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Errare.
La parola “errare” può avere due significati.
Può significare “camminare, vagare, percorrere strade”.
E può significare “sbagliare, commettere errori…”.
A pensarci bene, però, i due significati hanno un punto d’incontro.
Chi cammina talvolta inciampa o sbaglia strada: commette, quindi, degli errori.
Allo stesso modo chi sbaglia è perché sta facendo delle cose, perché è in cammino.
Solo chi fa sbaglia.
Non sbaglia solo chi non fa.
Chi non cammina, chi sta fermo, non corre il rischio di commettere errori.
Però spreca la sua vita.
© Giovanni Lamagna
Il “figlio giusto”.
Il “figlio giusto” non è, certo, quello che rifiuta drasticamente i suoi genitori, ribellandosi violentemente e indefinitamente ad essi, rinnegando l’eredità spirituale che essi gli hanno lasciato in consegna.
Ma non è neanche quello che rimane aggrappato alle figure genitoriali, dipendente a vita dal padre e dalla madre, continuando magari a vivere in casa con loro, incapace di farsi una vita sua.
Il figlio “giusto” è colui che sa riconoscere l’eredità spirituale ricevuta dai suoi genitori e, allo stesso tempo, sa emanciparsene, andando per la sua strada, diventando autonomo e indipendente da loro.
© Giovanni Lamagna
Genitori e figli.
I figli hanno diritto alla “giusta libertà” dai loro genitori.
Ma hanno anche il dovere di riconoscere il “debito simbolico” nei confronti dei loro genitori.
Questi, quindi, hanno il diritto di aspettarsi dai figli la gratitudine e il riconoscimento per la vita loro donata e per l’eredità materiale e spirituale che essi hanno loro trasmessa.
Ma hanno allo stesso tempo il dovere di concedere ai figli la “giusta libertà” di fare la loro strada e di utilizzare l’eredità ricevuta nei modi che essi riterranno più giusta per loro.
© Giovanni Lamagna
Il sintomo doloroso è un messaggio.
Il sintomo doloroso (sia quello fisico che quello psichico) è un messaggio che il nostro corpo o la nostra psiche (la sua parte inconscia) ci lanciano per dirci che c’è qualcosa di sbagliato nella nostra vita, qualcosa che dobbiamo correggere, medicare, sanare.
La cura è una forma di conversione: attraverso la cura decidiamo di cambiare strada, di prendere una via diversa da quella stavamo seguendo e che, almeno da un certo momento in poi, ha cominciato a darci un disagio o una vera e propria sofferenza.
© Giovanni Lamagna
La psicoterapia è solo un lavoro di ricostruzione storica?
Massimo Recalcati ci ricorda che “Lacan parla dell’analisi come di una ricostruzione storica” (da “La luce delle stelle morte; Feltrinelli 2022; pag. 115).
E, indubbiamente, certamente è così: l’analisi è uno sguardo a ritroso sul nostro passato, un ripercorrere la trama della nostra vita.
Non è però – come lo stesso Recalcati ci fa notare – un semplice “ricordare”, un mettere insieme, un ricomporre frammenti del passato.
Che avrebbe poco senso e soprattutto non avrebbe alcun effetto terapeutico.
Bensì è il tentativo di ritrovare in questo lavoro di memoria un filo rosso tra i fatti ricordati e quindi un senso, un significato, una direzione di marcia.
Per verificare dove si sono annidati gli intoppi, gli ostacoli che hanno intralciato e, in qualche caso, bloccato, ostruito del tutto, il fluire sereno, se non proprio felice, della nostra esistenza.
Per provare a sbloccare, a disostruire questi grumi di cupezza e infelicità e dare alla nostra vita una nuova direzione, un nuovo slancio.
Senza questo lavoro di “ricostruzione storica” non sarebbe possibile alcun rilancio, nessuna ripartenza.
Ma senza rilancio e senza ripartenza la ricostruzione storica resterebbe fine a sé stessa, non avrebbe alcuna utilità terapeutica per la nostra vita.
Qui mi sovviene la profonda saggezza di un motto che ha segnato la mia adolescenza, quando frequentavo la Parrocchia e l’Azione cattolica: “Vedere, giudicare e agire”.
E mi vien voglia di applicarlo a quello che considero il percorso tipo, ideale di una psicoterapia.
“Vedere” in psicoterapia significa fare memoria storica della propria vita; andare a recuperare anche i ricordi rimossi, laddove evidentemente si annidavano sofferenze che ancora oggi possono rappresentare ferite non rimarginate.
“Giudicare” equivale a capire, comprendere (io non userei più oggi il termine “giudicare”), le ragioni di quelle sofferenze, i fattori che le hanno determinate e che evidentemente ancora perdurano, se continuano a farci star male.
“Agire” equivale a prendere una decisione, fare una scelta tra due alternative.
Rimanere impantanati nelle sabbie mobili dei ricordi e della sofferenza vissuta un tempo.
Oppure prendere atto del passato, accettarlo con tutte le sue ombre; per poi uscirne prendendo una strada diversa, dando una direzione nuova alla propria vita.
Vedere e capire aiuta, ma da soli non bastano; occorre poi agire, decidere, convertirsi (per dirla in un linguaggio cristiano), riconvertirsi (per dirla con un linguaggio più laico).
Se non si ha la forza, se non si trovano le energie, per compiere questo terzo passo, il lavoro dell’analisi rimane del tutto incompiuto, si riduce a vuota chiacchiera, ad uno sterile, addirittura masochistico, rimuginare fine a sé stesso.
© Giovanni Lamagna
Esplorare significa fare delle scelte.
Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Astrolabio Ubaldini 2021; pag. 54) così scrive: “La scelta esiste solo quando la mente è confusa. Nel momento in cui la mente è esitante, confusa e non è in grado di vedere con chiarezza, allora viene fatta una scelta.”
Mi chiedo: come potrebbe essere altrimenti?
La mente umana vive spesso, se non il più delle volte, nel dubbio, nell’incertezza e, quindi, nella confusione.
Non ha niente a che fare con la mente (supposta) divina, la quale sola sarebbe onnisciente e perfetta, quindi senza oscillazioni ed esitazioni.
La mente umana è caduca, imperfetta, per sua natura esitante e alla ricerca.
Nel dubbio, nell’incertezza, deve operare delle scelte; o, quantomeno, vivere l’illusione che siano possibili per essa delle scelte.
Krishnamurti aggiunge: “Ciò che è importante non è la scelta, ma mettere ordine nella confusione, o meglio porre fine alla confusione in modo da comprendere con chiarezza.”
Io però mi chiedo: come si fa a mettere ordine nella confusione, se non facendo delle scelte?
Che potranno anche essere inizialmente sbagliate, ma che in ogni caso ci aiuteranno a capire dove sta la “verità” e qual è la strada più giusta da seguire, quando questa all’inizio non ci appare chiara e senza alternative.
La scelta, quindi, al contrario di quanto afferma Krishnamrti (“… l’esplorazione non ricade nel dominio della scelta”; pag. 55) è parte integrante del processo di esplorazione.
Anzi per me esplorare significa scegliere, procedendo per prove ed errori.
Alcune volte il cammino avanza spedito, perché si ha la fortuna (sì, alle volte, è anche questione di fortuna!) di imboccare subito la strada giusta.
Altre volte ci si accorge ad un certo punto del cammino di aver imboccato la strada sbagliata; ed allora bisogna avere l’umiltà, la pazienza, la costanza e la tenacia di tornare indietro e imboccare una nuova strada.
Esplorare significa dunque scegliere; l’uomo non può fare a meno di scegliere.
Perché nessun uomo (almeno all’inizio) è davvero “individuo” nel senso letterale del termine; cioè “indivisibile, non frammentato, e quindi non confuso”.
Ogni uomo, almeno all’inizio, (ma potremmo anche dire sempre, nel corso della sua vita, anche se si può auspicare che lo sia un po’ di meno e sempre meno, man mano che la sua esperienza va avanti, procede, si arricchisce, che diventa più saggio) è frammentato “in pezzetti, consci ed inconsci”.
Io dico è un puzzle, i cui tasselli all’inizio sono sparpagliati, dispersi, e vanno poi ricomposti, con un lavoro paziente, tenace, che esige appunto riflessioni e scelte, per prove ed errori.
Nessuno è in grado di ricomporre il suo puzzle in un breve istante e senza operare delle scelte; senza esitazioni, senza (almeno all’inizio) provare un gran senso di confusione e diciamo pure di smarrimento.
© Giovanni Lamagna
La diversità dei caratteri rende impossibile il rapporto tra due persone?
Alla mia veneranda età sento di poter dire, con giustificata presunzione, che, quando il rapporto tra due persone non va bene o addirittura si rompe, ciò non è dovuto alla diversità dei loro caratteri.
La diversità dei caratteri non è mai il vero problema nei rapporti.
Anzi essa – in genere, quasi sempre – costituisce una fonte di ricchezza dei rapporti.
Nella diversità le persone si arricchiscono, completano: l’una dona all’altra quello che le manca e viceversa.
Il vero problema nei rapporti è dato piuttosto dalla differenza di interessi e, soprattutto, di valori, di stili di vita.
Tanto è vero che ci sono persone che hanno caratteri molto simili, ma che non vanno per niente d’accordo, perché troppo diversi sono i loro valori, i loro interessi e, per conseguenza, i loro stili di vita.
Mentre ci sono persone che hanno caratteri molto diversi (una più estroversa, l’altra più introversa, una più attiva e dinamica, l’altra più riflessiva e flemmatica, una più istintiva e impulsiva, l’altra più meditativa e contemplativa…), ma che vanno perfettamente d’accordo perché hanno un sistema di valori di riferimento che le fa tranquillamente camminare insieme, sulla stessa strada, sia pure con modalità e ritmi diversi.
© Giovanni Lamagna
Lo sguardo contemplativo.
Lo sguardo contemplativo è uno sguardo particolare: lungo, perché si proietta lontano, ben oltre il momento presente, anche se si costruisce momento per momento; e dritto, affilato, tagliente, come una spada.
La sua caratteristica principale è la concentrazione, la capacità di mettere a fuoco la realtà (quella interiore e quella esteriore), di limitare al massimo (e sempre di più, mano a mano che cresce la sua pratica ed esperienza) la dispersione, la dissipazione, le distrazioni, di cui soffre normalmente la nostra mente.
E’ lo sguardo concentrato sul proprio desiderio fondamentale, sulla propria vocazione unica e personale, su quello che gli antichi Greci chiamavano “daimon”, che abita in ognuno di noi, anche se non è facile e non è dato a tutti incontrarlo e ascoltarne la voce, il richiamo.
E’ uno sguardo che ci dà una particolare energia vitale, perché è da esso che ci deriva la chiarezza su qual è la nostra strada, quella che siamo chiamati – per destino unico, che è solo nostro, a imboccare e percorrere.
Chi ha lo sguardo contemplativo saprà sempre, pur se magari dopo qualche più o meno lungo attimo di dubbio, incertezza, esitazione, in che direzione andare; anche quando tutto intorno a lui è scesa la nebbia e l’orizzonte non è del tutto chiaro e ben definito.
E non (tanto) perché ha fatto o fa dei ragionamenti e delle analisi intellettuali, ma perché sente, intuisce, quasi annusa, dove lo porta il suo percorso esistenziale, perché è guidato da una luce interna e misteriosa, ma ben reale.
Perché segue una specie di istinto primordiale, che poi solo istinto non è, dal momento, che è anche (e, forse, soprattutto) il risultato di un esercizio, di una pratica, appunto.
Il frutto di un’applicazione costante, eppure dolce; necessaria, eppure mai e per niente ossessiva o nevrotica.
Beato chi nella vita riuscirà a maturare uno sguardo contemplativo!
Perché avrà trovato la roccia su cui poggiare i suoi piedi, il sentiero su cui camminare saldo, pur se non sempre sicuro, la bussola che guiderà la sua esistenza, la pietra angolare che gli indicherà, momento per momento, la via da seguire.
Chi ne è sprovvisto, invece, sbanderà di continuo, sarà come una barca in balia delle onde, arrancherà spesso nel suo cammino esistenziale, senza orientamento e conforto, sarà preso dalla paura e, qualche volta, addirittura dal panico ogni volta che dovrà operare delle scelte o prendere una decisione.
Tutti siamo chiamati a coltivare, formare, far crescere in noi uno sguardo contemplativo; perché in ognuno di noi ce ne sono le potenzialità, le strutture fondamentali.
Purtroppo, però, non tutti lo attiviamo, non tutti ne diventiamo consapevoli; e così ci lasciamo sfuggire il tesoro più prezioso che la vita ci ha destinato, quello che sarebbe capace di realizzarla alla sua massima potenza.
© Giovanni Lamagna
La verità dell’amore
Dopo aver letto il paragrafo di pag. 170 del suo libro “Logoterapia e analisi esistenziale”, che Victor Frankl intitola “Verità dell’amore”, mi sono venute spontanee e di getto le (semplici, ma sempre utili da tenere a mente) riflessioni che seguono.
Per me nessun amore si può definire eterno; quindi nessun uomo può giurare di amare per l’eternità.
Io posso giurare che farò di tutto perché il mio amore per un/a altro/a duri in eterno, ma non posso giurare amore eterno.
Un amore – al momento in cui nasce – può desiderare di essere per sempre.
Anzi, si può senz’altro dire che nessun amore nasce a termine; ogni amore nasce con l’aspirazione a durare nel tempo, quanto più tempo è possibile; se non proprio per sempre; altrimenti, non sarebbe amore, vero amore.
E, tuttavia, nessun amore può giurare davvero, in piena sincerità, di essere per sempre, perché troppi fattori concorrono a minarne e metterne in discussione la durata.
Niente e nessuno mi può, infatti, garantire che l’attrazione, il desiderio, che io provo per una certa persona in un dato momento siano destinati a durare in eterno e a non trasformarsi, invece, se non proprio nei loro opposti, cioè in odio e rifiuto, quantomeno in insofferenza, ovverossia in perdita e mancanza del piacere che una volta si provava a stare insieme.
Perché gli esseri umani (che ci piaccia o no) cambiano, sono destinati fatalmente a mutare nel corso del tempo; come tutte le realtà presenti in natura siamo esseri evolutivi o involutivi, a seconda dei casi, positivo il primo, negativo il secondo.
Non sta scritto, quindi, da nessuna parte, in nessuna tavola del destino, che i cambiamenti delle due persone, che ad un certo punto della loro vita decidono di mettersi assieme per amore, vadano, nel tempo della loro vita in comune, nella stessa direzione.
E, quando allora i cambiamenti delle due persone, che pure tempo prima si erano messe assieme per autentico e sincero amore, sono andati in due direzioni completamente diverse, se non addirittura opposte, si può onestamente chiedere loro di continuare a stare, a vivere assieme?
La loro vita non diventerebbe in questo caso un reciproco supplizio, un continuo ostacolarsi e calpestarsi a vicenda?
E a che pro i due dovrebbero sopportare tali sacrifici e simili autolimitazioni?
Non è meglio, in questi casi, prendere atto – da parte di entrambi – che l’amore, che li aveva messi tempo prima assieme, si è oramai esaurito?
Dal che si deduce che l’amore non è affatto un sentimento eterno, destinato a durare fino alla morte, come pure all’inizio, quando i due decisero di unire le loro vite, in perfetta buona fede e con piena convinzione credevano, oltre che desiderare e sperare.
L’amore dura finché dura; può durare anche tutta la vita; ma niente e nessuno lo può garantire.
Certo, esso va curato perché duri; nessuna pianta vive se non viene innaffiata ogni giorno; così l’amore non dura nel tempo per moto spontaneo, senza la cura di entrambi i due amanti.
E, tuttavia, manco la cura e l’attenzione a farlo durare basta talvolta a farlo vivere nel tempo; a volte ci sono fattori che lo mettono in crisi, a prescindere dalla cura che gli amanti gli riservano.
Spesso sono i percorsi esistenziali individuali, potremmo anche dire le vocazioni individuali dei due amanti, che allontano i loro percorsi di vita, al di là delle loro buone intenzioni.
In questi casi allora non c’è niente da fare per tenere in vita quella che pure era nata come vera relazione d’amore: bisogna prendere semplicemente atto che l’amore iniziale si è esaurito o, quantomeno, trasformato.
E’ bene a questo punto separare (il più possibile serenamente, quindi consensualmente) le proprie vite, avviandosi ognuno per la sua strada, per la via su cui è stato chiamato (e non è certo questa una colpa!) a camminare.
© Giovanni Lamagna