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Solitudine,isolamento, compagnia.
Io sto bene da solo; anzi, in certi momenti, preferisco più stare da solo che in compagnia.
Ma non sono certo contento quando la solitudine diventa troppo prolungata.
Quando cioè la solitudine corre il rischio di trasformarsi in isolamento, che è altra cosa dalla solitudine.
La solitudine, infatti, si sceglie; l’isolamento si subisce.
Dopo un po’ che sono stato da solo (e, magari, ci sono stato pure bene) è inevitabile che anch’io cerchi compagnia.
Naturalmente una buona compagnia, non una qualsiasi compagnia.
Morale della “favola” (almeno per me): la solitudine fa bene entro certi limiti, fa male quando supera certi limiti.
Ovviamente i limiti di cui parlo qui sono del tutto soggettivi.
© Giovanni Lamagna
Ciò che resta del messaggio di Gesù.
Certamente Gesù, quando ha prefigurato la fine imminente di questo mondo e l’avvento di un altro mondo, quello che lui chiamava “Regno di Dio”, si è sbagliato.
Ed anche di grosso.
Il Regno di Dio che lui aveva immaginato stesse per giungere – come del resto lo avevano immaginato altri profeti prima di lui; ultimo il suo quasi coetaneo e cugino Giovanni il Battista – non solo non giunse prima che passasse la sua generazione, come egli aveva preannunciato, ma non è ancora giunto a distanza di venti secoli dalla sua morte.
La sua visione apocalittica ed escatologica era figlia molto probabilmente di una personalità disturbata, se non proprio folle, vittima di qualche paranoia o di qualche allucinazione.
E, tuttavia, non sempre i “pazzi” – come ci ha spiegato la recente e più avanzata psichiatria – dicono (solo) cose infondate, senza senso, perciò folli; spesso i pazzi, nella loro follia, vedono cose che i cosiddetti sani non riescono a vedere.
Allora cosa resta (se resta) della “follia” di Gesù? C’è qualcosa di essa che possiamo salvare, perché è sana, anzi più sana della cosiddetta “sanità”, che spesso altro non è che conformismo benpensante, “normalità” intesa come banale mediocrità?
Sì, a mio avviso sì!
La possiamo ritrovare nella frase “il regno di Dio è dentro di voi”.
Qui Gesù non parla di un Regno di Dio di là da questo mondo, la cui venuta avrebbe comportato la fine (tra “pianto e stridore di denti”) di questo mondo.
No, qui Gesù parla di un “regno” che ciascuno di noi può costruire già dentro di sé, qui e ora, convertendosi ad un altro modo di pensare e di agire, ad un altro modo di vivere, diverso da quello comune, prevalente in questo mondo.
Portando quindi, su questa terra, un altro mondo: un mondo di attenzione, ascolto, compassione, solidarietà, pace, giustizia, amore verso l’altro (gli altri).
Al posto del mondo attuale, nel quale prevalgono, invece, indifferenza, insofferenza, divisione, isolamento, guerra, ingiustizia, odio.
Ciò che rimane del messaggio di Gesù, della sua “buona novella”, è l’annuncio che “un altro mondo è possibile”, a cominciare dal cuore di ognuno di noi.
E già su questa terra, in questo tempo mortale.
Senza bisogno di attendere “un altro Regno”, un tempo futuro ed eterno; senza bisogno di passare prima per la morte ed una (improbabile) resurrezione.
No, ci dice Gesù (ed è questo il senso più profondo e vero del suo messaggio, quello che è rimasto nel corso dei secoli e che a mio avviso rimarrà anche per i secoli futuri) “il regno di Dio è dentro di voi”, è “già” dentro di voi.
A condizione, però, che vi convertiate alla legge dell’amore universale: “Ama il prossimo tuo come te stesso”; anzi (e persino) “Amate i vostri nemici”.
Un vero discorso… dell’altro mondo!
Da applicare, realizzare, però, già in questo mondo.
© Giovanni Lamagna
Recensione del film “Hammamet” di Gianni Amelio
Ieri pomeriggio sono stato a vedere “Hammamet”, l’ultimo film di Gianni Amelio. Esprimo subito e in maniera sintetica l’impressione fondamentale: è un bel film, che si lascia vedere bene, che intriga e, a tratti, perfino commuove.
Lo confesso, sono andato a cinema piuttosto prevenuto: avevo letto nei giorni precedenti qualche articolo di giornale, un’intervista a Favino, qualche dichiarazione dello stesso Amelio e mi ero fatto l’idea che il film, sotto, sotto, avesse un qualche intento riabilitativo, se non addirittura agiografico, nei confronti di Bettino Craxi.
Io, all’epoca, non solo non avevo condiviso (quasi) niente dell’uomo politico-Craxi, ma – diciamolo pure – l’avevo anche cordialmente disprezzato sul piano umano. Perché incarnava l’esatto contrario del mio politico ideale e della mia stessa idea di uomo. Questo, credo, spiegasse bene lo stato d’animo con cui mi sono, dunque, recato a cinema.
Dopo aver visto il film, posso dire, invece, che le mie prevenzioni erano nel complesso del tutto infondate. Perché il film non racconta in primo luogo il Craxi politico, ma racconta soprattutto il Craxi oramai uscito dalla scena politica, distante dall’Italia e, per giunta, molto malato.
Racconta la storia degli ultimi sette mesi di vita di un uomo, che vive oramai isolato, circondato solo dall’affetto dei suoi familiari (soprattutto da quello devoto della figlia e da quello del nipotino, che lo venera come un comandante militare; la moglie è presente, ma è quasi come se non ci fosse: evidentemente non aveva mai avuto un grande ruolo affettivo nella sua vita), una persona ripiegata sui suoi ricordi, misti di nostalgia e di rancore, in lotta sempre più disperata con varie malattie, che ne minano ogni giorno di più la salute.
Il Craxi politico c’è (eccome, se c’è!), ma è sullo sfondo. In primo piano c’è il Craxi uomo, con il suo gradissimo dramma.
Un uomo sconfitto, che non si fa ragione della sua disfatta, che si sente anzi vittima di un complotto ordito ai suoi danni, che prova a spiegare le ragioni delle sue scelte, con l’arroganza di un tempo ancora ben viva, che non prova però più vero odio per i suoi avversari (“che coraggio c’è a parlar male degli altri?”), ma solo tanta rabbia.
Un uomo che si addolcisce solo con il nipotino (col quale gioca, come fanno tutti i “bravi” nonni), che vive un rapporto ambivalente con la figlia, un misto di ruvidezza burbera e di quasi languida tenerezza, che ha dei buonissimi rapporti con la comunità tunisina che lo ospita, che si esercita persino in buone azioni con poveri e bisognosi.
Amelio, insomma, ha voluto (a me pare) essenzialmente descrivere la storia di un personaggio famoso (che questo personaggio avesse le sembianze di un noto uomo politico italiano è stato per il regista calabrese quasi solo un pretesto), un personaggio che ha fatto la storia di una nazione, che ha toccato il vertice della gloria e dei riconoscimenti, e poi cade in disgrazia, rotola nella polvere, come prima di lui nella Storia è avvenuto a tanti altri illustri personaggi. E ci è riuscito benissimo.
Il dramma del racconto sta tutto nel raffronto stridente tra ciò che fu (ascesa al potere, gloria, fama, benessere economico, amori…; non a caso il film inizia con le scene del famoso XVI Congresso socialista, nel quale Craxi raggiunse l’acme della sua carriera politica) e la realtà del presente (dopo le condanne giudiziarie, la debacle politica, la perdita del potere, la fuga ad Hammamet in Tunisia, il sostanziale isolamento, la grave malattia…). Ed è reso con grande maestria narrativa.
Per carità (come già accennavo prima) nel film non è assente la dimensione del Craxi politico.
E d’altra parte essa non poteva mancare, perché Craxi era un animale politico fin nel midollo, totus politicus. Ma non poteva mancare, anche per un altro motivo: perché sarebbe venuta meno la tensione narrativa drammatica tra l’uomo politico trionfatore e quello decaduto.
E però la dimensione politica è solo la dimensione seconda, viene cioè dopo quella umana e privata. Nel film hanno dunque la possibilità di emergere con precisione tutte le tesi e le argomentazioni, che Craxi ha sostenuto fino all’ultimo, non solo per difendersi dalle accuse dei giudici, ma anche per rivendicare orgogliosamente la sua storia politica.
E il regista queste tesi e queste argomentazioni non le sposa affatto, come io (un po’ prevenuto) temevo che fosse. Anche se non le contrasta apertamente, quanto meno le dialettizza, attraverso la figura (bella trovata narrativa questa!) del figlio di un ex amico di Craxi (amministratore del partito, morto suicida) che, per capire cosa ha portato il padre a uccidersi, va a trovare il leader socialista per intervistarlo e gli pone molte domande, spesso in aspra polemica con lui.
Io, come è ovvio, mi riconosco pienamente nella posizione di questo giovane, che pone a Craxi domande molto scomode e stringenti, che forse, almeno all’inizio, persino lo odia (tanto è vero che aveva addirittura meditato di ucciderlo) e che però, un poco alla volta, nel corso dei lunghi giorni in cui procede l’intervista (ospite a casa di Craxi) si lascia prendere dall’umana pietà di fronte all’uomo sofferente.
A voler fare una sintesi conclusiva: – Hammamet è un film anche politico, ma non in primo luogo politico; – le tesi politiche (quelle favorevoli a Craxi e quelle contrarie) vengono esposte (ovviamente in forma narrativa) in maniera abbastanza obiettiva e per nulla apologetica; – il film è in primo luogo il racconto della dolorosa vicenda umana di un uomo potente caduto in disgrazia; – probabilmente voleva suscitare umana compassione anche in chi Craxi lo ha vissuto come avversario e anche oggi non ne condivide quasi nulla della storia politica; – se questo era uno degli obiettivi, l’ha raggiunto pienamente: con me, almeno, l’ha raggiunto; è, insomma, un film riuscito.
Una menzione a parte la merita l’interpretazione di Pier Francesco Favino, che è semplicemente strepitosa, magistrale, da grande attore, di statura internazionale.
Giovanni Lamagna
Isolamento e solitudine
2 ottobre 2015
Isolamento e solitudine.
Io penso che non sia bene che l’uomo si isoli dagli altri, che viva in solitudine.
Perché non è naturale né sano che egli stia da solo (Genesi 2, 18).
Penso anche, però, che ciascuno di noi debba essere sufficientemente amico della solitudine per poter stare bene insieme agli altri.
Giovanni Lamagna
Innamoramento e amore.
giugno 2015
Innamoramento e amore.
Un altro equivoco che insorge spesso nelle cose dell’amore – dice Fromm – è quello di confondere l’amore con l’innamoramento.
Questa confusione è un’altra delle ragioni che induce l’idea, piuttosto diffusa tra gli umani, che nelle cose dell’amore non ci sia nulla da imparare, ma che l’amore sia un sentimento del tutto naturale, che sorge spontaneo, che è anzi del tutto connaturato all’animo umano.
Infatti, una delle caratteristiche tipiche dell’innamoramento è che esso sopraggiunge il più delle volte improvviso, quando meno te lo aspetti, come un colpo di fulmine.
E’ un sentimento che ci raggiunge (significativa l’immagine della freccia che ci trafigge il cuore) e non uno stato d’animo verso il quale siamo noi ad andare, a cui ci disponiamo e verso cui ci prepariamo.
E’ una situazione psicologica nella quale siamo sostanzialmente passivi e non attivi, trascinati come una barca dalla corrente di un fiume in piena e non nocchieri padroni del suo timone.
Un’altra caratteristica tipica dell’innamoramento è che esso è un sentimento più o meno di breve durata, destinato in ogni caso a non durare oltre un certo tempo più o meno prolungato.
E che spesso gli uomini lo confondano con l’amore stesso è dimostrato dal fatto che quasi sempre, quando si esaurisce la fase dell’innamoramento, essi usino dire “è finito l’amore”.
Un’altra caratteristica che contraddistingue l’innamoramento dall’amore è che l’innamoramento è un sentimento molto forte, in alcuni casi violento, che procura emozioni molto intense e tipiche, di grande eccitazione ed esaltazione. Mentre l’amore è un sentimento più pacato, più ordinario, a più bassa intensità emotiva.
Solo che, siccome gli uomini in genere sono innamorati dell’innamoramento, perché sono attirati dai sentimenti forti, violenti, intensi, essi non considerano l’amore un sentimento veramente degno, all’altezza dei loro bisogni e delle loro aspettative.
Preferiscono così chiamare amore quello che è semplice innamoramento e non considerare amore quello che non corrisponde all’innamoramento.
Di qui la confusione, l’equivoco, di cui abbiamo parlato finora.
E’ importante dissipare questa confusione, chiarire questo equivoco?
Sì, se non si vuole andare incontro a inevitabili e, magari, continue frustrazioni e delusioni.
L’innamoramento è, infatti, un sentimento molto piacevole e intenso (specie quando – come in genere avviene – si accompagna all’attrazione sessuale), ma destinato fatalmente a durare poco.
E’ un sentimento (forse) necessario per avviare un rapporto, per spingerci gli uni verso gli altri. Se non scattasse dentro di noi questo sentimento, quasi sempre violento e improvviso, forse nessuno di noi riuscirebbe a vincere la pigrizia o la diffidenza che ci inducono a restare chiusi in noi stessi piuttosto che ad aprirci agli altri.
Ma l’innamoramento è anche una forma di infatuazione, se non di vera e propria allucinazione, che (quasi sempre) ci fa vedere nell’altro/a cose che (magari) non ci sono (le qualità, i pregi) e che non ci fa vedere, invece, cose che ci sono (i limiti, i difetti).
E’ un sentimento di tipo proiettivo, che ci fa vedere l’altro/a come ci piacerebbe che fosse, in base alle nostre aspettative, bisogni e desideri, e non come, invece, effettivamente è.
E’ un sentimento la cui intensità, come dice Fromm, segnala più la gravità della nostra solitudine, il nostro bisogno di compagnia, di attaccamento, di dipendenza, che il desiderio (reale e non fantasioso, genuino e non immaginato) di donarsi, darsi, dedicarsi a qualcuno/a.
E’ importante, anzi è necessario, quindi, che dall’innamoramento (che ha una indubbia funzione all’inizio di un rapporto per avviarlo, farlo partire) si esca e si passi ad un’altra fase del rapporto: quella viene definita dell’amore.
Questa fase nuova è caratterizzata innanzitutto da una presa di consapevolezza maggiore di chi è l’altro/a, di chi sono io, coi miei bisogni e i miei desideri.
Con essa finisce la fase dell’infatuazione, in cui vediamo l’altro/a (e anche noi stessi) con occhi un po’ deformati, e inizia una fase in cui vediamo l’altro e noi stessi con occhi un po’ più obiettivi.
In questa nuova fase dell’altro vediamo non solo i pregi e le qualità, ma anche i difetti e i limiti.
E questa evoluzione (è a mio avviso importante segnalarlo) avviene in qualsiasi tipo di rapporto, non solo in quello che siamo solito definire di coppia, il cosiddetto legame erotico.
Accade, ad esempio, anche nel rapporto di amicizia, che, dopo una prima fase di entusiasmi e di attrazione reciproca, vede emergere anche i contrasti e a volte i dissapori, se non i veri e propri conflitti.
Accade, perfino, nel rapporto genitori/figli.
Cosa è, infatti, il sentimento che provano i bambini (in genere) nei confronti dei genitori per una lunga fase (quella dell’infanzia) se non una forma di infatuazione, di allucinazione, di distorsione ottica, dovute alla dipendenza fisica, materiale, oltre che affettiva?
E non accade lo stesso anche nei genitori alla nascita dei loro figli? Se questa fase nei genitori dura meno a lungo, ciò è forse dovuto solo al fatto che i genitori sono persone adulte, quindi non dipendenti materialmente dai figli e meno dipendenti di loro dal punto di vista affettivo.
La fase che segue alla fine dell’innamoramento non ci vede più passivi, cioè mossi da una passione, ma esige che diventiamo attivi, richiede quindi una scelta. Si sceglie, infatti, si decide di amare. Mentre non si sceglie, non si decide di innamorarsi. Si è piuttosto scelti dal sentimento dell’innamoramento.
Ecco perché l’amore è un sentimento (ammesso che sia solo un sentimento) molto più maturo e adulto dell’innamoramento.
Si sceglie, infatti, si decide, di amare l’altro/a, nonostante se ne vedano i difetti, nonostante se ne siano conosciuti i limiti, nonostante che molte sue qualità e molti suoi pregi, che all’inizio ci avevano fortemente attratti, si siano più o meno grandemente ridimensionati ai nostri occhi.
Si sceglie, si decide di amare, perché si prende consapevolezza che in natura, nelle cose umane non esiste la perfezione, che questa è un feticcio, un fantasma, e che la sua ricerca spasmodica e ossessiva ci condannerebbe alla solitudine, a un triste isolamento.
Si sceglie, decide di amare, perché si diventa consapevoli, che l’Altro rappresenta la nostra ombra, che insomma non è mai totalmente Altro, ma è anche una parte di noi. Che, attraverso l’Altro, possiamo entrare in contatto con la parte di noi che è in ombra e, quindi, crescere, evolvere, arricchirci di nuove dimensioni.
Cosa che ci sarebbe impedita, se restassimo prigionieri del nostro narcisismo. Narcisismo che non viene per nulla intaccato dalle esperienze (per quanto molteplici) di innamoramento. Anzi queste semmai lo rinforzano e gli danno alimento ulteriore. Ma può essere messo in crisi e vinto in maniera significativa solo da reali esperienze di amore.
Giovanni Lamagna