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Cosa ci insegna la pandemia in corso

A me sembra che, al netto delle tantissime discussioni politiche e scientifiche che ci sono state in questi lunghi mesi, stringi, stringi la pandemia in corso voglia insegnare, a noi uomini di questo tempo confuso, incerto, caotico, due cose principali, essenziali:

1) stavamo correndo troppo, a ritmi che non erano e non sono consoni alla nostra natura, a ritmi che ci destabilizzano, ci nevrotizzano, sconvolgono i nostri equilibri mentali, affettivi, emozionali, perfino fisici; di qui l’invito, anzi il comando, l’imposizione, che ci vengono dalla crisi in corso: dovete rallentare; e per rallentare dovete fermarvi, anzi – in alcuni casi – chiudere proprio bottega, almeno per un po’;

2) presi dal senso di onnipotenza, che ci ha dato l’enorme progresso scientifico e tecnologico di questi ultimi due secoli, abbiamo come rimosso la consapevolezza della morte, abbiamo illusoriamente cancellato (quasi) ogni rapporto con essa, abbiamo smarrito quindi il senso della nostra finitudine e con questo il senso stesso della nostra vita, che – come dice Massimo Recalcati – è “contingenza illimitata”.

Sapremo cogliere questi due insegnamenti? La mia impressione al momento è che faremo di tutto per non apprenderli neanche questa volta, come ha dimostrato la sbornia estiva, dalla quale un po’ tutti, chi più e chi meno, ci siamo lasciati prendere e dalla quale solo ora ci stiamo – anche se angosciosamente – risvegliando.

E però ho la vaga impressione (non escludo sbagliata) che questa volta la Realtà sarà un po’ più dura della nostra “capa tosta”, cioè della nostra incapacità o non volontà di capire, che ci costringerà a sbattere più e più volte contro un muro che non vogliamo ancora vedere, che ci imporrà di cambiare le nostre abitudini al di là delle nostre buone o cattive intenzioni, delle nostre maggiori o minori consapevolezze.

E che, alla fine, dopo aver fatto moltissime e tenacissime resistenze, dovremo fare buon viso a cattivo gioco e “convertirci”, nostro malgrado, a un nuovo modo di vivere. E non perché saremo diventati più buoni. Ma semplicemente perché la Realtà non ci concederà più alternative, non ci offrirà più scappatoie; come invece, bene o male, ha fatto finora.

© Giovanni Lamagna

La consapevolezza della morte.

La consapevolezza della morte.

Essere consapevoli della realtà della morte non equivale a “sapere” semplicemente, cioè intellettualmente, che la morte esiste.

Il concetto di morte è un prerequisito ovvio di questa consapevolezza, ma questa non si riduce a quello.

Se io so (intellettualmente) che la morte esiste, che prima o poi verrà a prendere anche me, ma poi questo sapere non influenza in nulla di significativo il corso della mia vita, allora l’idea della morte non è per me vera consapevolezza della morte.

E’ un concetto come un altro. Come quello di quadrato. Come quello di “due più due fanno quattro”. Ma non è un concetto che ha una ricaduta esistenziale nella mia vita.

Il concetto di morte diventa per me vera, reale consapevolezza della morte quando si traduce in senso vissuto della mia finitudine, del mio essere limitato e mortale, non assoluto e non eterno.

Quando genera una sorta di disincanto rispetto ai miei piccoli (o grandi) deliri di onnipotenza, rispetto al possesso delle cose (che, prima o poi, dovrò lasciare), rispetto agli attaccamenti alle persone (che pure, prima o poi, dovrò lasciare o loro lasceranno me).

Quando si trasforma cioè in scelte, comportamenti, stili di vita coerenti con questa consapevolezza.

Quando, in buona sostanza, il desiderio, pur vivo, non è un’ossessione, non è cioè dipendenza dagli oggetti del desiderio.

Altresì la consapevolezza della morte non equivale affatto ad essere dominati dalla cupa angoscia e dal terrore paralizzanti della morte.

Manco la morte è, infatti, un assoluto.

Farsi dominare dall’angoscia e dal terrore del suo incombere equivale, invece, a farne un assoluto. Come se la vita, la vita presente, quella nella quale pure siamo immersi, fosse un nulla, solo pura illusione.

La vita, invece, è una realtà come lo è la morte. Affermare l’una e negare l’altra (o viceversa) è una distorsione ottica e logica.

Bisogna dunque vivere la vita con il senso del limite, che ci deriva dalla consapevolezza dell’esistenza della morte.

Ma, allo stesso tempo, non bisogna diventare mortiferi, anticipare in sé la morte, vivere da morti, come se la vita non avesse altrettanta realtà della morte.

Dobbiamo insomma impedire che la morte ci prenda (e domini la nostra vita psichica) ben prima del giorno che il destino le consegni la nostra vita fisica.

Avere consapevolezza della morte non equivale perciò a morire psichicamente prima di morire fisicamente.

Perché anzi la vera e sana consapevolezza della morte acuisce il desiderio di vivere, nel senso che ci dà maggiormente il senso del tempo che passa e quindi del suo valore, della necessità di non sprecarlo, ma di utilizzarlo bene.

La vera e sana consapevolezza della morte aiuta, può aiutare a vivere.

Vivere con l’incubo della morte, farsi dominare mentalmente dalla sua idea, invece, ci uccide psicologicamente e può addirittura anticipare i tempi della nostra morte fisica.

Giovanni Lamagna