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Innamorarsi da anziani o da vecchi.
Ci si può innamorare a 15, a 30, a 45, a 60 e persino a 75 anni: non c’è niente di sconveniente in questo.
Ma si diventa ridicoli, patetici, se si pretende di vivere l’amore a 75 anni allo stesso modo e nelle stesse forme con cui lo si viveva a 15 o a 30 o a 45 o a 60 anni.
© Giovanni Lamagna
Due modi diversi di porsi di fronte ad un testo.
Vengo sollecitato a tale riflessione dal commento di una persona, che, dopo aver letto un mio testo (del 14 aprile 2019) nel quale riportavo un passaggio del Vangelo di Matteo (ricavato dall’edizione della C.E.I.), mi rimproverava di non tener conto che dei Vangeli ci sono molte versioni, tra l’altro molto discordanti tra di loro.
Stimolato da questa critica, mi sono chiesto: come ci si può porre di fronte ad un testo, di qualsiasi natura esso sia (letterario, storico, filosofico, scientifico, religioso…)?
A mio avviso gli atteggiamenti possono essere fondamentalmente due:
- il primo è quello del semplice fruitore del testo, di colui cioè che si pone di fronte al testo senza nessuna intenzione o pretesa scientifica, ma al più con un’intenzione di carattere etico od estetico; o, persino, utilitaristico;
- il secondo è quello di chi si pone di fronte al testo con l’atteggiamento scientifico, di chi vuole analizzarne le fonti, il contesto storico, le intenzioni dell’autore, la lingua (dall’uso delle parole alla sintassi)…
Il primo è l’atteggiamento di colui che di fronte ad un testo interroga soprattutto se stesso. E si chiede: cosa ha da dirmi questo testo? in che misura esso mi coinvolge? cosa mi chiede, in termini di comportamenti e di scelte?
Da questo punto di vista il testo è piuttosto un pre-testo; è cioè l’occasione, lo spunto per una riflessione o anche per una semplice reazione emotivo-affettiva, di cui il soggetto fruitore del testo evidentemente avvertiva il bisogno o il desiderio.
Il secondo è l’atteggiamento dello studioso che di fronte al testo si pone in maniera fredda, distaccata, e cerca di analizzarlo nella maniera il più possibile oggettiva, prescindendo cioè dal suo coinvolgimento estetico o morale.
Cerca di vedere cioè il testo in sé, come un oggetto di studio, da tecnico (filologo, storico, critico letterario, archeologo…), senza (necessariamente) farsene coinvolgere in maniera diretta, esistenziale, come persona.
Si tratta di due atteggiamenti, come abbiamo potuto vedere, profondamente diversi.
La cui distinzione mi serve a dire che il secondo atteggiamento non può avere la pretesa, saccente ed arrogante, di soppiantare del tutto il primo e di condannarlo all’irrilevanza, se non addirittura al disprezzo e al ridicolo.
Altrimenti dovremmo concludere che io non posso leggere un testo letterario o religioso o filosofico, se non sono un cultore della materia, ovverossia un critico letterario, un teologo o un filosofo di professione.
A questo punto avremmo le librerie e le biblioteche chiuse, le chiese e i templi senza fedeli, le conferenze dei filosofi deserte.
In maniera ancora più banale e per usare una metafora, potremmo arrivare a dire che nessuno dovrebbe poter innamorarsi o anche solo diventare amico/a di un’altra persona, senza aver prima fatto uno studio approfondito, diciamo pure “scientifico” (anagrafico, familiare, psicologico, sociologico, genetico, storico-biografico…), su questa persona.
Appare a tutti subito evidente il carattere ridicolo di una simile pretesa.
A mio avviso le due possibili interpretazioni di un testo, di cui ho parlato sopra, sono entrambe legittime, a condizione di tenerle ben distinte e che l’una non voglia invadere il campo dell’altra.
Certo, io non posso ambire a dare un’interpretazione da studioso del testo senza averne gli strumenti tecnico-scientifici adeguati. Devo sapere che, senza questi strumenti, la mia interpretazione si fermerà al livello emotivo-affettivo o etico-esistenziale. Che non mi pare poco, però.
Ma, allo stesso tempo, il tecnico, studioso e cultore della materia, deve essere pure lui ben consapevole che anche la sua è un’interpretazione parziale del testo, fin quando da esso non se ne farà coinvolgere anche in maniera emotivo-affettiva e, in certi casi, perfino etico-esistenziale.
© Giovanni Lamagna
Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.
Dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli.
“La femmina nuda”, l’ultimo romanzo di Elena Stancanelli, è il racconto di una grande, profonda, prolungata ossessione.
L’ossessione di una donna, di nome Anna, abbandonata dal suo uomo, Davide, dopo cinque anni di un amore vissuto tra alti e bassi.
Ossessione che si manifesta nell’incapacità di Anna di farsene una ragione, nella perdita di ogni motivazione significativa a vivere, nella forma di anoressia che la porta in breve tempo a perdere chili su chili di peso, ma soprattutto nel rancore profondo, acuto, acido, malato, verso colei, Cane, che Anna (come – quasi – tutti gli innamorati abbandonati) ritiene la causa (unica) della fine del suo amore. Cane è, infatti, la nuova donna del “suo” Davide.
Dal momento in cui Anna scopre l’esistenza di Cane inizia la ricerca ossessiva di questa donna. Prima virtuale, attraverso i telefonini, le pagine facebook e le email. Poi reale, con appostamenti (giornalieri e notturni), pedinamenti e, infine, incontri veri e propri, provocati a insaputa della “vittima” e del nuovo amante di lei, Davide.
Il romanzo si conclude con una scena madre finale, in cui si scatena, esplode tutto l’odio viscerale e accumulato nel tempo della protagonista nei confronti della sua inconsapevole rivale. In questo modo Anna finalmente si libera dall’ossessione che si è impossessata di lei per svariati mesi.
Non si capisce bene però dalle parole finali della protagonista (che per tutto il romanzo – sia detto per inciso – racconta le sue storie alla sua amica più intima), come si conclude questa vicenda emotiva.
Anna si libera, certamente e finalmente, dalla ossessione in cui era precipitata. Ma sembra cadere (almeno questo io ho capito) in una specie di cinismo e di disincanto nei confronti di tutti i rapporti.
A parole scrive: “Adesso mi piacciono tutti… Ho una grande pietà e rispetto per i corpi… tutti i corpi, compreso il mio, mi ispirano una grande tenerezza.”
In realtà l’impressione (ma neanche solo l’impressione) è che lei non sia più disposta ad innamorarsi e ad amare più veramente qualcuno.
Fa l’amore un po’ con tutti, senza andare troppo per il sottile, belli e brutti(ni), uomini e donne. Ma di “innamoramenti e amori” non vuole occuparsi più.
Il racconto quindi si conclude in maniera alquanto amara e triste, come del resto triste, pesante, era stato il tono complessivo e prevalente di tutta la vicenda narrata.
Non è un bel romanzo questo ultimo della Stancanelli. E’ scritto, sì, abbastanza bene, si legge in scioltezza. Ma non se ne coglie la “necessità interiore”.
Colpisce abbastanza il linguaggio disinibito, crudo, perfino sboccato, con cui l’autrice descrive parti anatomiche, organi e desideri sessuali maschili e femminili, come se volesse dimostrare che lei ha superato (pur essendo una donna) le inibizioni classiche. Ma questo francamente non risulta più essere una grande novità di questi tempi. Molte scrittrici e da tempo l’hanno preceduta in una simile performance.
La storia inoltre non ha una sua vera originalità. Ricalca lo stereotipo delle dipendenze affettive classiche, tipiche, soprattutto femminili, Con in più un qualcosa che la rende poco credibile.
Anna si capisce è una professionista piuttosto affermata, abbastanza colta e piuttosto benestante.
Davide, l’uomo di cui lei è invaghita, è un meccanico di auto, viene da immaginare piuttosto rozzo e volgare, di quelli muscolosi e dongiovanni, che ci provano con tutte, pronti e desiderosi solo di scopate rapide e senza coinvolgimenti emotivi, con i manifesti delle donnine di Playboy attaccati alle pareti dell’officina.
Viene da chiedersi: può una donna come Anna perdere la testa, fino alla dipendenza e all’ossessione, per un uomo simile?
Se, infine, la storia ha voluto descrivere la tristezza e lo squallore di un certo mondo romano, frequentatore di locali, dove si beve champagne a fiumi e si sniffa cocaina in gran quantità, dove si rimorchia e si scopa solo per esorcizzare la noia, ci è riuscita abbastanza bene.
L’esito finale per il lettore è, però, un certo disgusto, simile proprio a quello che deve aver provato Cane nelle pagine finali, quando si vomita continuamente addosso, ubriaca e strafatta.
Giovanni Lamagna