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Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere?

Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere? Tutti, chi più e chi meno, poveri e ricchi, sani e malati, belli e brutti, intelligenti e stupidi.

Nonostante che numerosi e illustri filosofi, soprattutto in questi ultimi due secoli, ci abbiano indotto a pensare che la vita è solo dolore e noia, sofferenze e malanni, un triste capriccio della natura.

Forse la risposta sta nel fatto – per quanto banale esso possa sembrare – che non è per niente vero quello che illustri filosofi hanno sostenuto; penso, per fare solo tre esempi, a Leopardi, a Schopenhauer e a Cioran.

Forse la vita non è solo dolore e noia, dispiaceri e sventure, come tanti filosofi – soprattutto moderni e, ancor più, contemporanei – si sono convinti a credere e hanno provato a convincerci.

La vita è anche gioie e piaceri, è anche avventure e scoperte.

Anzi forse, nonostante tutto, i secondi, per ognuno di noi, prevalgono sui primi.

Ne possiamo concludere che, quindi, la vita – checché ne pensino i Leopardi, gli Schopenahuer e i Cioran – vale la pena di essere vissuta, nonostante si concluda con la morte, che – non a caso – la maggior parte di noi si augura arrivi il più tardi possibile.

D’altra parte quegli stessi pensatori hanno confermato tale verità coi fatti, in contraddizione con le parole da loro dette e scritte.

Infatti, se pensavano veramente e fino in fondo le cose che affermavano sulla vita, perché hanno preferito tenersela cara, fino alla morte naturale, e non togliersela anticipandone la fine; come pure, se fossero stati coerenti con le loro teorie, avrebbero potuto fare?

© Giovanni Lamagna

L’uomo è destinato ad essere irrimediabilmente infelice?

Il secondo mito filosofico che a mio avviso va sfatato è quello della radicale infelicità umana. Il filosofo in qualche modo emblema di questo mito è Schopenhauer.

Il quale, pur avendo raccolto parecchi appunti per dar vita, prima o poi (era questa la sua intenzione), a un piccolo manuale di eudemonologia – ovverossia l’arte della felicità – (progetto rimasto poi solo a livello di abbozzo), aveva della vita una visione radicalmente pessimistica, essendo per lui “la felicità e i piaceri… soltanto chimere che un’illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano immediatamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa”.

Per cui “vivere felici può significare solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente”.

Anche qui, come per la prima dicotomia (quella buono/cattivo), io tendo a rifiutare la rigida contrapposizione tra due polarità inconciliabili, tra il concetto di felicità e quello di infelicità, in base alla quale per alcuni (pochi in verità) l’uomo sarebbe un animale fondamentalmente felice, per altri (i più, almeno tra i filosofi) condannato ad una fondamentale infelicità.

La mia esperienza mi porta a dire che l’uomo è felice ed infelice allo stesso tempo. E’ felice (almeno nella maggior parte dei casi, a meno di non essere nato in condizioni particolarmente sfortunate) per il solo e semplice fatto di essere venuto al mondo e di vivere.

Tanto è vero che in lui è fortissimo un istinto, padre di tutti gli altri istinti, che lo porta a voler vivere e non certo a morire. I casi in cui prevale il desiderio di morire e di togliersi la vita sono eccezioni a questa regola, non certo la norma.

L’uomo è felice, nel senso che ha quantomeno esperito momenti di felicità nella sua vita. Altrimenti non saprebbe neanche cosa sono l’infelicità e il dolore, che per me altro non sono che assenza di felicità (appunto) e assenza di piacere, di gioia.

Questo cosa vuol dire allora? Che l’uomo è un animale essenzialmente felice? Niente affatto! Non lo penso per niente!

La condizione umana, quella che vivono tutti gli uomini, chi più e chi meno, chi prima o chi dopo, incontra inevitabilmente il dolore sul suo tragitto.

E soprattutto è destinata a finire con la morte, che è la fine di tutto, quindi anche di quel poco o molto di felicità, di cui siamo riusciti a godere durante la vita.

E questo pensiero incombe minaccioso su tutta l’esistenza di noi umani, generando un’ombra che rabbuia anche i momenti e le vite più felici.

In conclusione, anche rispetto alla dicotomia felicità/infelicità, io sarei portato a dire che la condizione umana è un impasto singolare di felicità e infelicità.

L’uomo non è né radicalmente felice (cosa, invero, un po’ difficile da sostenere) né radicalmente infelice.

E’ a volte felice, a volte infelice. In nessun caso è felice sempre o infelice sempre.

Anche Leopardi, che non può certo essere definito un uomo felice, che nei suoi accenti rispetto alla vita ricorda molto quelli di Schopenhauer, in certi momenti ha assaporato la gioia, se non proprio la felicità.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere versi come questi:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare

Cos’è questo naufragare del pensiero nel mare dell’infinito, dell’immenso, se non una profonda, intima esperienza, quand’anche solo momentanea e breve, di felicità?

(3, continua)

Giovanni Lamagna