolutiva (fiduciosamente progressista) e non statica (per non dire del tutto reazionaria), come (forse) era quella di Dostoevski.
E, tuttavia, mi è impossibile non riconoscere e prendere atto che la Storia (almeno fino ad ora) ha funzionato come Dostoevski fa dire a Raskol’nikov.
Allo stesso modo mi è impossibile non riconoscere come vere le successive affermazioni di Raskol’nikov. Che cioè la maggior parte dei profeti del cambiamento (a prescindere da fatto che siano stati sanguinari o meno; molti profeti non lo sono stati; Gesù, ad esempio, non lo era) siano stati osteggiati, perseguitati e in molti casi giustiziati mentre erano in vita. Per poi essere (in parecchi casi) riabilitati solo dopo la loro morte.
E che, se il mondo si muove, se il mondo avanza e fa dei progressi, lo deve esclusivamente ai “signori del futuro” (il più delle volte osteggiati in vita e spesso condannati a morte), non certo ai “signori del presente” (che muoiono quasi tutti nel loro letto).
“Di uomini che nascono con idee veramente nuove… ne nascono estremamente pochi” – dice ancora Dostoevskij (attraverso Raskol’nikov) – è persino strano quanto siano pochi.”
Secondo il grande scrittore russo ciò deve dipendere addirittura “da una legge di natura.” “Ovviamente questa legge ancora non la conosciamo, ma – egli dice – io credo davvero che esista e forse in futuro riusciremo a scoprirla.”
E chi può eccepire una tale affermazione?
Impressionante, infine, la graduatoria che Dostoevskij fa della gamma degli uomini straordinari con le sue varie sfumature:
1) quelli che hanno “un po’ di spirito d’indipendenza”: ne nasce uno su mille;
2) quelli che hanno “un grado ancora maggiore d’indipendenza”: ne nasce uno su centomila;
3) gli uomini geniali: ne nasce solo uno su milioni;
4) i grandi geni, “figure che hanno portato a un perfezionamento dell’umanità”: ne potrà nascere uno solo tra migliaia di milioni di persone.
Ora potrete accusare Dostoevskij di darwinismo, perfino di malthusianesimo, di coltivare un pessimismo vagamente schopenhaueriano, di aver anticipato alcune idee nietzschiane sul Superuomo.
Ma non sarà facile smontare l’impianto fondamentale del suo ragionamento, che a me sembra del tutto condivisibile, perché pienamente corrispondente alla realtà, che ci piaccia o no, così come ci viene descritta dalla antropologia, dalla psicologia, dalla sociologia e dalla storia.
Giovanni Lamagna
Il serpente, Dio, la donna, la conoscenza del bene e del male. (Genesi 3, 1 – 3, 6)
27 settembre 2015
Il serpente, Dio, la donna, la conoscenza del bene e del male. (Genesi 3, 1 – 3, 6)
3, 1 Il serpente era il più astuto di tutti gli animali dei campi che Dio il SIGNORE aveva fatti. Esso disse alla donna: «Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?»
3, 2 La donna rispose al serpente: «Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare;
3, 3 ma del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete”».
3, 4 Il serpente disse alla donna: «No, non morirete affatto;
3, 5 ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male».
3, 6 La donna osservò che l’albero era buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile per acquistare conoscenza; prese del frutto, ne mangiò e ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò.
Il serpente si pone qui come l’opposto di Dio. E’ la sua Ombra. Dio sta in alto ed è puro spirito. Il serpente è l’animale che sta più in basso di tutti, attaccato alla terra, addirittura vi striscia.
Dio è autoritario, impone, comanda. Il serpente è subdolo, tenta, induce alla trasgressione.
Questa è la vita! Legge, ordine e voglia di trasgredire (da “trans – ire”: andare oltre) la legge, di rompere l’ordine. Per poi tornare alla legge, ricostituire l’ordine infranto. Ma su basi e in forme diverse.
Nella trasgressione si perdono delle cose, ma se ne acquistano altre. L’obbedienza intransigente, dura, inflessibile alla legge è staticità, fissità, morte. Occorre, dunque, disobbedire (talvolta, in certe circostanze) se si vuole restare vivi.
L’obbedienza – avrebbe detto don Milani – non è sempre una virtù. Anzi, almeno in talune circostanze, è sinonimo di vigliaccheria e tradimento del proprio profondo sentire e volere.
Allo stesso tempo però è essenziale il rapporto con la legge, dopo aver trasgredito bisogna ricostituire un nuovo ordine, , se non ci si vuole perdere in un godimento senza limiti, (apparentemente) infinito, (in realtà) mortifero.
La donna è qui l’immagine stessa della trasgressione: è la prima, infatti, a cedere al serpente; o ad avere il coraggio di disobbedire a Dio. Dipende dall’ottica in cui ci mettiamo e con cui vogliamo vedere le cose.
La donna trova che l’albero non solo era buono per nutrirsi, ma era anche bello da vedere e desiderabile per conoscere il vero. Buono, bello e vero sono (da che mondo è mondo) le parole che indicano le massime aspirazioni dell’umanità.
L’uomo e la donna (non ha importanza chi ne mangia per primo: ognuno è responsabile in prima persona delle sue azioni) non potevano non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, solo per obbedire a Dio. Se non lo avessero fatto, non sarebbero mai diventati pienamente umani.
(6, continua)
Giovanni Lamagna