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Desiderio e responsabilità.

La coscienza si muove (o dovrebbe muoversi) sempre al confine tra desiderio e responsabilità.

Se non abita questo confine semplicemente non è o non è ancora: è in-coscienza.

Il desiderio è, per sua natura, un’istanza potenzialmente illimitata.

Nasce nell’infanzia, anzi già al momento della nascita, all’insegna del “voglio tutto, subito e sempre”.

Quindi all’insegna dell’egocentrismo, del narcisismo, del sogno allucinatorio di onnipotenza.

Ovviamente ben presto e sempre di più, anche se gradualmente, questo tipo di desiderio (oggettivamente delirante, giustificato solo dall’età) deve confrontarsi con la realtà.

Innanzitutto con la realtà della natura, che gli pone (anzi impone) dei limiti: io vorrei volare, ma non posso farlo, perché la natura non mi ha dotato di ali come agli uccelli.

Ma anche con la realtà del desiderio degli altri, che quasi mai coincide col mio e talvolta (o spesso) addirittura confligge col mio.

Di qui il senso di responsabilità.

Che (attenzione!) non è, non deve essere, rinuncia totale, sic et simpliciter, al mio desiderio.

Anzi, la prima forma di responsabilità (proprio nel senso letterale del termine, che deriva dal verbo latino “respondere”) è quella di cor-rispondere al proprio desiderio.

Lacan diceva, non a caso, che “il peccato più grande è quello di cedere sul proprio desiderio”.

Ma il mio desiderio va realizzato compatibilmente con i limiti che mi impone la Realtà – la natura delle cose – e che mi pone il desiderio dell’Altro.

E, siccome non posso aggirare, evadere, la realtà e non posso fregarmene del desiderio dell’altro (perché una delle componenti principali del desiderio è proprio quella di incontrare il desiderio altrui) ecco che desiderio e responsabilità devono viaggiare di pari passo; l’uno non può fare a meno dell’altro.

Se il desiderio vuole trovare una risposta, una soddisfazione vera, buona e giusta, che fa crescere la vita, e non sfociare in un “godimento mortifero” (come lo definiva Lacan), che invece ammazza la vita.

© Giovanni Lamagna

L’uomo (o la donna) della propria vita.

Chi cerca, in maniera ossessiva e con troppa ansia, l’uomo o la donna della sua vita (l’uomo giusto o la donna giusta) molto probabilmente non lo/a incontrerà mai; e si ritroverà a lamentarsi di continuo della sua solitudine.

Chi, invece, ci rinuncia e si rilassa, prendendosi dalla vita il meglio che questa comunque è in grado di offrirgli/le, momento per momento, quasi sicuramente lo troverà subito, magari appena gira l’angolo.

Anzi, forse, (addirittura!) ne troverà più di uno/a.

© Giovanni Lamagna

Sacrificio e godimento.

Il sacrificio (quando è fine a sé stesso e non mira ad un obiettivo altro da sé) non rinuncia affatto al godimento.

Mira solo a un’altra forma del godimento.

Non al godimento del piacere, ma al godimento del suo opposto: del dispiacere e, persino, del dolore.

Equivale al masochismo.

© Giovanni Lamagna

Anoressia e castità.

La “scelta” anoressica mi ricorda la scelta per la castità.

In entrambi i casi si tratta di una scelta (di una rinuncia) drastica, radicale, totalitaria.

Cambia solo l’oggetto.

Nel primo caso l’oggetto a cui si rinuncia è il cibo.

Nel secondo è il sesso.

Le due scelte, a mio avviso, hanno molte analogie.

Entrambe – mi pare – vogliano affermare la presunzione dell’autonomia, dell’autosufficienza, dell’ “io basto a me stessa” da parte della persona che le fa.

Entrambe – mi pare – esprimano (o nascondano o sottintendano) un’idea (a volte un vero e proprio delirio) di onnipotenza.

© Giovanni Lamagna

Eros è figlio di Penia.

Disporsi ad amare qualcuno (nel senso erotico del termine) significa che si ha bisogno di questo qualcuno.

La nascita dell’amore, infatti, presuppone un vuoto, una mancanza, una carenza.

E, quindi, una debolezza.

In questo senso è molto vera l’intuizione di Roland Barthes, per il quale la condizione di amore (nel senso erotico del termine) rende anche il maschio un po’ femmina.

L’amore erotico potremmo allora dire è sempre femminile: è l’accettazione della propria mancanza, del proprio vuoto, della propria debolezza; la rinuncia da parte del maschio alla sua prestanza fallica.

Per questo il playboy – contrariamente a quanto appare – non è un buon amante.

E’ uno scopatore, un chiavatore, ma non un vero amante.

Il playboy, in realtà, non sa e, quindi, non può amare.

© Giovanni Lamagna

Vita monastica, vita spirituale, voto di castità e dimensione sessuale del vivere.

La vita monastica ha sempre avuto per me un fascino.

Non posso negare che in certi momenti mi ha attratto addirittura come una possibile scelta di vita.

Perché rappresenta una condizione particolarmente favorevole all’esercizio della vita spirituale.

Ma non poteva diventare la mia scelta di vita, perché essa presuppone il voto della castità.

Esige cioè la rinuncia ad una dimensione del vivere, quella sessuale, che per me, lungi dal rappresentare un ostacolo alla vita spirituale, può significare addirittura un mezzo, una via, di crescita, di elevazione spirituale.

© Giovanni Lamagna

Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna

Alcune semplici e brevi riflessioni sul concetto buddhista di “nirvana”.

Il concetto buddhista di “nirvana” non è esente da ambiguità e, quindi, da possibili fraintendimenti.

Infatti, può essere inteso (e da alcune scuole buddhiste viene inteso) come rinuncia totale a qualsiasi desiderio, in quanto nel desiderio risiederebbe la radice stessa della sofferenza umana.

Secondo questa interpretazione la rinuncia radicale e totale ai desideri metterebbe fine alle sofferenze.

Per cui, da questo punto di vista, la morte sarebbe la condizione che meglio realizzerebbe questa condizione nirvanica.

L’altro modo di intendere il “nirvana” è meno radicale ed estremo: non prevede la rinuncia totale al desiderio, ma solo il non attaccamento all’oggetto del desiderio.

Non dunque la rinuncia al desiderio in sé, inteso anzi come pulsione necessaria alla affermazione della vita, ma la rinuncia alle manifestazioni compulsive ed ossessive del desiderio, ai falsi bisogni, che non si riescono a padroneggiare, ma di cui si perde il controllo, fino, in certi casi, a diventarne schiavi.

Non la rinuncia pertanto al desiderio correttamente inteso, ma alla brama, alla bramosia, che sono degenerazioni del desiderio.

E’ questa l’interpretazione in genere prevalsa nel mondo occidentale tra coloro che hanno aderito al buddhismo o simpatizzato con esso, perché, con tutta evidenza, è quella che meglio si concilia (o perlomeno non vi si contrappone del tutto) con il modo di pensare e di vivere prevalente presso le nostre culture.

Anzi va pienamente d’accordo con le principali correnti ascetiche e mistiche della tradizione occidentale, coincide sostanzialmente con esse.

Io, però, non sono del tutto convinto che sia questa seconda l’interpretazione più esatta del pensiero di Buddha, il quale non a caso parlava di due tipi di nirvana: il “nirvana con residuo” e il “nirvana senza residuo”.

Il primo si ottiene appunto con il distacco emotivo e mentale dall’oggetto del desiderio; ma non può che essere parziale, in quanto libera dalle sofferenze della mente, ma non da quelle del corpo.

Il secondo si ottiene unicamente con la morte, la quale sola estingue, spegne ogni soffio vitale, realizzando quella condizione che è espressa dalla radice etimologica della parola (“nir”: non + “va”: soffio).

Per cui lo stato pieno del nirvana si raggiungerebbe solo con lo spegnimento totale della vita e non col semplice distacco dagli oggetti del desiderio, raggiunto attraverso una particolare ascesi della volontà e del pensiero.

© Giovanni Lamagna

Che cosa è e cosa dovrebbe e potrebbe essere un rapporto sessuale

Che cosa è (per i più) e che cosa dovrebbe e potrebbe essere (per me) un rapporto sessuale?

La mia impressione è che per molte persone, se non per la maggioranza delle persone, il rapporto sessuale sia poco più che uno sfregamento reciproco dei loro corpi: gesto meccanico, ripetitivo, sempre uguale a se stesso, monotono, per cui, alla lunga, perfino noioso.

Oppure il semplice (e triste) soddisfacimento di un bisogno fisiologico (prevalentemente autoerotico e ben poco condiviso), dovuto ad un periodico aumento di pressione ormonale. Nel corso e al termine del quale si prova un modesto e non proprio entusiasmante piacere.

Nel migliore dei casi, un’occasione, un momento di conferma e rassicurazione affettiva reciproche delle due persone in rapporto. Qualcosa, insomma, che attiene più alla sfera emotiva, sentimentale ed affettiva, che a quella specificamente corporea dell’erotismo, della libido, in senso stretto.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, che per la maggior parte degli individui la vita sessuale risulti (alla lunga, una volta esauritasi – ammesso che ci sia mai stata – la breve fase iniziale della passione e dell’entusiasmo) ben poco gratificante, se non del tutto insoddisfacente.

E che, soprattutto ad una certa età, arrivi ad occupare un posto tutto sommato poco o per nulla significativo nella “economia” del loro benessere esistenziale: fisico, emotivo, intellettuale, spirituale in senso lato.

La vita sessuale delle persone, invece, almeno a mio avviso, potrebbe essere molto diversa, molto più soddisfacente, se solo si avesse un poco di consapevolezza in più delle sue enormi potenzialità.

E, soprattutto, se si fosse disposti a liberarsi dei tanti tabù (un misto di paure e di pregiudizi) che ancora oggi l’affliggono, nonostante l’apparente liberazione che essa sembra avere avuto soprattutto negli ultimi 50/60 anni.

Cosa potrebbe (e, a mio avviso, cosa dovrebbe) essere, dunque, un rapporto sessuale?

1.Dovrebbe essere innanzitutto un atto di conoscenza, di vera conoscenza, dell’altra/o.

A questo proposito mi colpisce il fatto che nella Bibbia il verbo “conoscere” venga utilizzato più di una volta per indicare il rapporto carnale, ovverossia il rapporto sessuale.

Viene utilizzato per la prima volta in Genesi 4, 1: “Or Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino…”. E viene utilizzato poi in Matteo 1, 25: “Giuseppe non conobbe Maria finché ella generò un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.

Ora può anche darsi che tale uso fosse dovuto alla pruderie, che impedisce di chiamare una cosa (specie se riguarda il sesso) col suo nome proprio. Anzi è senz’altro così.

E però colpisce (almeno a me colpisce) il fatto che il verbo usato nella Bibbia in alternativa all’espressione “rapporto sessuale” sia proprio quello di “conoscere”. In fondo poteva anche essere usato un altro verbo.

A me piace pensare allora che l’uso di questo termine in qualche modo avvalori (quasi conferma di natura antropologica, visto il suo uso così antico presso la cultura ebraica) la mia tesi che l’atto sessuale è (o almeno potrebbe essere) un vero e proprio atto di conoscenza.

Conoscenza non solo perché nell’atto sessuale si vengono a conoscere parti del corpo dell’altro/a che normalmente non si conoscono, anzi manco si vedono, perché sono coperte, a causa del comune senso del pudore: questa sarebbe una spiegazione piuttosto banale e restrittiva dell’uso del termine.

Bensì conoscenza soprattutto perché l’atto sessuale offre la possibilità di conoscere l’altro/a in una molteplicità di dimensioni, che non si fermano alle sole “parti intime” del corpo (quelle che una volta venivano anche definite “pudenda”, cioè “parti di cui vergognarsi”), ma includono anche (e, forse, soprattutto) le emozioni, i sentimenti, i desideri, le fantasie…, ovverossia il complesso mondo della libido dell’altro/a.

Conoscenza, quindi, che non si ferma, non può concludersi al primo rapporto sessuale. Ma ha bisogno di approfondirsi, crescere, con il ripetersi, il reiterarsi dei rapporti sessuali.

Per cui ogni nuovo rapporto sessuale può essere diverso da quelli che lo hanno preceduto. Quindi non un atto meccanico, stancamente ripetitivo e routinario, come purtroppo è (o prima poi diventa) nella maggioranza dei casi. Ma un atto sempre nuovo, che aggiunge ulteriori tasselli alla conoscenza libidica dell’altro/a, che è potenzialmente infinita, inesauribile.

E sfuggire così al malinconico destino che hanno le storie della maggior parte dei rapporti sessuali: monotonia, stanchezza, noia, rinuncia. Tanto da essere stato definito addirittura (e, secondo me, non a caso) con l’espressione triste di “dovere coniugale”, una delle clausole su cui si fonda il contratto giuridico del matrimonio.

2. In secondo luogo l’atto sessuale dovrebbe e potrebbe essere la situazione esistenziale nella quale si realizza (forse) nella maniera più appagante possibile il bisogno, l’esigenza di trascendenza che sono insiti in ogni esistenza umana.

Gli uomini, infatti, al contrario delle cose, delle piante e degli altri animali, non sono chiamati a “stare” semplicemente in questo mondo; ma sono chiamati ad “esistere”, che è qualcosa di diverso dallo “stare”; perché è uno “stare” che si proietta continuamente fuori, oltre (perciò “esistere”; da “ex”: fuori + “sistere”: “porsi, stare”: “uscire, levarsi”).

Un andare oltre, un uscire da sé, che non presuppone però un mondo altro, oltre questo mondo, perciò meta-fisico; ma un andare oltre per ritrovare sempre nuovi mondi all’interno di questo mondo, un uscire da sé per trovare sempre nuove dimensioni di sé; non certo per allontanarsi, alienarsi da sé.

Da questo punto di vista ogni atto sessuale dovrebbe (e potrebbe) essere un atto di trasgressione, nel senso letterale del termine, dell’ “andare oltre” (“trans” + “ire”).

Non tanto (o non solo) nel senso di trasgredire le norme del comune senso del pudore, ma nel senso di sfidare e superare continuamente le proprie paure, le proprie vergogne, le proprie ritrosie, i propri tabù, confrontandosi in continuazione con i lati e gli aspetti più scabrosi e perturbanti (perché ancora sconosciuti e, quindi, misteriosi) di sé.

3. In terzo luogo, infine, l’atto sessuale, se si realizzasse nelle forme che ho provato a descrivere fin qui, potrebbe essere o diventare una vera e propria esperienza mistica. Come ci insegna una delle più importanti tradizioni orientali: quella tantrica.

Se per mistica intendiamo un’esperienza del tutto laica, che non ha niente a che fare con le religioni tradizionali e con la realtà di un Dio trascendente.

Se per mistica intendiamo l’esperienza della unione il più possibile intima e completa con il Tutto, con l’Universo mondo che ci circonda.

Se per esperienza mistica intendiamo il superamento (almeno spirituale) dei nostri confini per raggiungere il massimo di integrazione e di unione possibili con l’Altro.

L’Altro inteso non solo come la persona con la quale compiamo l’atto sessuale, ma l’Altro come il Tutto cosmico, di cui l’altro psicofisico con cui facciamo l’amore è “solo” la porta d’accesso, anche se necessaria, anzi indispensabile.

In questa esperienza (al contrario delle esperienze mistiche comunemente intese, nelle quali la maggior parte di esse vengono normalmente mortificate) entrano in gioco tutte le facoltà umane, a cominciare da quelle corporee, sensitive, a quelle emozionali, sentimentali ed affettive, per finire a quelle razionali e intellettive.

In un’armonia e in una sintesi, che in poche altre situazioni è possibile raggiungere, almeno a così alti livelli di intensità, di piacere e di gioia psicofisici.

………………………..

E mi fermo qui. Nella consapevolezza, però, che il discorso potrebbe continuare ed essere ulteriormente approfondito.

Anche se mi pare che quello fatto fin qui basti e avanzi per dare un’idea, per quanto solo iniziale e molto parziale, di quante grandissime potenzialità contenga l’esperienza sessuale umana.

E di come la maggior parte di noi si accontenti, invece, di sperimentarne solo una minima parte, rinunciando così alle enormi gratificazioni – fisiche, emotive, intellettuali e spirituali – che essa potrebbe donarci.

Offrendo indubbi argomenti alla famosa (ma per me non convincente) tesi lacaniana della “impossibilità del rapporto sessuale”.

© Giovanni Lamagna

Le passioni sono il motore della vita

Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia” afferma “… le passioni non soltanto fanno da piloti per il porto della saggezza, ma si trovano anche in tutte le azioni secondo virtù, come degli sproni stimolanti a fare il bene”.

Io aggiungo: come non esistono azioni virtuose che non siano mosse da passioni, così non esistono vizi che non siano mossi da passioni.

Esistono, dunque, passioni buone che conducono alla virtù e passioni cattive che conducono al vizio.

Ma in ogni caso le azioni degli uomini sono mosse dalle passioni.

L’ideale stoico e buddhista di rinuncia alle passioni, superandole ed annullandole dentro di sé, è, dunque, non solo vano, perché fuori della realtà, ma anche (oserei dire) insano, ingiusto, sbagliato.

Le passioni sono il motore della vita: una vita senza passioni è morta anzitempo.

© Giovanni Lamagna