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Errare.

La parola “errare” può avere due significati.

Può significare “camminare, vagare, percorrere strade”.

E può significare “sbagliare, commettere errori…”.

A pensarci bene, però, i due significati hanno un punto d’incontro.

Chi cammina talvolta inciampa o sbaglia strada: commette, quindi, degli errori.

Allo stesso modo chi sbaglia è perché sta facendo delle cose, perché è in cammino.

Solo chi fa sbaglia.

Non sbaglia solo chi non fa.

Chi non cammina, chi sta fermo, non corre il rischio di commettere errori.

Però spreca la sua vita.

© Giovanni Lamagna

Il “figlio giusto”.

Il “figlio giusto” non è, certo, quello che rifiuta drasticamente i suoi genitori, ribellandosi violentemente e indefinitamente ad essi, rinnegando l’eredità spirituale che essi gli hanno lasciato in consegna.

Ma non è neanche quello che rimane aggrappato alle figure genitoriali, dipendente a vita dal padre e dalla madre, continuando magari a vivere in casa con loro, incapace di farsi una vita sua.

Il figlio “giusto” è colui che sa riconoscere l’eredità spirituale ricevuta dai suoi genitori e, allo stesso tempo, sa emanciparsene, andando per la sua strada, diventando autonomo e indipendente da loro.

© Giovanni Lamagna

Genitori e figli.

I figli hanno diritto alla “giusta libertà” dai loro genitori.

Ma hanno anche il dovere di riconoscere il “debito simbolico” nei confronti dei loro genitori.

Questi, quindi, hanno il diritto di aspettarsi dai figli la gratitudine e il riconoscimento per la vita loro donata e per l’eredità materiale e spirituale che essi hanno loro trasmessa.

Ma hanno allo stesso tempo il dovere di concedere ai figli la “giusta libertà” di fare la loro strada e di utilizzare l’eredità ricevuta nei modi che essi riterranno più giusta per loro.

© Giovanni Lamagna

Il sintomo doloroso è un messaggio.

Il sintomo doloroso (sia quello fisico che quello psichico) è un messaggio che il nostro corpo o la nostra psiche (la sua parte inconscia) ci lanciano per dirci che c’è qualcosa di sbagliato nella nostra vita, qualcosa che dobbiamo correggere, medicare, sanare.

La cura è una forma di conversione: attraverso la cura decidiamo di cambiare strada, di prendere una via diversa da quella stavamo seguendo e che, almeno da un certo momento in poi, ha cominciato a darci un disagio o una vera e propria sofferenza.

© Giovanni Lamagna

La psicoterapia è solo un lavoro di ricostruzione storica?

Massimo Recalcati ci ricorda che “Lacan parla dell’analisi come di una ricostruzione storica” (da “La luce delle stelle morte; Feltrinelli 2022; pag. 115).

E, indubbiamente, certamente è così: l’analisi è uno sguardo a ritroso sul nostro passato, un ripercorrere la trama della nostra vita.

Non è però – come lo stesso Recalcati ci fa notare – un semplice “ricordare”, un mettere insieme, un ricomporre frammenti del passato.

Che avrebbe poco senso e soprattutto non avrebbe alcun effetto terapeutico.

Bensì è il tentativo di ritrovare in questo lavoro di memoria un filo rosso tra i fatti ricordati e quindi un senso, un significato, una direzione di marcia.

Per verificare dove si sono annidati gli intoppi, gli ostacoli che hanno intralciato e, in qualche caso, bloccato, ostruito del tutto, il fluire sereno, se non proprio felice, della nostra esistenza.

Per provare a sbloccare, a disostruire questi grumi di cupezza e infelicità e dare alla nostra vita una nuova direzione, un nuovo slancio.

Senza questo lavoro di “ricostruzione storica” non sarebbe possibile alcun rilancio, nessuna ripartenza.

Ma senza rilancio e senza ripartenza la ricostruzione storica resterebbe fine a sé stessa, non avrebbe alcuna utilità terapeutica per la nostra vita.

Qui mi sovviene la profonda saggezza di un motto che ha segnato la mia adolescenza, quando frequentavo la Parrocchia e l’Azione cattolica: “Vedere, giudicare e agire”.

E mi vien voglia di applicarlo a quello che considero il percorso tipo, ideale di una psicoterapia.

“Vedere” in psicoterapia significa fare memoria storica della propria vita; andare a recuperare anche i ricordi rimossi, laddove evidentemente si annidavano sofferenze che ancora oggi possono rappresentare ferite non rimarginate.

“Giudicare” equivale a capire, comprendere (io non userei più oggi il termine “giudicare”), le ragioni di quelle sofferenze, i fattori che le hanno determinate e che evidentemente ancora perdurano, se continuano a farci star male.

“Agire” equivale a prendere una decisione, fare una scelta tra due alternative.

Rimanere impantanati nelle sabbie mobili dei ricordi e della sofferenza vissuta un tempo.

Oppure prendere atto del passato, accettarlo con tutte le sue ombre; per poi uscirne prendendo una strada diversa, dando una direzione nuova alla propria vita.

Vedere e capire aiuta, ma da soli non bastano; occorre poi agire, decidere, convertirsi (per dirla in un linguaggio cristiano), riconvertirsi (per dirla con un linguaggio più laico).

Se non si ha la forza, se non si trovano le energie, per compiere questo terzo passo, il lavoro dell’analisi rimane del tutto incompiuto, si riduce a vuota chiacchiera, ad uno sterile, addirittura masochistico, rimuginare fine a sé stesso.

© Giovanni Lamagna

Esplorare significa fare delle scelte.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Astrolabio Ubaldini 2021; pag. 54) così scrive: “La scelta esiste solo quando la mente è confusa. Nel momento in cui la mente è esitante, confusa e non è in grado di vedere con chiarezza, allora viene fatta una scelta.”

Mi chiedo: come potrebbe essere altrimenti?

La mente umana vive spesso, se non il più delle volte, nel dubbio, nell’incertezza e, quindi, nella confusione.

Non ha niente a che fare con la mente (supposta) divina, la quale sola sarebbe onnisciente e perfetta, quindi senza oscillazioni ed esitazioni.

La mente umana è caduca, imperfetta, per sua natura esitante e alla ricerca.

Nel dubbio, nell’incertezza, deve operare delle scelte; o, quantomeno, vivere l’illusione che siano possibili per essa delle scelte.

Krishnamurti aggiunge: “Ciò che è importante non è la scelta, ma mettere ordine nella confusione, o meglio porre fine alla confusione in modo da comprendere con chiarezza.”

Io però mi chiedo: come si fa a mettere ordine nella confusione, se non facendo delle scelte?

Che potranno anche essere inizialmente sbagliate, ma che in ogni caso ci aiuteranno a capire dove sta la “verità” e qual è la strada più giusta da seguire, quando questa all’inizio non ci appare chiara e senza alternative.

La scelta, quindi, al contrario di quanto afferma Krishnamrti (“… l’esplorazione non ricade nel dominio della scelta”; pag. 55) è parte integrante del processo di esplorazione.

Anzi per me esplorare significa scegliere, procedendo per prove ed errori.

Alcune volte il cammino avanza spedito, perché si ha la fortuna (sì, alle volte, è anche questione di fortuna!) di imboccare subito la strada giusta.

Altre volte ci si accorge ad un certo punto del cammino di aver imboccato la strada sbagliata; ed allora bisogna avere l’umiltà, la pazienza, la costanza e la tenacia di tornare indietro e imboccare una nuova strada.

Esplorare significa dunque scegliere; l’uomo non può fare a meno di scegliere.

Perché nessun uomo (almeno all’inizio) è davvero “individuo” nel senso letterale del termine; cioè “indivisibile, non frammentato, e quindi non confuso”.

Ogni uomo, almeno all’inizio, (ma potremmo anche dire sempre, nel corso della sua vita, anche se si può auspicare che lo sia un po’ di meno e sempre meno, man mano che la sua esperienza va avanti, procede, si arricchisce, che diventa più saggio) è frammentato “in pezzetti, consci ed inconsci”.

Io dico è un puzzle, i cui tasselli all’inizio sono sparpagliati, dispersi, e vanno poi ricomposti, con un lavoro paziente, tenace, che esige appunto riflessioni e scelte, per prove ed errori.

Nessuno è in grado di ricomporre il suo puzzle in un breve istante e senza operare delle scelte; senza esitazioni, senza (almeno all’inizio) provare un gran senso di confusione e diciamo pure di smarrimento.

© Giovanni Lamagna

La diversità dei caratteri rende impossibile il rapporto tra due persone?

Alla mia veneranda età sento di poter dire, con giustificata presunzione, che, quando il rapporto tra due persone non va bene o addirittura si rompe, ciò non è dovuto alla diversità dei loro caratteri.

La diversità dei caratteri non è mai il vero problema nei rapporti.

Anzi essa – in genere, quasi sempre – costituisce una fonte di ricchezza dei rapporti.

Nella diversità le persone si arricchiscono, completano: l’una dona all’altra quello che le manca e viceversa.

Il vero problema nei rapporti è dato piuttosto dalla differenza di interessi e, soprattutto, di valori, di stili di vita.

Tanto è vero che ci sono persone che hanno caratteri molto simili, ma che non vanno per niente d’accordo, perché troppo diversi sono i loro valori, i loro interessi e, per conseguenza, i loro stili di vita.

Mentre ci sono persone che hanno caratteri molto diversi (una più estroversa, l’altra più introversa, una più attiva e dinamica, l’altra più riflessiva e flemmatica, una più istintiva e impulsiva, l’altra più meditativa e contemplativa…), ma che vanno perfettamente d’accordo perché hanno un sistema di valori di riferimento che le fa tranquillamente camminare insieme, sulla stessa strada, sia pure con modalità e ritmi diversi.

© Giovanni Lamagna

Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna

Lo sguardo contemplativo.

Lo sguardo contemplativo è uno sguardo particolare: lungo, perché si proietta lontano, ben oltre il momento presente, anche se si costruisce momento per momento; e dritto, affilato, tagliente, come una spada.

La sua caratteristica principale è la concentrazione, la capacità di mettere a fuoco la realtà (quella interiore e quella esteriore), di limitare al massimo (e sempre di più, mano a mano che cresce la sua pratica ed esperienza) la dispersione, la dissipazione, le distrazioni, di cui soffre normalmente la nostra mente.

E’ lo sguardo concentrato sul proprio desiderio fondamentale, sulla propria vocazione unica e personale, su quello che gli antichi Greci chiamavano “daimon”, che abita in ognuno di noi, anche se non è facile e non è dato a tutti incontrarlo e ascoltarne la voce, il richiamo.

E’ uno sguardo che ci dà una particolare energia vitale, perché è da esso che ci deriva la chiarezza su qual è la nostra strada, quella che siamo chiamati – per destino unico, che è solo nostro, a imboccare e percorrere.

Chi ha lo sguardo contemplativo saprà sempre, pur se magari dopo qualche più o meno lungo attimo di dubbio, incertezza, esitazione, in che direzione andare; anche quando tutto intorno a lui è scesa la nebbia e l’orizzonte non è del tutto chiaro e ben definito.

E non (tanto) perché ha fatto o fa dei ragionamenti e delle analisi intellettuali, ma perché sente, intuisce, quasi annusa, dove lo porta il suo percorso esistenziale, perché è guidato da una luce interna e misteriosa, ma ben reale.

Perché segue una specie di istinto primordiale, che poi solo istinto non è, dal momento, che è anche (e, forse, soprattutto) il risultato di un esercizio, di una pratica, appunto.

Il frutto di un’applicazione costante, eppure dolce; necessaria, eppure mai e per niente ossessiva o nevrotica.

Beato chi nella vita riuscirà a maturare uno sguardo contemplativo!

Perché avrà trovato la roccia su cui poggiare i suoi piedi, il sentiero su cui camminare saldo, pur se non sempre sicuro, la bussola che guiderà la sua esistenza, la pietra angolare che gli indicherà, momento per momento, la via da seguire.

Chi ne è sprovvisto, invece, sbanderà di continuo, sarà come una barca in balia delle onde, arrancherà spesso nel suo cammino esistenziale, senza orientamento e conforto, sarà preso dalla paura e, qualche volta, addirittura dal panico ogni volta che dovrà operare delle scelte o prendere una decisione.

Tutti siamo chiamati a coltivare, formare, far crescere in noi uno sguardo contemplativo; perché in ognuno di noi ce ne sono le potenzialità, le strutture fondamentali.

Purtroppo, però, non tutti lo attiviamo, non tutti ne diventiamo consapevoli; e così ci lasciamo sfuggire il tesoro più prezioso che la vita ci ha destinato, quello che sarebbe capace di realizzarla alla sua massima potenza.

© Giovanni Lamagna

La verità dell’amore

Dopo aver letto il paragrafo di pag. 170 del suo libro “Logoterapia e analisi esistenziale”, che Victor Frankl intitola “Verità dell’amore”, mi sono venute spontanee e di getto le (semplici, ma sempre utili da tenere a mente) riflessioni che seguono.

Per me nessun amore si può definire eterno; quindi nessun uomo può giurare di amare per l’eternità.

Io posso giurare che farò di tutto perché il mio amore per un/a altro/a duri in eterno, ma non posso giurare amore eterno.

Un amore – al momento in cui nasce – può desiderare di essere per sempre.

Anzi, si può senz’altro dire che nessun amore nasce a termine; ogni amore nasce con l’aspirazione a durare nel tempo, quanto più tempo è possibile; se non proprio per sempre; altrimenti, non sarebbe amore, vero amore.

E, tuttavia, nessun amore può giurare davvero, in piena sincerità, di essere per sempre, perché troppi fattori concorrono a minarne e metterne in discussione la durata.

Niente e nessuno mi può, infatti, garantire che l’attrazione, il desiderio, che io provo per una certa persona in un dato momento siano destinati a durare in eterno e a non trasformarsi, invece, se non proprio nei loro opposti, cioè in odio e rifiuto, quantomeno in insofferenza, ovverossia in perdita e mancanza del piacere che una volta si provava a stare insieme.

Perché gli esseri umani (che ci piaccia o no) cambiano, sono destinati fatalmente a mutare nel corso del tempo; come tutte le realtà presenti in natura siamo esseri evolutivi o involutivi, a seconda dei casi, positivo il primo, negativo il secondo.

Non sta scritto, quindi, da nessuna parte, in nessuna tavola del destino, che i cambiamenti delle due persone, che ad un certo punto della loro vita decidono di mettersi assieme per amore, vadano, nel tempo della loro vita in comune, nella stessa direzione.

E, quando allora i cambiamenti delle due persone, che pure tempo prima si erano messe assieme per autentico e sincero amore, sono andati in due direzioni completamente diverse, se non addirittura opposte, si può onestamente chiedere loro di continuare a stare, a vivere assieme?

La loro vita non diventerebbe in questo caso un reciproco supplizio, un continuo ostacolarsi e calpestarsi a vicenda?

E a che pro i due dovrebbero sopportare tali sacrifici e simili autolimitazioni?

Non è meglio, in questi casi, prendere atto – da parte di entrambi – che l’amore, che li aveva messi tempo prima assieme, si è oramai esaurito?

Dal che si deduce che l’amore non è affatto un sentimento eterno, destinato a durare fino alla morte, come pure all’inizio, quando i due decisero di unire le loro vite, in perfetta buona fede e con piena convinzione credevano, oltre che desiderare e sperare.

L’amore dura finché dura; può durare anche tutta la vita; ma niente e nessuno lo può garantire.

Certo, esso va curato perché duri; nessuna pianta vive se non viene innaffiata ogni giorno; così l’amore non dura nel tempo per moto spontaneo, senza la cura di entrambi i due amanti.

E, tuttavia, manco la cura e l’attenzione a farlo durare basta talvolta a farlo vivere nel tempo; a volte ci sono fattori che lo mettono in crisi, a prescindere dalla cura che gli amanti gli riservano.

Spesso sono i percorsi esistenziali individuali, potremmo anche dire le vocazioni individuali dei due amanti, che allontano i loro percorsi di vita, al di là delle loro buone intenzioni.

In questi casi allora non c’è niente da fare per tenere in vita quella che pure era nata come vera relazione d’amore: bisogna prendere semplicemente atto che l’amore iniziale si è esaurito o, quantomeno, trasformato.

E’ bene a questo punto separare (il più possibile serenamente, quindi consensualmente) le proprie vite, avviandosi ognuno per la sua strada, per la via su cui è stato chiamato (e non è certo questa una colpa!) a camminare.

© Giovanni Lamagna