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Quando si impedisce alla libido di fluire liberamente.

Ci sono persone che si portano dentro un tappo, che impedisce alla loro libido, cioè alla loro energia vitale (che è, in primis, di natura sessuale) di fluire liberamente, dall’interno verso l’esterno.

In questo modo fanno male non sola a sé stesse, rinunciando alla realizzazione delle loro potenzialità e causandosi frustrazioni e sofferenze inutili, che avrebbero invece potuto evitarsi.

Ma fanno male anche a tutte le persone con le quali entrano in relazione, caricando inevitabilmente anche su di queste le loro personali frustrazioni e sofferenze.

© Giovanni Lamagna

Tabù e sensi di colpa.

Ci sono donne che, invece di esserne gratificate, sono addirittura infastidite dalla libido dei loro partner, quando questa si manifesta come particolarmente vivace e fantasiosa.

Ciò è dovuto al fatto – con tutta evidenza – che essa le costringerebbe, se fosse da loro condivisa, a fare i conti fino in fondo con l’educazione sessuale, più o meno repressiva, ricevuta da bambine, e con i tabù che ne sono conseguiti.

Cosa che, invece, non sono disposte a fare, perché smuoverebbe troppi equilibri che non vogliono mettere in discussione e scatenerebbe sensi di colpa per loro insopportabili.

Per cui preferiscono rincantucciarsi in una sessualità di routine anziché godere di una sessualità sfavillante ed effervescente che sarebbe del tutto alla loro portata.

Quello che ho appena scritto qui vale ovviamente (lo dico subito, ad evitare malintesi e prevedibili accuse di maschilismo) anche per l’altro sesso.

Vale cioè anche per molti uomini nei confronti delle “loro” donne, laddove queste manifestassero una sessualità particolarmente spigliata e disinvolta.

© Giovanni Lamagna

Il fantasma che orienta la nostra libido da adulti.

Ciascuno di noi – come dice Recalcati (“Un cammino nella psicoanalisi” Mimesis 2016; p. 104-105) – insegue un fantasma.

Quel fantasma che – secondo la lezione freudiana – si è formato dentro di noi dopo che il nostro desiderio primario – quello di congiungerci carnalmente col nostro genitore di sesso opposto – è stato castrato (tra i 3 e i 5 anni).

Da allora la nostra vita emotiva, affettiva, sessuale è fondamentalmente impegnata a riparare gli effetti della castrazione subita.

Sono nati, si sono formati, quindi, in noi emozioni, sentimenti, immagini, fantasie, sostituti del desiderio primario (il fantasma, appunto!), che richiedono di essere tradotti in atti.

Da questo momento in poi la nostra vita emotiva, affettiva e sessuale sarà guidata, orientata da questo fantasma.

Per alcuni – che hanno vissuto in maniera particolarmente traumatica la castrazione primaria – questo fantasma diventerà una vera e propria ossessione.

© Giovanni Lamagna

L’amore per gli animali.

Mi sono fatto una mia idea delle donne e degli uomini che amano “troppo” gli animali.

“Troppo” per me vuol dire che amano più gli animali che i loro simili.

A mio avviso (quasi sempre) si tratta di donne e uomini che reprimono l’animale che è dentro di loro, ovverossia la parte più istintuale della loro natura.

E, soprattutto, reprimono la loro libido.

Che viene fuori e si esprime, quindi, nell’unico modo a loro consentito: nell’amore (a volte esagerato) verso l’animale che è fuori di loro.

© Giovanni Lamagna

E’ possibile il lavoro di elaborazione di un lutto?

Secondo Massimo Recalcati il lavoro di elaborazione di un lutto, al contrario di quello che pensa Freud, non si completerebbe mai definitivamente e del tutto.

Per Freud il compimento del “lavoro del lutto” porterebbe all’oblio (uno “strano oblio”) dell’oggetto perduto e al ristabilimento, ripristino, delle funzioni della libido.

Che, dopo un lutto, resta attaccata all’oggetto perduto e quindi bloccata, per un tempo fisiologico: e questo è del tutto normale.

Ma, una volta elaborato il lutto, riprenderebbe a fluire di nuovo e a poter essere investita su nuovi oggetti.

Secondo Recalcati, invece, questa visione di Freud è troppo idilliaca e sarebbe smentita dall’esperienza psicoanalitica.

Secondo Recalcati il lutto non può mai essere elaborato del tutto; una parte di libido resterebbe quindi attaccata per sempre all’oggetto perduto.

Cosa penso io di questa piccola diatriba virtuale tra Recalcati e Freud?

Penso che abbiano ragione entrambi.

Penso che abbia ragione Recalcati a sostenere che dopo ogni morte di una persona che ci era cara, una parte di noi muore con lei; e che da questo punto di vista, quindi, nessuna ferita causata da una perdita luttuosa sia mai del tutto rimarginabile.

Ogni perdita causata da una morte accresce in noi la consapevolezza di dover morire, del nostro “essere per la morte”; consapevolezza che non è ovviamente solo intellettuale, ma è soprattutto emozionale ed affettiva.

Quindi ogni lutto fa venire fuori, rende manifesta, in noi una quota di melanconia latente, che è parte fondante del nostro essere mortali.

Penso, però, che abbia anche ragione Freud; che sia possibile cioè o, almeno, che sia possibile per una persona con una psiche mediamente sana, riuscire a convivere, in uno stato relativamente sereno, con questo fondo di melanconia, che lievita ogni volta in noi quando siamo colpiti da un lutto, specie quando muore una persona che ci era molto vicina e cara.

Che sia possibile non dico dimenticare prima o poi la persona che è morta, ma convivere abbastanza serenamente con il pensiero/memoria della sua perdita, della sua assenza, oramai irrecuperabile, nella nostra vita.

E che, quindi, la nostra vita possa riprendere non dico come prima ma quantomeno con la stessa voglia di vivere, di godere dei piccoli o grandi piaceri, delle piccole o grandi gioie, che la vita può continuare, nonostante tutto, a donarci.

Penso, in estrema sintesi, che la nostra libido, dopo una fase di annebbiamento, di occultamento, di appassimento, possa riprendersi, rinascere, tornare a rivivere, a trovare altri oggetti su cui investire e provarne gratificazione.

Senza farsi paralizzare dai sensi di colpa (quasi che la morte della persona a noi cara fosse in qualche modo colpa nostra) o dalla devastante, perversa, appercezione/associazione che alla persona defunta si legasse il senso stesso della nostra esistenza, per cui, venuta meno lei, sarebbe venuto meno anche il senso stesso del nostro vivere.

© Giovanni Lamagna

Le tre istanze fondamentali della psiche secondo la mia visione.

Una delle affermazioni più famose (se non la più famosa) di Sigmund Freud è senz’altro questa: “Wo Es war, soll Ich werden”; contenuta nel suo “Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni)”; 1980 Bollati Boringhieri, pag. 190; tradotta da Cesare Musatti con le parole “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Cosa voleva dire il grande viennese con una tale affermazione?

A mio avviso, alcune cose molto semplici.

Innanzitutto questa: all’inizio, quando nasce e nei suoi primi mesi ed anni di vita, l’uomo è essenzialmente un fascio di impulsi o, come le chiama Freud, pulsioni, che in questa fase però assomigliano molto agli istinti animali.

In altre parole nei suoi primi anni di vita l’uomo è poco più di un animale, molto simile agli altri animali: è quindi Es (quasi) allo stato puro.

Poi, un poco alla volta, lentamente, in misura più o meno grande, a seconda delle sue caratteristiche innate (che potremmo anche considerare genetiche) e, soprattutto, delle condizioni ambientali (il contesto nel quale l’individuo nasce e cresce), sopravviene e si afferma in lui una seconda istanza psichica, che Freud definisce l’Io o l’Ego.

Che cos’è l’Io/Ego?

È la dimensione razionale della vita psichica, quella che fa prendere consapevolezza all’individuo, che non tutti i suoi impulsi istintuali, non tutte le sue pulsioni sono realizzabili, praticabili; o perlomeno non lo sono sempre e immediatamente.

Perché esiste una Realtà che spesso o alcune volte si oppone loro, con la quale il soggetto pulsionale deve fare i conti, che ne limita, frena i desideri, rimandando o negando del tutto (alcune volte) la loro realizzazione.

Per usare espressioni freudiane, sopravviene “il principio di realtà”, che si contrappone talvolta (potremmo anche dire: spesso) al puro “principio di piacere”.

In questo modo all’Es (le pulsioni iniziali, la libido allo stato puro, quasi del tutto animalesca) subentra l’Ego (la parte razionale, consapevole quindi dei limiti imposti alle pulsioni dall’impatto con la realtà).

Così il bambino cresce – passando per la fase turbinosa dell’adolescenza – e diventa uomo maturo.

Do per scontato (credo che anche Freud lo desse per scontato) che in alcuni individui questo processo di crescita e maturazione riesca di più, in altri di meno; alcuni individui rimangono sostanzialmente bambini, altri (pochi) diventano addirittura animali selvaggi, preda dei loro istinti più primitivi.

Io condivido sostanzialmente questa lettura che Freud fa della psiche umana, che egli integra poi, come è noto, con una terza dimensione, quella del Super-Ego (o Super-Io).

Che sarebbe – a suo avviso – una variante della coscienza, che impone all’uomo di limitare i suoi desideri, le sue pulsioni istintuali, ma diversa dal “principio di realtà”, che ha una sua consistenza intrinseca, oggettiva.

Il Super-Ego, invece, insorge – come fattore del tutto relativo e contingente – dal contesto ambientale, sociale, culturale, nel quale ciascun individuo nasce, cresce e sviluppa i suoi codici morali.

E’ diverso dall’Ego, perché questo si fonda su una norma intrinseca, il principio di realtà, che ha una sua valenza oggettiva, potremmo dire addirittura universale, uguale per tutti gli esseri umani, a prescindere dal contesto sociale e culturale nel quale nascono, crescono e vengono educati.

Il Super-Ego, invece, pone leggi, norme e regole estrinseche, imposte dal contesto sociale e culturale particolare nel quale l’individuo nasce e cresce, ha quindi una valenza per sua natura variabile e perciò relativa, niente affatto universale.

Ripeto, io in buona sostanza condivido questa topica, fondata sui tre pilastri dell’Es, dell’Io e del Super-Io, con la quale Freud dipinge, direi addirittura fotografa, la psiche umana.

E non ritengo che gli altri studiosi che sono venuti dopo di lui e si sono dedicati a ricerche analoghe siano stati in grado di contestarla sostanzialmente o efficacemente.

Ne hanno magari dato riletture un po’ diverse, modificate in parte, ma nella sostanza quella descritta da Freud è oramai universalmente riconosciuta, anche laddove vengono usati termini diversi o accentuata l’importanza ora dell’una ora dell’altra delle tre dimensioni della psiche umana individuate da Freud.

Per quanto mi riguarda, gli unici appunti che mi sento di muovere (si parva licet) alla teoria freudiana sono che 1) è forse un po’ troppo rigida e schematica, 2) non è del tutto chiara la distinzione tra Ego e Super-Ego; essa forse andrebbe precisata meglio.

1.Per quanto riguarda il primo punto, l’affermazione “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”, almeno per come è stata posta da Freud, lascia supporre una netta preferenza del fondatore della psicoanalisi per il secondo rispetto al primo.

Quasi che il primo (l’Es) fosse per lui solo o tutto negatività e il secondo (l’Io) solo o tutto positività.

In altre parole si coglie in Freud una netta simpatia per il concetto di necessità e quello di realtà rispetto a quelli di piacere e di desiderio.

Laddove io ritengo che tra i primi due concetti e i secondi due debba sussistere non una opposizione netta, come pare intenderla Freud, ma piuttosto una dialettica, una interrelazione feconda, positiva, fruttuosa, che a volte fa prevalere i primi a volte (perché no?) i secondi.

In altre parole, ancora: non ci sono dubbi che in molti casi la realtà oggettiva si opponga ai nostri impulsi istintivi e, quindi, ai nostri desideri; e, in questi casi, maturità vuole che l’Es si pieghi alla realtà diventando Io.

E’ immaturo, infantile, quindi insano, nevrotico, l’uomo che vuole forzare ostinatamente, direi capricciosamente, questa realtà.

Ma ci sono casi in cui può essere l’Es a modificare la (presunta) realtà, laddove questa non si mostri del tutto dura e insuperabile, ma plasmabile e riformabile.

In questo caso Es ed Io possono tranquillamente convivere, anzi coincidono, non sono necessariamente due realtà in antitesi, in conflitto, come a volte infondatamente siamo portati a ritenere.

In altre parole ancora: per me si tratta di essere senz’altro realisti (e in questo sono del tutto d’accordo col maestro viennese), ma non occorre essere più realisti del re (come talvolta a me pare Freud tendeva ad essere).

Sopravvalutando cioè l’ineluttabilità del “principio di realtà” (Ego) e svalutando (a mio avviso in modo esagerato) la forza creativa e generativa (e non sempre e solo dissipativa, dissolutiva e, quindi, distruttiva) delle pulsioni (Es).

In altre parole ancora: l’essere umano per mantenersi vivo deve indubbiamente prendere atto della Realtà, ma senza mai perdere contatto col suo mondo pulsionale, che talvolta lo spinge ad osare, a forzare la presunta realtà.

Laddove un eccesso di “realismo” castrerebbe inutilmente (mi verrebbe di dire sadicamente) i suoi desideri, mortificandone non solo il diritto al piacere, ma anche risorse e potenzialità.

2. Per quanto riguarda il secondo punto occorre a mio avviso fare una netta distinzione tra il “principio di realtà” (che fonda l’Io) e quello che io definirei il “pensiero comune” (oggi potremmo chiamarlo anche “mainstream”), che fonda il Super-Io.

Una corretta coscienza deve a mio avviso tener conto della realtà, non può prescinderne; in alcuni casi quindi deve sacrificare, in tutto o in parte, le proprie spinte e aspettative pulsionali.

L’alternativa è il godimento mortifero, di cui parlava Lacan, mortifero perché ha come esito fatale la dissipazione, se non la vera e propria dissoluzione, della psiche.

Una corretta coscienza individuale altresì non può non confrontarsi con il “pensiero comune”, quello prevalente in un determinato contesto antropologico, sociale, culturale e storico; l’alternativa sarebbe il delirio, la farneticazione e, in ultima istanza, l’ostracismo, se non il totale isolamento sociale.

Ma non ne può neanche essere acriticamente dipendente, con l’esito di diventare inautentica, nel senso heideggeriano del termine (“così si dice! così si pensa!); rinunciando alla propria autonomia e indipendenza di pensiero e di agire, in nome del confortevole conformismo del gregge.

Ci sono casi, situazioni, in cui la coscienza deve avere il coraggio di affermare il proprio desiderio (le proprie istanze pulsionali, quelle che affondano nell’Es) e non reprimerli: quando cioè essi non sono in (vero) contrasto col “principio di realtà” (Io); e anche a costo di andare contro il “pensiero comune”, prevalente (Super-Io).

In questi casi, forse, l’Io patirà un certo grado di sofferenza dovuta all’ostracismo e all’emarginazione sociali, ma ne guadagneranno la sua creatività e vitalità, il suo spirito di indipendenza e di autonomia, che sono e saranno sempre segni inequivocabili di una buona salute psichica, allo stesso livello del senso (necessario) di realtà.

© Giovanni Lamagna

Negazione della differenza e omosessualità.

Nel libro “la Legge della parola” (2022 Einaudi; pag. 58-59) Massimo Recalcati così scrive:

Ripudiando la via lunga del pensiero, il soggetto della violenza appare trascinato verso l’illusione incestuosa di una totalizzazione compiuta con la Cosa.

E’ quello che secondo Freud possiamo vedere in atto nell’omicidio, nel cannibalismo e nell’incesto quali forme estreme di negazione dell’alterità dell’Altro.

Queste tre esperienze condividono infatti come unico denominatore la spinta della negazione della differenza: nell’omicidio attraverso l’eliminazione fisica dell’esistenza dell’Altro, nel cannibalismo mediante la sua incorporazione e, infine, nell’incesto attraverso un movimento di riunificazione senza scarti con la nostra origine.

In tutte e tre queste situazioni si verifica un movimento di assimilazione o di negazione dell’alterità dell’Altro.

Ecco perché secondo Freud il programma di ogni Civiltà si impernia sull’edificazione di tre fondamentali interdizioni simboliche che impediscano omicidio, cannibalismo e incesto.

La trasgressione di questi divieti trascinerebbe il soggetto fuori dalla Legge degli uomini, gettandolo in quel campo desertico che Lacan ha definito come “godimento mortale” dove la vita umana si dissolve in una regressione all’indifferenziato.

Condivido in buona sostanza questa riflessione.

Che però mi insinua un dubbio, che diventa, automaticamente, una domanda: all’elenco delle tre esperienze, che, secondo Freud, Lacan e lo stesso Recalcati, tendono a negare la differenza dell’Altro, non se ne dovrebbe – seguendo il filo logico del loro ragionamento – aggiungere una quarta: quella omosessuale?

Non c’è, infatti, a fondamento (anche) dell’esperienza dei rapporti omosessuali la negazione dell’Altro come differenza, un bisogno (a suo modo incestuoso) di riconoscersi nell’Altro uguale a sé e una difficoltà ad entrare in relazione con il diverso da sé?

Qui ricordo, ad avvalorare questo mio dubbio e questa mia domanda, che una certa lettura psicoanalitica dell’omosessualità già in passato avevo fatto risalire questo orientamento sessuale ad un rapporto incestuoso più o meno latente col genitore del latente,genitore,sesso opposto.

Cosa che avrebbe comportato la sacralizzazione di questa figura, con la conseguenza di inibire successivamente il rapporto sessuale con persone di questo stesso sesso e orientare lo spostamento dell’interesse libidico verso persone del proprio sesso.

Ricordo benissimo che Cesare Musatti, padre della psicoanalisi italiana, dava una tale lettura e interpretazione della omosessualità di un suo contemporaneo, personalità molto conosciuta della cultura italiana; sto parlando di Pier Paolo Pasolini.

Di Pasolini era, infatti, ultra-noto il rapporto di grande amore e intimità che lo legava alla madre, alla quale sono dedicate pagine indimenticabili e molto poetiche dello scrittore friulano; rapporto che sembrerebbe avvalorare la tesi di Musatti.

Ovviamente manco lontanamente mi passa per la mente di accostare – dal punto di vista della psicopatologia e meno che mai dal punto di vista della criminologia – l’omosessualità ad esperienze quali l’omicidio, il cannibalismo o l’incesto.

In questi tre casi ci troviamo senza ombra di dubbi in presenza di fenomeni non solo deprecabili, ma da giudicare e condannare anche sotto l’aspetto giuridico e penale; ci troviamo in altre parole di fronte a veri e propri crimini, più o meno gravi.

Sicuramente, invece, nel caso dell’omosessualità ci troviamo di fronte a un’esperienza che non ha nulla di deplorevole né sul piano etico né, tantomeno, sul piano giuridico penale.

E, però, sulla base del ragionamento che fa Recalcati, mi chiedo se non siano da riscontrare nell’esperienza dell’omosessualità elementi, fattori psicologici che sanno di chiusura, di blocco, di mancato sviluppo della libido.

Come, d’altra parte, sono, con tutta evidenza, da riscontrare, a mio avviso, (e qui l’accostamento può risultare utile) nell’esperienza della masturbazione; la quale certamente non ha nulla di riprovevole sul piano etico e meno che mai ovviamente (dovrebbe essere persino superfluo rimarcarlo) su quello giuridico.

E, però, altrettanto certamente, l’atto masturbatorio rappresenta una “sconfitta” o, quantomeno, una deviazione surrogatoria, sul piano psicologico del naturale istinto dell’uomo ad accoppiarsi sessualmente con un suo simile.

Tanto è vero che esso non può fare a meno (solitamente) di accompagnarsi a fantasie e a desideri di accoppiamento, seppure solo virtuale.

La solitudine in cui si svolge l’atto sessuale masturbatorio è la negazione del fine stesso a cui tende naturalmente l’istinto sessuale, che è quello dell’accoppiamento, della “coniunctio”, e non del soddisfacimento solitario.

L’atto masturbatorio è in fondo – come ben sa chi ha vissuto e vive tale esperienza – solo un triste e malinconico soddisfacimento surrogatorio dell’istinto e del desiderio sessuale, che tendono per loro natura all’accoppiamento, al congiungimento e all’unione di due corpi.

Tanto è vero che viene seguito in genere da un senso (più o meno profondo) di frustrazione e non di appagamento.

Per cui il fatto che sia sciocco, ancora oggi, emettere un giudizio etico sul fenomeno della masturbazione (come pure, invece, si è fatto per secoli, anzi millenni, e ancora oggi si fa presso alcune tradizioni culturali, soprattutto religiose), non vieta né impedisce una sua valutazione sul piano psicologico, come fenomeno tipicamente adolescenziale, quindi regressivo (o tutt’al più surrogatorio), se vissuto in età adulta.

Mi rendo conto che qui avanzo – almeno come ipotesi interpretativa di un’esperienza come l’omosessualità – un ragionamento di questi tempi molto poco politically correct.

Ma la mia onestà intellettuale me lo impone e perciò lo faccio anche a costo di attirarmi – come prevedo – una montagna di critiche.

Pronto altresì a sciogliere i miei dubbi e a rivedere queste mie analisi di fronte ad argomenti contrari e inoppugnabili, che dovessero risultare da un eventuale confronto con tesi opposte.

© Giovanni Lamagna

Laddove è il tuo tesoro là sarà il tuo cuore.

La frase del Vangelo “laddove è il tuo tesoro là sarà il tuo cuore” potrebbe oggi essere riscritta così, con linguaggio più moderno, potremmo anche dire con termini freudiani: “laddove è il tuo tesoro là saranno il tuo eros, la tua libido”.

Il nostro eros, la nostra libido vengono, infatti, naturalmente, istintivamente investiti in maniera proporzionale sulle cose che hanno più o meno importanza per noi, sulle cose (oggetti, persone, azioni, attività…) a cui diamo più o meno peso e valore.

© Giovanni Lamagna

Sull’anima

L’anima non è la mente.

O, quantomeno, non si riduce alla mente.

La mente è solo una parte dell’anima.

Il termine del greco antico che meglio esprime il concetto di “anima” è “ψυχῇ”.

E il termine moderno che meglio lo esprime è la traduzione del termine greco antico, cioè “psiche”.

Ora la psiche comprende senz’altro la mente (la “φρήν”, cioè l’intelletto, la ragione), ma comprende anche le emozioni, i sentimenti (il “πάθος”) e, persino, gli istinti, le pulsioni di base (la “libido” freudiana).

© Giovanni Lamagna

Chi si interroga sul significato e il valore della vita è perciò stesso un nevrotico?

Freud, in una lettera a Marie Bonaparte, scrisse: “Nel momento in cui l’uomo si interroga sul significato e sul valore della vita, egli è malato, dato che oggettivamente non esiste nessuna delle due cose; col porre questa domanda uno sta semplicemente ammettendo di avere una riserva di libido insoddisfatta provocata da qualcos’altro, una specie di fermentazione che ha condotto alla tristezza e alla depressione.” (S. Freud; “Lettere 1873-1939”; Boringhieri, Torino 1960, pag.402).

Cosa pensare di fronte ad un’affermazione così drastica e lapidaria?

Personalmente penso che Freud abbia in parte ragione e in parte torto.

Ha ragione perché effettivamente, forse, l’uomo sano, cioè l’uomo non afflitto da nevrosi, non si fa di queste domande. E non ha motivi per farsele.

Perché, infatti, un uomo contento di vivere, soddisfatto della vita che conduce, si dovrebbe chiedere quale valore e significato ha la vita per lui?

Essa li ha e basta: la vita per lui ha valore e quindi significato; egli non ha bisogno di ricercarli in un altrove che non sia la sua stessa vita.

E però Freud, quando scrive le cose di cui sopra, per me ha anche torto.

Perché è vero che il valore e il significato della vita non sono da ricercare in un altrove, fuori della vita; ma non è affatto vero che la vita non abbia alcun valore e significato, come sostiene invece Freud.

Infatti, almeno per l’uomo contento e soddisfatto della sua esistenza, questo valore e questo significato – come ho già detto – stanno nella vita stessa.

D’altra parte non riesco a credere che Freud potesse immaginare un uomo sano, senza “una riserva di libido insoddisfatta”, quindi alieno da tristezza e depressione significative e importanti, che non desse valore e significato alla propria vita.

Inoltre questa idea (dell’uomo dalla libido pienamente soddisfatta, quindi ricco di joie de vivre) è più una categoria astratta e ideale che una situazione reale.

Freud stesso – che ha vissuto la sua vita a contatto continuo e profondo con la sofferenza intima degli altri (dei suoi pazienti) e al quale non sono mancate le sofferenze anche atroci nel corso della sua stessa vita – sicuramente ne era del tutto consapevole.

E allora come poteva non essere ugualmente consapevole che all’uomo – di fronte al dolore e al vero e proprio senso di estraniazione e di alienazione che egli può provare (anche spesso) nel corso della sua vita – viene spontanea, naturale e frequente porsi la domanda: che senso e significato ha la mia vita?

Che è poi la domanda – o almeno una delle domande – da cui nasce la filosofia.

A meno che Freud non considerasse la filosofia stessa una manifestazione di malattia, di nevrosi.

Cosa che non è da escludere, come ci testimonia Ludwig Binswanger nel suo libro “Ricordi di Sigmund Freud”: per Freud “la filosofia non è che una delle più acconce forme della sublimazione della sessualità rimossa”.

E, però, viene da chiedersi: la sublimazione (certamente necessaria per fare filosofia) è sempre segno di nevrosi e malattia?

Se fosse così, Freud sarebbe egli stesso un malato nevrotico (e anche piuttosto grave), visto che il suo pensiero e le sue scoperte sull’animo umano possono a buon diritto e con piena legittimità rientrare e trovare una collocazione non di poco rilievo nella storia della filosofia, di cui la psicologia come disciplina (e, quindi anche la psicoanalisi) è figlia.

Per concludere: sono portato a pensare che Freud nella lettera a Marie Bonaparte, dalla quale siamo partiti, si sia lasciato andare ad un’affermazione paradossale, per estremizzare un concetto.

Ma che non fosse neanche lui stesso del tutto convinto di quello che stava affermando, negando o meglio svalutando il senso di domande che ciascuno di noi si è posto e si pone (anche di continuo) nel corso della sua vita.

E che forse (o senza forse) lo stesso Freud si sarà posto più volte nel corso della sua.

Ora è vero che, almeno in una qualche misura, siamo tutti nevrotici. E su questo concordo pienamente. Non penso, tuttavia, che lo siamo perché ci poniamo domande di questo tipo, sul senso e sul significato della vita.

Anzi, penso esattamente il contrario: che sono proprio gli uomini che non si sono mai posti e mai se le pongono queste domande ad essere i nevrotici più gravi.

© Giovanni Lamagna