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Morale sessuale.

La morale sessuale della maggior parte delle persone è figlia della pigrizia, del conformismo, delle convenzioni, del quieto vivere, delle paure e dei tabù, della povertà di fantasia e della scarsa immaginazione.

È, insomma, a mio avviso, figlia della loro miseria emotiva, sentimentale, intellettuale e spirituale in senso lato.

Altro che virtù: la virtù c’entra ben poco!

Se fosse figlia della virtù, sarebbe accompagnata dalla gioia di vivere e, quindi, dall’allegria, dall’entusiasmo, dalla vitalità, dalla pace interiore ed esteriore.

E, invece, io vedo ben poche di queste “qualità” in giro tra le persone con le quali vengo in contatto, in maniera più o meno intima e profonda.

© Giovanni Lamagna

Eros è figlio di Penia.

L’amore (parlo qui di quello specifico amore che è l’amore erotico) dura fin quando nell’altro rimane un residuo di incognito, di sconosciuto, financo di mistero per me.

Ovverossia una zona/territorio che mi resta ancora da esplorare, qualcosa che ancora mi manca, un che non ancora diventato “mio”.

Quando l’altro è diventato per me una carta del tutto conosciuta, un territorio di cui non ho più nulla da esplorare, perché mi è oramai totalmente noto, l’eros fatalmente appassisce.

E, nel migliore dei casi, diventa altra cosa: amore fraterno, se non addirittura materno o paterno (ovviamente in senso simbolico).

Eros è figlio di Penia, la dea che, nella mitologia greca, personificava la povertà e il bisogno.

© Giovanni Lamagna

Pensiero radicale e pensiero superficiale.

La maggior parte delle persone di fronte alla prospettiva di dover pensare (parlo qui non del pensiero superficiale, che è dato a tutti, ma del pensiero radicale, che si pone le domande sui fondamenti) prova un senso di vertigine e se ne ritrae.

Forse per questo i pensatori radicali non sono molto amati, anzi spesso sono osteggiati e perfino perseguitati.

Perché provocano disagio, imbarazzo, mettono gli altri di fronte alla povertà dei loro ragionamenti, li costringono a guardare nel profondo, l’abisso dal quale la maggioranza degli uomini invece fugge, preferisce tenersi lontana.

© Giovanni Lamagna

Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna

Ricchezza, povertà, sobrietà (2).

Io auspico (e mi batto per) una società nella quale non ci siano più né ricchi né poveri, ma ci sia una eguaglianza sostanziale (e non solo formale), senza grosse differenze di reddito, tra i suoi membri.

Auspico anzi (e mi batto per) una società nella quale la ricchezza non sia più il valore e l’ambizione dominanti delle persone che ne fanno parte, ma sia egemone, invece, il valore culturale ed etico della sobrietà.

Come ci ha insegnato, in maniera esemplare, José Mujica, Presidente della Repubblica dell’Uruguay dal 1° marzo del 2010 al 1° marzo del 2015.

La rivoluzione necessaria è, quindi, per me non solo economica e sociale, ma anche (anzi prima di tutto) culturale.

© Giovanni Lamagna

Perché alcuni uomini sono fortemente interessati alla vita spirituale, mentre altri non ne provano alcun bisogno?

Nel suo interessantissimo libro “I quattro maestri” (2020; Garzanti), Vito Mancuso a pag. 173 si pone le seguenti domande, che a me sembrano di estremo interesse: “… che cosa portò il giovane Siddhartha a lasciare il ricco palazzo del padre per recarsi nella foresta a cercare la liberazione? Che cosa fa sì che anche oggi alcuni esseri umani vogliano vivere in modo più autentico e, per realizzare questo loro desiderio, si rivolgono alla spiritualità, mentre altri non avvertono nessun bisogno di salire sulla ruota del Dharma e stanno benissimo sulla ruota dell’esistenza?

In altre parole che cosa spinge la maggior parte degli uomini a vivere “nel mondo di Nietzsche”, che “è un mondo senza evoluzione e senza trascendenza… un mondo senza orientamento morale… dove tutto è al di là del bene e del male, un mondo dove non ha senso operare per la propria liberazione perché non vi è nessuna possibilità di liberazione ma solo l’eterno ritorno della medesima condizione di prigionia (o di beatitudine)” e altri uomini (pochi) ad uscire (o almeno provare ad uscire) dalla ruota dell’eterno ritorno dello stesso per cercare la propria crescita interiore, spirituale?

A queste domande Mancuso dà la seguente risposta: “A meno di non ammettere influssi soprannaturali (come fa il cristianesimo che parla di Spirito santo e di grazia divina), tale energia può venire solo dalla medesima fonte che fa girare la ruota dell’esistenza.

E si pone subito dopo un’altra domanda: “… che cosa fa girare la ruota dell’esistenza?

A cui dà questa risposta: “La voglia di vivere, il desiderio di esistere, il conatus essendi, direbbe Spinoza.

Che a me non soddisfa, in quanto la voglia di vivere, il desiderio di esistere, il conatus essendi spinoziano, a me sembra muovono sia coloro che si adattano rassegnati all’eterno ritorno, alla ripetizione coattiva dello Stesso, che coloro i quali provano a spezzare questa catena, ad uscire dall’eterna ripetizione, a rinnovare, ricreare se stessi, anche se a partire da una condizione data, che è stata data loro in consegna e di cui essi non sono né padroni né autori, sebbene dunque – potremmo dire – in una condizione di non assoluta ma limitata e relativa libertà.

La risposta di Mancuso, quindi, non risolve per me il problema da lui posto del perché alcuni uomini (la grande maggioranza) prendono una certa strada, quella della eterna ripetizione dello Stesso, mentre altri (pochi) prendono la strada della evoluzione e della crescita spirituale.

Sento perciò il bisogno di cercarne un’altra.

Intendiamoci, per rispondere a questa domanda, manco per me valgono le categorie cristiane dello Spirito santo e della grazia divina, nel senso che manco io credo a chiamate di natura soprannaturale che spingerebbero alcuni sulla “buona via”, mentre altri (magari pure “chiamati”, ma non “eletti”, a voler riprendere due termini evangelici) sarebbero destinati alla “perdizione”, ad una vita senza salvezza.

Io propendo per una risposta di natura del tutto laica: la direzione che ciascuno di noi prende nella vita (mi riferisco qui ovviamente alla direzione spirituale) dipende dal contesto nel quale nasce e cresce, soprattutto dal grado e dal tipo di amore che riceve, dall’educazione e dalla formazione che gli viene impartita, dalle opportunità (fisiche, economiche, sociali, culturali…) che la vita gli offre, soprattutto dalle persone che incontrato nel corso del suo cammino, oltre che (perché anche questa probabilmente entra in gioco) da una qualche predisposizione congenita.

Da questo punto di vista (ma solo da questo punto di vista) ritengo che possa essere allora recuperato persino il concetto di “grazia”, anche se la grazia come la intendo io è lontanissima dalla grazia che intende il Cristianesimo.

La grazia cristiana, infatti, dipende totalmente da un intervento divino, quindi extra-terreno, del tutto imperscrutabile a noi mortali, con caratteristiche e tratti del tutto discrezionali, che potremmo definire addirittura capricciosi, se ciò non offendesse la sensibilità religiosa dei (cosiddetti) “credenti”.

La grazia come la intendo io è, invece, tutta legata a fattori terreni, di natura biologica, psicologica, relazionale, sociologica, che scienze quali appunto la biologia, la psicologia, la sociologia potrebbero ricostruire perfettamente o almeno per grandi linee, se potessero analizzare l’organismo e la storia del soggetto raggiunto o meno dal fenomeno “grazia”.

Da questo punto di vista il concetto di “grazia”, come la intendo io, è assimilabile al (se non proprio identificabile col) concetto di “caso”.

Che cosa, infatti, può spiegare perché alcuni individui nascono in luoghi dove regnano benessere e pace e altri in luoghi dove predominano povertà e guerra, alcuni nascono in famiglie sane e amorevoli e altri in famiglie sbandate e disamorate, alcuni nascono perfettamente sani ed altri molto malati; a voler indicare indicare solo tre dei molteplici fattori che influenzano profondamente la nostra storia personale?

Che cosa lo può spiegare se non la pura (e capricciosa) casualità?

© Giovanni Lamagna

Ricchi e poveri.

A mio avviso si può essere benestanti (attenzione, non ricchi, ma bene-stanti, nel senso letterale di “stare bene” dal punto di vista materiale) ed essere poveri spiritualmente, cioè distaccati dai beni materiali che si possiedono.

Come si può essere poveri materialmente e, allo stesso tempo, non esserlo spiritualmente.

Ci sono, infatti, anche poveri che sono egoisti ed attaccati a quel pochissimo che possiedono.

In altre parole, povertà materiale e povertà spirituale non sono affatto sinonimi, non sono realtà necessariamente equivalenti.

Invece, giammai un ricco può essere povero spiritualmente.

Se lo fosse, infatti, darebbe gran parte delle sue ricchezze ai poveri.

E, quindi, non sarebbe più ricco.

Ricchezza e povertà spirituale (nel senso di distacco dai beni materiali) sono realtà assolutamente antitetiche, tra loro stridenti, contraddittorie.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Qui rido io” di Mario Martone.

L’ultimo film di Mario Martone, “Qui rido io”, è un bel film, quello che si dice di solito “un film riuscito”.

Analizza a fondo la figura di Eduardo Scarpetta, attore e commediografo, il massimo esponente del teatro napoletano nei decenni a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, erede del grande successo del suo maestro Antonio Petito.

Ma, a pensarci bene, la figura di Scarpetta è un pretesto che Martone utilizza per indagare da un lato le contraddizioni che caratterizzano – chi più e chi meno, chi in un modo chi in un altro – l’animo di ogni uomo, dall’altro il clima culturale e politico dell’Italia in generale e di Napoli in particolare agli inizi del 900.

Per quanto riguarda Scarpetta viene fuori innanzitutto un uomo dalla vis artistica geniale, straripante, molto sicuro di sé, perché consapevole del suo talento sia di commediografo che di attore, ma enormemente accentratore, tendente quindi a schiacciare gli altri componenti della sua compagnia, compresi i figli.

E poi grande, forse persino assatanato, amante delle donne, alcune delle quali faceva vivere (praticamente convivere) nella sua stessa casa o nelle immediate adiacenze, come in una specie di grande comune; ma allo stesso tempo indifferente, quasi inconsapevole delle dinamiche dolorose che i suoi pluriamori scatenavano tra le numerose amanti e i figli (ancora più numerosi) da loro avuti.

Ancora: estremamente generoso, grazie ai grandi guadagni accumulati, coi componenti della sua famiglia allargata, ma allo stesso tempo estremamente tirato, taccagno, spilorcio, con gli attori della sua compagnia, i quali si lamentavano tutti dei miseri compensi che da lui percepivano.

Infine, di Scarpetta viene descritta molto bene la parabola umana ed artistica: dall’immediato, rapido successo (la maschera da lui inventata e interpretata, quella di Felice Sciosciammocca, arriva a soppiantare quella di Pulcinella, portata in auge pochi decenni prima da Antonio Petito) fino al progressivo tramonto, umano e professionale.

Dovuto in parte alla nascita e al successo del grande varietà e del cinematografo, in parte ad una causa intentatagli con l’accusa di plagio da Gabriele D’Annunzio, che ne paralizzò l’attività per tre anni, dal 1906 al 1908.

Accusa da cui egli seppe però difendersi benissimo, anche grazie all’appoggio che gli fornì Benedetto Croce, e dalla quale alla fine di un tormentato processo fu completamente scagionato, con una sentenza del tribunale di Napoli che all’epoca fece clamore.

Nel film – dicevo all’inizio – viene descritto anche, seppure sullo sfondo della vicenda umana ed artistica di Eduardo Scarpetta, il clima culturale e politico dell’Italia e in modo particolare di Napoli tra la fine dell’800 e gli inizi del 900.

Un clima che potremmo definire da “belle epoque”, dove la spensieratezza, il divertissement, l’allegria, la comicità, la risata, lo sberleffo, la battuta sarcastica e dissacrante, tipici del teatro di Scarpetta, ma non solo di Scarpetta, tendono se non proprio a coprire e rimuovere, quantomeno a sminuire il dramma e perfino le tragedie della povertà diffusa, che diventava vera e propria miseria nel popolino.

A questo clima cercavano di reagire, almeno qui a Napoli, personaggi quali Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, Roberto Bracco, che contestavano quelle che consideravano evasioni, alienazioni, e nelle loro poesie, canzoni e commedie volevano far emergere i drammi e le tragedie, soprattutto la povertà e la miseria del popolo; e, quindi, si ponevano in antagonismo a Scarpetta.

Anche se poi non si capisce bene perché (nel film questo aspetto non viene chiarito), nella tenzone legale contro l’attore commediografo, abbiano colluso e si siano alleati con un personaggio come Gabriele D’Annunzio, snob, dandy, amante del lusso e della bella vita, lontanissimo quindi dalla condizione della povera gente, che non solo ignorava, ma forse disprezzava finanche.

Nel film ha particolare importanza la colonna sonora, costituita da molte delle più belle canzoni napoletane di ogni tempo, a cominciare da quelle classiche di fine 800/inizi 900 a quelle più recenti degli anni 50 e 60; come a voler sottolineare (forse) una continuità tra il passato e il presente di Napoli, città che fa fatica, molta fatica, ad uscire dai suoi tradizionali cliché.

Bella e convincente l’interpretazione di Toni Servillo, nei panni del protagonista Eduardo Scarpetta, che egli rende magnificamente. Ma bella e convincente tutta la compagnia di attori, da cui Servillo è circondato, tra i più importanti del teatro napoletano e del cinema italiano.

Ottima la regia, come quasi sempre, di Mario Martone, mai banale, sempre attento alle inquadrature più efficaci, ai piccoli particolari della recitazione, alla colonna sonora, alla resa emozionale della storia senza mai scadere nel sentimentalismo e nella retorica.

© Giovanni Lamagna

Ricchezza, povertà, sobrietà

Io sono contro la esaltazione della ricchezza.

Ma sono anche contro il pauperismo, cioè contro la esaltazione della povertà, come ideale di vita.

Una cosa, infatti, è la povertà spirituale, intesa come virtuoso distacco dai beni materiali.

Altra cosa è la povertà come condizione materiale, intesa come penuria di beni, anche quelli necessari a condurre una vita dignitosa per un essere umano.

Tra la ricchezza e la povertà io non scelgo nessuna delle due.

Per me sono entrambe condizioni negative, da sfuggire, non certo da perseguire.

Io scelgo la sobrietà.

© Giovanni Lamagna

Povertà e ricchezza (2)

Povertà e ricchezza sono entrambe condizioni deprecabili.

La povertà perché ti impedisce una vita dignitosa.

La ricchezza perché ti fa vivere una vita alienata.

© Giovanni Lamagna