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Figlio/a di zoccola!

A Napoli si usa appellare spesso qualcuno o qualcuna con l’espressione “sei un figlio (o una figlia) di zoccola!”.

A volte con un’intenzione chiaramente offensiva e dispregiativa.

Più spesso col tono affettuoso di chi sta a fare addirittura un complimento.

Perché dico questo?

Per evidenziare che (anche) nella cultura popolare il termine “zoccola” ha una valenza quantomeno ambivalente.

Può significare una persona del tutto negativa: volgare, rozza, moralmente inaffidabile, una persona che si prostituisce.

Ma può anche significare (e più spesso significa) una persona in gamba, una persona con i giusti attributi (e qui non mi riferisco solo a quelli sessuali, anche se pure a quelli), una persona che sa quello che vuole e sa farsi valere; in svariati campi.

© Giovanni Lamagna

Sesso e psiche.

Le difficoltà, che incontriamo quando facciamo sesso, hanno più spesso una ragione e spiegazione psichica che una ragione e spiegazione fisica.

Questa è la dimostrazione inconfutabile che l’atto sessuale – almeno per noi esseri umani – ha una natura e valenza psichica ancor più che fisica.

© Giovanni Lamagna

Piaceri e felicità, dolori e infelicità

Nella massima n. 17 de “L’arte di essere felici” (Adelphi; 2017) Arthur Schopenhauer manifesta con la massima chiarezza il suo profondo pessimismo sulla vita e sul destino dell’uomo: “Dato che ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo, mentre il dolore è di genere positivo, la vita non ci è data per essere goduta, ma per essere sopportata… Chi trascorre la vita senza dolori fisici o psichici eccessivi ha avuto la sorte più fortunata possibile… Chi vuole misurare la felicità di una vita intera in base alle gioie e i piaceri assume un criterio completamente sbagliato…”.

Cosa pensare di simili affermazioni? Dico – a voler restare freddi e distaccati – che esse sono espressione di una posizione quantomeno soggettiva, molto collegata alla propria personale vicenda esistenziale e che non possono quindi essere universalizzate. Farlo è un’operazione quantomeno indebita.

Tutto il ragionamento si fonda su due affermazioni molto opinabili:

1) ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo; ciò significa che felicità e piacere consistono in null’altro che nella momentanea assenza dei dolori, sono esperienze di assenze e non di presenze, di vuoti e non di pieni;

2) il dolore è di genere positivo; ciò vuol dire che il dolore è ben avvertibile, è ben più pesante della felicità e dei piaceri, in quanto esso non sta nella semplice assenza dei piaceri, ma ha una consistenza in sé, è una presenza e non un’assenza, un pieno e non un vuoto.

Io credo che tali affermazioni abbiano un valore del tutto soggettivo, dal momento che possono essere (quasi) pari, pari rovesciate: la felicità e i piaceri, infatti, hanno per me una valenza positiva; mentre l’infelicità e i dispiaceri ne hanno a volte una semplicemente negativa, altre volte una anch’essa “positiva”.

La felicità e i piaceri per me non consistono affatto nella semplice assenza dei dolori, ma in sensazioni, emozioni, sentimenti, stati dell’animo ben precisi e identificabili.

Quando, infatti, faccio una bella mangiata, non semplicemente per lenire la fame ma soprattutto per soddisfare il gusto del mangiare, quando mi trovo di fronte ad un bellissimo panorama o quando ascolto una bella musica o quando mi innamoro di una donna (per fare cenno solo ad alcuni dei piaceri e delle gioie possibili per un uomo), io – con tutta evidenza – non sto sperimentando semplicemente un’assenza (un vuoto) di dolori e infelicità, non sto facendo quindi un’esperienza “negativa”, ma sto sperimentando una presenza (un pieno) di piaceri e di gioia, sto facendo quindi un’esperienza positiva e non negativa.

Piuttosto è il dolore, gran parte del dolore che sperimentiamo nella vita, a presentarsi nella forma dell’esperienza negativa.

Che cos’è, infatti, la massima parte del dolore che sperimentiamo nella vita se non un’assenza di felicità e di piaceri? I dolori più diffusi e prevalenti nella vita non sono forse la nausea, la noia e la depressione?

Che non corrispondono affatto a un dolore ben preciso ed esattamente identificabile, “localizzabile”, quanto piuttosto ad un’assenza di gioie e piaceri.

Poi, certo, c’è anche il dolore che ha una sua consistenza piena e precisamente identificabile, che va dal semplice e banale mal di denti, che non ci fa dormire la notte, alle sofferenze estreme dell’agonia che precede la morte.

Ma questo è il dolore eccezionale, che ci colpisce di tanto in tanto e in maniera più o meno prolungata o una sola volta nella fase finale della nostra vita, piuttosto che la condizione normale della nostra esistenza.

Che, per concludere, a mio avviso, tranne casi eccezionali e particolarmente sfortunati, non vede affatto la prevalenza dell’infelicità e dei dispiaceri, quanto un alternarsi di infelicità e dispiaceri e di felicità e piaceri o, tutt’al più, la calma piatta della noia, figlia dell’assenza o della non vistosa presenza sia dei primi che dei secondi.

© Giovanni Lamagna