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Spunti di riflessione sulla nozione “capacità di intendere e di volere”.

A partire dalle vicende di Angelo Izzo, il mostro del Circeo e di Ferrazzano, e di Alessia Pifferi, la madre che ha fatto morire di stenti la figlia di un anno e mezzo, lasciandola sola per sei giorni.

Qualche pomeriggio fa ho visto su Canale 9 un documentario su Angelo Izzo, il famigerato assassino (molti lo hanno definito “mostro”) del Circeo, in provincia di Latina, e di Ferrazzano, in provincia di Campobasso.

Vi si raccontavano fatti che, seppure molto noti, non finiscono mai di provocare orrore, tanto sono stati feroci, e profondamente turbare, tanto erano e sono inspiegabili alla luce della ragione umana; di quella che consideriamo la “ragione umana”.

E, però – a distanza di tempo da quei fatti, che già (come un po’ tutti, credo) conoscevo abbastanza bene – la cosa che più mi ha colpito (ancora una volta) è constatare da quanta confusione, incertezza, labilità, vaghezza sono avvolti concetti, quali “colpa”, “reato”, “responsabilità”, “malattia mentale”, “normalità”, “follia”, “capacità di intendere e di volere”, “pericolosità sociale”, “pena”, “carcere”, “recupero sociale del condannato a una pena carceraria”, “pentimento”, “redenzione”, “libertà vigilata”, “diritto della comunità ad essere tutelata”.

E, forse (anzi sicuramente), ne ho dimenticato ancora qualcuno.

Nel merito di essi (o di alcuni di essi) vorrei sintetizzare qui brevemente il mio punto di vista.

Nessuno (credo), meno che mai io, mette in discussione che la pena debba avere un valore redentivo oltre che punitivo – anzi più redentivo che punitivo – di chi ha commesso un reato, un qualsiasi reato, anche il più grave ed efferato, come lo furono indubbiamente quelli compiuti da Angelo Izzo.

Una società civile, progredita, ma io direi anche semplicemente umana, non si regge sul criterio della vendetta, sul metro dell’ “occhio per occhio, dente perdente”.

Una società civile, umana, non si pone sullo stesso livello di uno dei suoi membri che esce, si mette fuori dal consorzio umano, perché si abbassa ai livelli della bestia e in certi casi, addirittura, della bestia feroce.

Una società civile resta umana anche di fronte alle peggiori brutalità, anche di fronte al mostro, cioè a colui che si degrada a un livello subumano o disumano.

E, però, questo premesso, credo anche che una società nel suo complesso abbia il diritto di difendersi, di tutelarsi di fronte a quei suoi componenti, che hanno già dimostrato o anche solo sono sospetti (seriamente, fondatamente sospetti) di pericolosità sociale, cioè di poter arrecare danno al corpo sociale o a sue singole parti.

In questo senso i concetti di detenzione o di libertà limitata e molto vigilata non sono per niente in contraddizione con quelli di cura e di recupero sociale.

Di cura, nel caso delle malattie mentali; ovviamente non nei manicomi di famigerata memoria, ma in strutture (meglio, case) appositamente strutturate e organizzate.

Di recupero sociale, nel caso di reati, specie nel caso di reati particolarmente efferati, come lo furono indubbiamente quelli del Circeo e quelli di Ferrazzano.

Altro capitolo in cui vedo regna molta confusione è quello relativo al rapporto tra la malattia mentale, la capacità di intendere e di volere, la conseguente responsabilità penale e il tipo di condanna inflitta nel caso di reato, specie nel caso di omicidio.

A me sembra che in questo campo esercitino le loro professioni dei veri e propri improvvisatori, a volte manifestamente incompetenti; o che addirittura alcune professionalità (quella dei giudici, ad esempio) si arroghino esse stesse competenze o quantomeno valutazioni che non dovrebbero spettare a loro.

Chi può, ad esempio, valutare la “capacità di intendere e di volere” in uno specifico momento, quello in cui si compie un delitto?

Non certo i giudici, che non ne hanno le competenze!

Ma solo dei seri e esperti professionisti della psiche, dotati di accertate capacità diagnostiche, possibilmente, meglio, se in consulto tra di loro; e il loro parere dovrebbe risultare vincolante per i giudici e per le eventuali giurie popolari.

Inoltre, si può sganciare la nozione “capacità di intendere e di volere” (categoria estremamente vaga e generica) da quella di “malattia mentale”, quand’anche questa si manifestasse nella “semplice” (???) forma di “disturbo grave della personalità”?

E se, come nella maggior parte dei casi (a mio avviso, in maniera indubitabile in quelli di cui si parlava nel documentario), non si può separare la prima dalla seconda, che senso ha condannare allora all’ergastolo una persona come Angelo Izzo?

Anzi, metterla in prigione e buttare la chiave, come suggeriva e si augurava – candidamente e nello stesso tempo cinicamente – un giornalista nel documentario di cui sto riferendo?

P. S.

Tali giudizi mi sono tornati alla mente – e trovano per me ulteriori ragioni di conferma – quando ho appreso la sentenza (emessa appena qualche giorno fa) di condanna all’ergastolo di Alessia Pifferi, la madre accusata per l’omicidio della figlia Diana di un anno e mezzo, lasciata a casa da sola per sei giorni e morta perciò di stenti.

Anche in questo caso una perizia psichiatrica (eseguita nel corso del processo dallo “specialista” Elvezio Pirfo) aveva accertato che l’infanticida era capace di intendere e volere al momento dei fatti.

Come se una donna, “cresciuta in assoluto isolamento morale e culturale”; che da piccola aveva subito abusi, era stata vittima di violenza, non era andata a scuola, afflitta da un deficit cognitivo, vissuta senza un lavoro, in condizioni di estrema indigenza, che, non sapendo di essere incinta, quando viene il momento partorisce in un bagno, possa essere considerata “normale” e, quindi, “capace di intendere e volere” mentre commette un delitto.

Mi chiedo: ma dove lo hanno pescato i giudici del tribunale di Milano, che hanno condannato all’ergastolo la signora Alessia Pifferi, questo esimio signor Elvezio Pirfo?

Hanno mica scambiato per uno specialista in perizie psichiatriche il primo passante che hanno incrociato sotto al Palazzo di Giustizia di Milano?

© Giovanni Lamagna

Solitudine,isolamento, compagnia.

Io sto bene da solo; anzi, in certi momenti, preferisco più stare da solo che in compagnia.

Ma non sono certo contento quando la solitudine diventa troppo prolungata.

Quando cioè la solitudine corre il rischio di trasformarsi in isolamento, che è altra cosa dalla solitudine.

La solitudine, infatti, si sceglie; l’isolamento si subisce.

Dopo un po’ che sono stato da solo (e, magari, ci sono stato pure bene) è inevitabile che anch’io cerchi compagnia.

Naturalmente una buona compagnia, non una qualsiasi compagnia.

Morale della “favola” (almeno per me): la solitudine fa bene entro certi limiti, fa male quando supera certi limiti.

Ovviamente i limiti di cui parlo qui sono del tutto soggettivi.

© Giovanni Lamagna

Ciò che resta del messaggio di Gesù.

Certamente Gesù, quando ha prefigurato la fine imminente di questo mondo e l’avvento di un altro mondo, quello che lui chiamava “Regno di Dio”, si è sbagliato.

Ed anche di grosso.

Il Regno di Dio che lui aveva immaginato stesse per giungere – come del resto lo avevano immaginato altri profeti prima di lui; ultimo il suo quasi coetaneo e cugino Giovanni il Battista – non solo non giunse prima che passasse la sua generazione, come egli aveva preannunciato, ma non è ancora giunto a distanza di venti secoli dalla sua morte.

La sua visione apocalittica ed escatologica era figlia molto probabilmente di una personalità disturbata, se non proprio folle, vittima di qualche paranoia o di qualche allucinazione.

E, tuttavia, non sempre i “pazzi” – come ci ha spiegato la recente e più avanzata psichiatria – dicono (solo) cose infondate, senza senso, perciò folli; spesso i pazzi, nella loro follia, vedono cose che i cosiddetti sani non riescono a vedere.

Allora cosa resta (se resta) della “follia” di Gesù? C’è qualcosa di essa che possiamo salvare, perché è sana, anzi più sana della cosiddetta “sanità”, che spesso altro non è che conformismo benpensante, “normalità” intesa come banale mediocrità?

Sì, a mio avviso sì!

La possiamo ritrovare nella frase “il regno di Dio è dentro di voi”.

Qui Gesù non parla di un Regno di Dio di là da questo mondo, la cui venuta avrebbe comportato la fine (tra “pianto e stridore di denti”) di questo mondo.

No, qui Gesù parla di un “regno” che ciascuno di noi può costruire già dentro di sé, qui e ora, convertendosi ad un altro modo di pensare e di agire, ad un altro modo di vivere, diverso da quello comune, prevalente in questo mondo.

Portando quindi, su questa terra, un altro mondo: un mondo di attenzione, ascolto, compassione, solidarietà, pace, giustizia, amore verso l’altro (gli altri).

Al posto del mondo attuale, nel quale prevalgono, invece, indifferenza, insofferenza, divisione, isolamento, guerra, ingiustizia, odio.

Ciò che rimane del messaggio di Gesù, della sua “buona novella”, è l’annuncio che “un altro mondo è possibile”, a cominciare dal cuore di ognuno di noi.

E già su questa terra, in questo tempo mortale.

Senza bisogno di attendere “un altro Regno”, un tempo futuro ed eterno; senza bisogno di passare prima per la morte ed una (improbabile) resurrezione.

No, ci dice Gesù (ed è questo il senso più profondo e vero del suo messaggio, quello che è rimasto nel corso dei secoli e che a mio avviso rimarrà anche per i secoli futuri) “il regno di Dio è dentro di voi”, è “già” dentro di voi.

A condizione, però, che vi convertiate alla legge dell’amore universale: “Ama il prossimo tuo come te stesso”; anzi (e persino) “Amate i vostri nemici”.

Un vero discorso… dell’altro mondo!

Da applicare, realizzare, però, già in questo mondo.

© Giovanni Lamagna

Il desiderio come dovere?

Massimo Recalcati nel suo libro “Contro il sacrificio” (2017 Raffaello Cortina Editore), nel paragrafo intitolato “Il desiderio come dovere” (pag. 113-118), sulla scorta dell’insegnamento ricevuto dal suo maestro Jacques Lacan e, ancor prima, da Freud, mette in correlazione molti concetti (quali quello di sacrificio, etica, desiderio, Legge, fedeltà, infedeltà, godimento, Super-io, Altro, Dio, Padre, Stato, Madre, Famiglia, Natura, Razza, vita, dovere, imperativo, senso, capriccio, vocazione, sofferenza, colpa, trasgressione, peccato, violazione, norme, psicoanalisi, senso di colpa, responsabilità, padronanza, coscienza, inconscio, soggetto, sogni…) facendo molte osservazioni interessanti, ma non sciogliendo però del tutto (almeno a mio modesto avviso) alcuni nodi problematici e lasciando alcune zone d’ombra che sarebbe utile a mio avviso rischiarare.

Voglio qui provare a farlo.

Il paragrafo si apre con il riferimento al principio generale evocato da Lacan di “un’altra etica, non più imbrigliata dai lacci del sacrificio”.

Dico subito che questa esigenza lacaniana mi trova perfettamente d’accordo. Per millenni l’etica delle varie società umane è stata fondata sul principio del sacrificio, in moltissimi casi di un sacrificio fine a se stesso, come valore in sé, quasi masochisticamente inteso.

Sono altresì pienamente d’accordo con Lacan quando afferma che questo fondamento è del tutto arbitrario, quindi insano, e che occorre liberare l’etica da questo imbrigliamento; che occorre perciò una nuova etica.

Per Lacan questa nuova etica si deve fondare “sul proprio desiderio”; il principio fondamentale della nuova etica dovrà essere quello di “non cedere sul proprio desiderio”.

E qui, a mio avviso, nascono le confusioni; o, almeno, le possibili confusioni.

Perché quello di “desiderio” è (come tutti possono intuire) un concetto quantomeno ambiguo.

Per “desiderio” possiamo intendere la pura spinta pulsionale, assimilabile quasi all’istinto, per sua natura sregolato, quindi affine al capriccio.

Inteso in tale senso (e questo è indubbiamente uno dei modi possibili di intendere il “desiderio”) si può fondare su di esso la nuova etica?

Domanda del tutto retorica, perché è a tutti evidente che no, non si può fondare l’etica sul desiderio inteso come puro capriccio: ci sarebbe una contraddizione in termini.

Ma per “desiderio” possiamo intendere anche “la propria vocazione fondamentale” (per utilizzare un’espressione a cui fa ricorso Recalcati) o il proprio “daimon” (per utilizzare un’espressione a cui ricorrevano gli antichi Greci e più volte ripresa da un pensatore come Jung, a voler fare un solo esempio).

E’ a questa seconda accezione di “desiderio” che mi pare faccia riferimento, come è ovvio, Lacan ed è su di essa che egli intende fondare “un’altra etica”, opposta a quella tradizionale, fondata sul “sacrificio” o, meglio, sul “fantasma sacrificale”.

E però, nonostante questa distinzione chiarisca un primo possibile equivoco, non mi pare che tutti gli equivoci e i fraintendimenti possibili siano stati con essa dissipati.

Cosa vuol dire, infatti, ciò che afferma Lacan, con molta drasticità (mi pare): “… propongo che l’unica cosa di cui si possa essere colpevoli, perlomeno nella prospettiva analitica, sia di aver ceduto sul proprio desiderio”?

Che non esiste altra Legge per il singolo soggetto che la Legge del desiderio? Che il proprio desiderio mai e poi mai debba essere posposto e, quindi, in qualche modo, per quanto provvisoriamente o parzialmente, sacrificato?

Ci rendiamo tutti conto (io penso) che, detta così e presa alla lettera, l’affermazione lacaniana, ripresa e condivisa dal suo discepolo Recalcati, sia inaccettabile.

Quale etica può, infatti, porre al centro dei suoi imperativi esclusivamente il soggetto, per quanto nella forma nobilitata della fedeltà alla propria vocazione o “tendenza” o “inclinazione” o “prospettiva” o “propria via” (termini, quelli virgolettati, usati da Lacan)?

Per nessuna etica il soggetto può porsi come assolutamente autoreferenziale, sganciato cioè dall’esistenza dell’Altro o, meglio, degli altri, i quali dal punto di vista etico hanno almeno uguali diritti (oltre che doveri) rispetto a quelli rivendicati dal singolo soggetto.

Allora il problema per me diventa: come si può conciliare la Legge del proprio desiderio, a cui ciascun soggetto è indubbiamente chiamato ad essere fedele, con il rispetto di analogo desiderio presente nell’Altro, nei soggetti altri?

La mia risposta è che la Legge del proprio desiderio non può essere considerata (narcisisticamente, egoicamente) come un assoluto, ma che va sempre e necessariamente conciliata con la Legge del desiderio altrui.

In altre parole il mio desiderio e la sua realizzazione trovano un limite e un argine laddove inizia il desiderio dell’Altro, degli altri.

Il limite, il confine rappresentato dall’altro impongono il sacrificio, perlomeno parziale e provvisorio, del mio desiderio.

E in questo caso si tratta di un giusto e, quindi, necessario sacrificio, che non ha nulla di masochistico e di insano, come nel caso ampiamente descritto sia da Lacan che da Recalcati del cosiddetto “fantasma sacrificale” (su cui non mi soffermo, rimandando alla lettura del libro).

In ultima analisi (e qui valgono alcune “posizioni alla Bataille”, giustamente citato in proposito da Recalcati: ibidem; pag. 100) l’etica umana non può essere fondata su “una concezione meramente edonistico conformistica della vita”: la libertà di affermare e realizzare il mio desiderio finisce laddove incomincia la libertà dell’altro (degli altri) di affermare il suo (i loro).

Ma c’è un altro motivo per cui la Legge del desiderio non può essere posta sic et simpliciter al centro e a fondamento della nuova morale di cui parlano Lacan prima e, sulla sua scorta, Recalcati poi.

Questo secondo motivo è che non tutti i nostri desideri sono poi di fatto realizzabili: i nostri desideri devono, infatti, fare sempre i conti con la Realtà; con la realtà fisico-materiale, innanzitutto, ma anche con la realtà psicosociale nella quale siamo immersi e dalla quale non possiamo mai totalmente prescindere, per quanto vogliamo (giustamente) affermare la nostra autonomia e libertà.

Questa Realtà è uno zoccolo duro con il quale il nostro desiderio deve fare ogni volta i conti, è la Cosa che consente all’Es di diventare Io. E non ha nulla a che fare con il Super-io, dunque con il “fantasma sacrificale”.

Il “fantasma sacrificale”, infatti, ci chiede di rinunciare al nostro desiderio in nome di una Legge che è puro capriccio.

La Realtà, invece, ci chiede di sacrificarlo in nome di una Legge che è scritta nella natura fisica del mondo e in alcune convenzioni psicosociali, che è impossibile trasgredire (almeno oltre un certo limite).

Nel primo caso, se rinunciamo al nostro desiderio in nome del “fantasma sacrificale”, ci suicidiamo psicologicamente; e allora pagheremo la nostra rinuncia, cioè il nostro “tradimento” del desiderio, con “il ritorno del rimosso; il sintomo, la depressione, lo spegnimento della vita e del desiderio stesso o di altre forme di sofferenza delle quali si occupa la clinica psicoanalitica” (ibidem; pag. 113).

Nel secondo caso, se il nostro desiderio pretende di contravvenire alle leggi della natura, corriamo il rischio di suicidarci addirittura fisicamente.

Per fare un esempio estremo ma che rende bene l’idea, se il mio desiderio è quello di volare e allora mi lancio dal balcone di casa, andrò fatalmente a sbattere al suolo con conseguenze più o meno gravi a seconda dell’altezza dalla quale mi sono lanciato.

Allo stesso modo, se il mio desiderio è quello di disobbedire alle leggi dello Stato in cui vivo, devo essere consapevole che subirò conseguentemente delle sanzioni civili o addirittura penali. Non posso certo pretendere che in uno Stato ciascuno faccia quello che vuole in nome della “Legge del proprio desiderio”.

Ugualmente, se il mio desiderio è quello di trasgredire alcune convenzioni sociali (i casi più frequenti sono quelli che riguardano la morale sessuale corrente), devo essere consapevole che pagherò dei prezzi in termini di sanzioni sociali, sotto forma di giudizio e di conseguente isolamento.

Poi, magari, in alcuni casi la nostra coscienza morale (l’altra morale, di cui parla Lacan) ci imporrà di disobbedire ad alcune Leggi dello Stato e di trasgredirne altre della morale corrente, in nome della fedeltà al nostro desiderio (non inteso come capriccio del momento, ma come nostra vocazione profonda).

E, però, lo ripeto, in questo caso dovremo essere consapevoli delle sanzioni giuridiche o semplicemente psicologiche a cui andremo incontro. La nostra scelta non potrà essere avventata e compiuta con faciloneria, in nome di una pretesa anarchica del nostro desiderio.

Per concludere io ritengo che la coscienza dell’Io sia costretta a muoversi sempre tra due sponde, quasi una Scilla e una Cariddi, come del resto ci ha insegnato Freud: – da una parte la pulsione del desiderio, alla quale bisogna cercare di rispondere e che in qualche modo bisogna cercare di soddisfare, “pena il pagamento di questo tradimento attraverso il ritorno del rimosso”; – dall’altra il “principio della realtà” che ci impedisce di soddisfare sempre e, soprattutto, pienamente la pulsione inconscia del nostro desiderio. In questo modo avverrà quanto auspicato da Freud: “Dove c’è l’Es ci sarà l’Io (Wo es war Ich werden)”.

Non potrà quindi affidarsi unilateralmente e totalmente alla Legge del desiderio, come sembrano dire sia Lacan che Recalcati, in maniera – a mio avviso – eccessivamente drastica e perentoria, suscitando, quindi, equivoci che possono invece facilmente essere evitati, come ho cercato di dimostrare con questa mia riflessione.

Allo stesso tempo per me la coscienza dell’Io dovrà assolutamente evitare di sottoporsi (almeno oltre un certo limite) alla Legge del sacrificio, del tutto gratuita e arbitraria, imposta dal Super-io, rappresentata dai dettami familiari e dalle convenzioni sociali correnti, fino a rendersene del tutto schiava, come avviene nel caso delle nevrosi.

Da questo punto di vista – fatte le precisazioni di cui sopra – la lezione di Lacan e di Recalcati è del tutto corretta e da me pienamente condivisa. Sono d’accordo pertanto che uno dei compiti principali in molti casi della terapia psicoanalitica è quello di alleggerire “la presenza implacabile del Super-io del paziente”.

Tanto è vero che arrivo a dire (parafrasando Freud) che “dove c’era il Super-io dovrà esserci l’Io”.

© Giovanni Lamagna

Cosa vuol dire l’espressione “dare un senso alla nostra esistenza”?

Un amico mi ha chiesto tempo fa: cosa vuol dire l’espressione, che adoperi spesso, “dare un senso alla nostra esistenza”; che cosa intendi dire con la parola “senso”?

Così gli ho risposto.

Hai ragione: la tua domanda è molto fondata; la parola “senso” è, infatti, una parola vaga, generica, imprecisa, che può dire una cosa e anche il contrario di essa; quello che può dare senso alla mia vita non è detto che lo dia alla tua e viceversa.

Né, d’altra parte e meno che mai, io ritengo sia possibile attribuirle un valore assoluto ed universale, un fondamento che poggi su un che di metafisico, cioè di esterno alla vita stessa.

In questo senso… la parola “senso” è un… “non-senso”, per fare un gioco linguistico (alla Wittegestein, per intenderci).

Allora, torniamo alla domanda: cosa è “il senso della vita”?

Che io radicalizzo, per arrivare a chiedermi: possiamo parlare di “senso della vita”?

Nel provare a dare una risposta a queste domande prendo spunto da una lettura che sto facendo proprio in questi giorni. Sto leggendo il testo dattiloscritto della conferenza che Sartre tenne nel 1945, dal titolo “L’esistenzialismo è un umanismo”. Nella quale Sartre affronta il tema della nostra riflessione, quello del senso della vita, e così scrive:

Prima che voi la viviate, la vita di per sé non è nulla, sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete. Così vedete c’è la possibilità di creare una comunità umana”.

Come possiamo leggere, nel primo rigo e mezzo l’affermazione di Sartre sembra sfociare in un relativismo assoluto, abissale, senza ritorno né speranza. Senonché nel secondo rigo e mezzo Sartre parla della “possibilità di creare una comunità umana”.

Viene da chiedersi: come è possibile “creare una comunità umana”, se il senso che diamo alla nostra vita è quello che ciascuno di noi sceglie di darle? se è questa la condizione fondamentale dell’uomo, non è egli allora condannato all’incomunicabilità e all’isolamento più assoluti?

Evidentemente per Sartre non è così: è vero che ognuno di noi sceglie liberamente (mi verrebbe di dire “anarchicamente”) i valori, il senso da dare alla propria vita.

Non esistono, dunque, valori già belli e pronti, che gli uomini trovano stampati sulle tavole della legge (come quelle di Mosé) e che devono solo apprendere ed applicare.

Però è anche vero – anche questo è un dato di fatto – che gli uomini si ritrovano, nella loro realtà esistenziale concreta, a dare un valore comune, condiviso, ad alcune “cose”: idee, comportamenti, scelte…. Questo dà loro la possibilità di “creare una comunità”.

Una comunità estremamente fragile, mobile, precaria, fondata su scelte che possono essere messe continuamente in discussione da altre riflessioni, da altri comportamenti, da altre scelte degli stessi uomini che li avevano fatti in altri momenti, magari anche pochi momenti prima.

E, però, pur sempre una comunità. Che ci consente di riconoscerci in qualche modo simili, accomunati dalla stessa condizione, portati a trovare tra di noi delle consonanze e non solo delle dissonanze, a provare com-passione e non solo odio reciproci.

La storia degli uomini è fatta di tremende carneficine ma anche di atti sublimi di altruismo e generosità, di piccole miserie ed egoismi, ma anche di costanti e quotidiane forme di mutuo aiuto.

Il destino degli uomini è quello di essere irrimediabilmente separati gli uni dagli altri, dal momento della nascita e fino alla morte: quindi, strutturalmente soli. E però ciascuno di noi è dotato (anche) di una capacità empatica che lo porta (può portarlo, se esercitata) a condividere simpateticamente la condizione degli altri.

Nel cogliere, intuire, percepire questa drammatica antinomia, che è fatta di una radicale “mancanza a” ma anche di una grande opportunità, e nel comportarsi e agire di conseguenza, l’uomo può (forse) trovare e riconoscere il senso della propria vita.

Sta qui il “senso della vita”? Per me, sì, questo è il senso della vita.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Hammamet” di Gianni Amelio

Ieri pomeriggio sono stato a vedere “Hammamet”, l’ultimo film di Gianni Amelio. Esprimo subito e in maniera sintetica l’impressione fondamentale: è un bel film, che si lascia vedere bene, che intriga e, a tratti, perfino commuove.

Lo confesso, sono andato a cinema piuttosto prevenuto: avevo letto nei giorni precedenti qualche articolo di giornale, un’intervista a Favino, qualche dichiarazione dello stesso Amelio e mi ero fatto l’idea che il film, sotto, sotto, avesse un qualche intento riabilitativo, se non addirittura agiografico, nei confronti di Bettino Craxi.

Io, all’epoca, non solo non avevo condiviso (quasi) niente dell’uomo politico-Craxi, ma – diciamolo pure – l’avevo anche cordialmente disprezzato sul piano umano. Perché incarnava l’esatto contrario del mio politico ideale e della mia stessa idea di uomo. Questo, credo, spiegasse bene lo stato d’animo con cui mi sono, dunque, recato a cinema.

Dopo aver visto il film, posso dire, invece, che le mie prevenzioni erano nel complesso del tutto infondate. Perché il film non racconta in primo luogo il Craxi politico, ma racconta soprattutto il Craxi oramai uscito dalla scena politica, distante dall’Italia e, per giunta, molto malato.

Racconta la storia degli ultimi sette mesi di vita di un uomo, che vive oramai isolato, circondato solo dall’affetto dei suoi familiari (soprattutto da quello devoto della figlia e da quello del nipotino, che lo venera come un comandante militare; la moglie è presente, ma è quasi come se non ci fosse: evidentemente non aveva mai avuto un grande ruolo affettivo nella sua vita), una persona ripiegata sui suoi ricordi, misti di nostalgia e di rancore, in lotta sempre più disperata con varie malattie, che ne minano ogni giorno di più la salute.

Il Craxi politico c’è (eccome, se c’è!), ma è sullo sfondo. In primo piano c’è il Craxi uomo, con il suo gradissimo dramma.

Un uomo sconfitto, che non si fa ragione della sua disfatta, che si sente anzi vittima di un complotto ordito ai suoi danni, che prova a spiegare le ragioni delle sue scelte, con l’arroganza di un tempo ancora ben viva, che non prova però più vero odio per i suoi avversari (“che coraggio c’è a parlar male degli altri?”), ma solo tanta rabbia.

Un uomo che si addolcisce solo con il nipotino (col quale gioca, come fanno tutti i “bravi” nonni), che vive un rapporto ambivalente con la figlia, un misto di ruvidezza burbera e di quasi languida tenerezza, che ha dei buonissimi rapporti con la comunità tunisina che lo ospita, che si esercita persino in buone azioni con poveri e bisognosi.

Amelio, insomma, ha voluto (a me pare) essenzialmente descrivere la storia di un personaggio famoso (che questo personaggio avesse le sembianze di un noto uomo politico italiano è stato per il regista calabrese quasi solo un pretesto), un personaggio che ha fatto la storia di una nazione, che ha toccato il vertice della gloria e dei riconoscimenti, e poi cade in disgrazia, rotola nella polvere, come prima di lui nella Storia è avvenuto a tanti altri illustri personaggi. E ci è riuscito benissimo.

Il dramma del racconto sta tutto nel raffronto stridente tra ciò che fu (ascesa al potere, gloria, fama, benessere economico, amori…; non a caso il film inizia con le scene del famoso XVI Congresso socialista, nel quale Craxi raggiunse l’acme della sua carriera politica) e la realtà del presente (dopo le condanne giudiziarie, la debacle politica, la perdita del potere, la fuga ad Hammamet in Tunisia, il sostanziale isolamento, la grave malattia…). Ed è reso con grande maestria narrativa.

Per carità (come già accennavo prima) nel film non è assente la dimensione del Craxi politico.

E d’altra parte essa non poteva mancare, perché Craxi era un animale politico fin nel midollo, totus politicus. Ma non poteva mancare, anche per un altro motivo: perché sarebbe venuta meno la tensione narrativa drammatica tra l’uomo politico trionfatore e quello decaduto.

E però la dimensione politica è solo la dimensione seconda, viene cioè dopo quella umana e privata. Nel film hanno dunque la possibilità di emergere con precisione tutte le tesi e le argomentazioni, che Craxi ha sostenuto fino all’ultimo, non solo per difendersi dalle accuse dei giudici, ma anche per rivendicare orgogliosamente la sua storia politica.

E il regista queste tesi e queste argomentazioni non le sposa affatto, come io (un po’ prevenuto) temevo che fosse. Anche se non le contrasta apertamente, quanto meno le dialettizza, attraverso la figura (bella trovata narrativa questa!) del figlio di un ex amico di Craxi (amministratore del partito, morto suicida) che, per capire cosa ha portato il padre a uccidersi, va a trovare il leader socialista  per intervistarlo e gli pone molte domande, spesso in aspra polemica con lui.

Io, come è ovvio, mi riconosco pienamente nella posizione di questo giovane, che pone a Craxi domande molto scomode e stringenti, che forse, almeno all’inizio, persino lo odia (tanto è vero che aveva addirittura meditato di ucciderlo) e che però, un poco alla volta, nel corso dei lunghi giorni in cui procede l’intervista (ospite a casa di Craxi) si lascia prendere dall’umana pietà di fronte all’uomo sofferente.

A voler fare una sintesi conclusiva: – Hammamet è un film anche politico, ma non in primo luogo politico; – le tesi politiche (quelle favorevoli a Craxi e quelle contrarie) vengono esposte (ovviamente in forma narrativa) in maniera abbastanza obiettiva e per nulla apologetica; – il film è in primo luogo il racconto della dolorosa vicenda umana di un uomo potente caduto in disgrazia; – probabilmente voleva suscitare umana compassione anche in chi Craxi lo ha vissuto come avversario e anche oggi non ne condivide quasi nulla della storia politica; – se questo era uno degli obiettivi, l’ha raggiunto pienamente: con me, almeno, l’ha raggiunto; è, insomma, un film riuscito.

Una menzione a parte la merita l’interpretazione di Pier Francesco Favino, che è semplicemente strepitosa, magistrale, da grande attore, di statura internazionale.

Giovanni Lamagna

Il filosofo e la massa.

13 ottobre 2016

Il filosofo e la massa.

La vita del filosofo è una vita strutturalmente a rischio, in quanto essa si muove su un piano radicalmente diverso da quello su cui si muove la vita della moltitudine, cioè della maggior parte delle persone, della cosiddetta massa.

Questa, infatti, vive in una condizione di semiveglia. Si accontenta di cogliere le apparenze delle cose, le loro ombre (come dice bene il mito della caverna raccontato da Platone). Si alimenta dei luoghi comuni, che per pigrizia o vigliaccheria (o tutte e due le cose insieme) non osa mai mettere in discussione.

Il filosofo nasce, invece, proprio dalla messa in discussione dei luoghi comuni, delle “verità” facili, a immediata portata di mano. Che si possono ottenere senza sforzare il pensiero e senza  esercitare la meditazione.

Il filosofo è colui che cerca di andare oltre le apparenze alla ricerca della essenza delle cose. Che sa bene non raggiungerà mai. Ma che comunque vale la pena di ricercare, perché questa ricerca dà un senso nuovo alla sua esistenza.

La vita del filosofo, quindi, è destinata ad andare (in maniera più o meno violenta e rapida ) in rotta di collisione con quella della massa delle persone comuni. Che vengono turbate, scosse, se non addirittura ferite ed offese dalle parole e, ancora di più, dalla vita stessa del filosofo.

Oggettivamente. Cioè al di là delle stesse intenzioni soggettive del filosofo.

Che, quindi, il più delle volte viene punito, sanzionato. Nel migliore dei casi con l’isolamento, con la solitudine, con l’emarginazione sociale. Nei casi estremi (come quelli di Socrate, di Gesù, di Giordano Bruno, per fare solo gli esempi più famosi) addirittura punito con la tortura prima e con la morte poi.

Non sembri un quadro solo tragico questo della condizione del filosofo. Perché è vero che molte volte il filosofo è condannato all’ostracismo sociale. Però è anche vero che la sua coscienza vive di una luce che non brilla nell’animo dell’uomo comune.

E questo basta e avanza per compensarlo, risarcirlo della condizione di solitudine/incomprensione nella quale spesso (anzi il più delle volte) è costretto a vivere.

Il filosofo non scambierebbe mai la sua condizione di vita con quella dell’uomo comune, dell’uomo-massa.

Giovanni Lamagna

Isolamento e solitudine

2 ottobre 2015

Isolamento e solitudine.

Io penso che non sia bene che l’uomo si isoli dagli altri, che viva in solitudine.

Perché non è naturale né sano che egli stia da solo (Genesi 2, 18).

Penso anche, però, che ciascuno di noi debba essere sufficientemente amico della solitudine per poter stare bene insieme agli altri.

Giovanni Lamagna

La scelta di vivere e il senso della vita

23 giugno 2015

La scelta di vivere e il senso della vita.

Quando un uomo nasce, viene sbalzato da una situazione ben definita, chiara come l’istinto, in una situazione incerta e indefinita.

Vi è certezza solo per ciò che riguarda il passato; per ciò che riguarda il futuro, solo la morte è certa.

L’uomo è dotato di ragione; è conscio di se stesso, della propria individualità, del passato, delle possibilità future.

Questa coscienza di se stesso come entità separata, la consapevolezza della propria breve vita, del fatto che è nato senza volerlo e contro la propria volontà morirà, che morirà prima di quelli che ama, o che essi moriranno prima di lui, il senso di solitudine, d’impotenza di fronte alle forze della natura e della società, gli rendono insopportabile l’esistenza.

Diventerebbe pazzo, se non riuscisse a rompere l’isolamento, a unirsi agli altri uomini, al mondo esterno. (…)

(…) L’uomo – di qualsiasi età e civiltà – è messo di fronte alla soluzione di un eterno problema: il problema di come superare la solitudine e raggiungere l’unione.

(…) E’ un problema che nasce da un unico terreno: la situazione umana, le condizioni dell’esistenza umana. La soluzione varia.

(…) Le soluzioni sembrano molteplici ma in realtà sono limitate, e sono soltanto quelle proposte dall’uomo nelle varie civiltà in cui è vissuto.

La storia della religione e della filosofia è la storia di queste soluzioni, delle loro diversità, dei loro limiti.

(Erich Fromm; “L’arte di amare”; 1973; pag. 22 – 24).

Per Fromm, dunque, il problema principale di fronte al quale si trova l’uomo appena nato (sia come specie che come individuo, facente parte della specie) è quello della separazione, della solitudine, del ritrovamento di una nuova unità, che restauri (o sostituisca) quella perduta.

Questa affermazione è senz’altro vera o, quantomeno, verisimile. Ma, per me, solo in parte.

Io credo, infatti, che l’uomo, appena nato o, meglio, appena divenuto consapevole di se stesso e della propria condizione, abbia anche un secondo problema da affrontare, di peso almeno pari se non superiore al primo: quello di dare un senso alla propria esistenza, alla propria condizione esistenziale.

Egli è, infatti, stato gettato nel mondo senza averlo né voluto né richiesto ed è condannato (già appena nato) ad una sorte sicura, la morte, per quanto imprevedibile nel tempo e nelle modalità.

Il senso del suo venire al mondo gli appare, quindi, avvolto nelle nebbie del mistero. Che senso hanno il nascere ed il vivere, se essi dovranno concludersi (inevitabilmente e prima o poi) con l’esito contrario al vivere, che è la morte?

Che senso ha poi il dolore, a volte feroce, fisico e/o spirituale, che caratterizza tanti momenti di questo vivere, al quale pure siamo (per altre ragioni) attaccati?

In questa situazione non è affatto facile (né scontato) per l’uomo prendere la decisione, quindi fare la scelta (perché in alcuni momenti di vera e propria scelta si tratta) di continuare a vivere.

Nessun animale, di nessun’altra specie che non sia quella umana, si trova di fronte ad un’analoga scelta e decisione. L’uomo è l’unico che può decidere di porre fine alla sua esistenza. In qualsiasi momento.

E’ spinto a continuare a vivere (nonostante le difficoltà che la vita comporta, inevitabilmente e per tutti, anche se in misura diversa a seconda degli individui) da un fortissimo istinto primario, che è stato appunto definito “di sopravvivenza”.

Allo stesso tempo un altro istinto (meno potente, ma che in certi momenti e in certe situazioni diventa altrettanto forte e, in certi casi, addirittura più forte del primo) lo spinge nella direzione esattamente opposta: la morte. C’è in lui anche un “istinto di morte”, come lo ha definito Freud.

L’uomo si trova quindi a vivere, dal momento in cui viene al mondo, continuamente sull’orlo di un baratro, che dà le vertigini. Da un lato c’è la vita che lo attira, dall’altro c’è la morte, che pure (in certi momenti almeno) lo seduce.

Non mi sento di dire che le ragioni che spingono verso la morte (tranne in alcuni casi estremi) siano forti come quelle che spingono a favore della vita. Perlomeno nella mia esperienza sicuramente non è così.

Ma non c’è bisogno di arrivare ai casi estremi (quelli che spingono alcuni a togliersi la vita), per affermare che vivere è un mestiere faticoso, pesante. Solo in pochi e rari casi gli uomini arrivano alla scelta estrema e tragica di togliersi la vita. Ma quanti uomini vivono in una situazione di stallo, quella di chi non arriva a compiere quel gesto estremo, ma non è per niente contento di vivere, perché la vita gli appare priva di senso, di ragione!

Quanti uomini trascinano la loro vita, inerti, passivi, senza energie, senza un progetto, senza speranze!

Per scegliere la vita (che è cosa diversa dalla semplice sopravvivenza biologica: non si vive davvero senza un po’ di gioia o almeno di serenità) l’uomo ha bisogno di trovarle un senso, di trovarle delle ragioni.

L’amore (sia quello che si dà, sia quello che si riceve) è sicuramente una risposta a questa domanda di senso. Come giustamente dice Fromm. Ma da solo, a mio avviso, non basta.

L’amore è la risposta “orizzontale” al problema dell’esistenza. E’ sicuramente la soluzione, la più importante, al bisogno di superare il “trauma della nascita”, cioè della perdita dell’unione fusionale con l’utero materno, del senso di abbandono e di solitudine fondamentale che ne deriva.

Ma l’uomo ha anche necessità di dare una risposta “verticale” al problema dell’esistenza, che non è legato alle relazioni, al suo rapporto con gli altri, bensì al rapporto che egli ha (o non ha; perché alcune volte non lo ha) con se stesso.

L’uomo ha bisogno di dare una risposta alla domanda fondamentale: che senso ha la vita, che senso hanno (perfino) le relazioni e, quindi, l’amore stesso?

Anzi questa domanda “verticale” precede l’altra, quella “orizzontale”; e la risposta alla prima è, quindi, propedeutica, indispensabile alla seconda.

Ma, per ora, mi fermo qua; mi riprometto di dedicare a questo argomento una prossima riflessione.

Giovanni Lamagna

Innamoramento e amore.

giugno 2015

Innamoramento e amore.

Un altro equivoco che insorge spesso nelle cose dell’amore – dice Fromm – è quello di confondere l’amore con l’innamoramento.

Questa confusione è un’altra delle ragioni che induce l’idea, piuttosto diffusa tra gli umani, che nelle cose dell’amore non ci sia nulla da imparare, ma che l’amore sia un sentimento del tutto naturale, che sorge spontaneo, che è anzi del tutto connaturato all’animo umano.

Infatti, una delle caratteristiche tipiche dell’innamoramento è che esso sopraggiunge il più delle volte improvviso, quando meno te lo aspetti, come un colpo di fulmine.

E’ un sentimento che ci raggiunge (significativa l’immagine della freccia che ci trafigge il cuore) e non uno stato d’animo verso il quale siamo noi ad andare, a cui ci disponiamo e verso cui ci prepariamo.

E’ una situazione psicologica nella quale siamo sostanzialmente passivi e non attivi, trascinati come una barca dalla corrente di un fiume in piena e non nocchieri padroni del suo timone.

Un’altra caratteristica tipica dell’innamoramento è che esso è un sentimento più o meno di breve durata, destinato in ogni caso a non durare oltre un certo tempo più o meno prolungato.

E che spesso gli uomini lo confondano con l’amore stesso è dimostrato dal fatto che quasi sempre, quando si esaurisce la fase dell’innamoramento, essi usino dire “è finito l’amore”.

Un’altra caratteristica che contraddistingue l’innamoramento dall’amore è che l’innamoramento è un sentimento molto forte, in alcuni casi violento, che procura emozioni molto intense e tipiche, di grande eccitazione ed esaltazione. Mentre l’amore è un sentimento più pacato, più ordinario, a più bassa intensità emotiva.

Solo che, siccome gli uomini in genere sono innamorati dell’innamoramento, perché sono attirati dai sentimenti forti, violenti, intensi, essi non considerano l’amore un sentimento veramente degno, all’altezza dei loro bisogni e delle loro aspettative.

Preferiscono così chiamare amore quello che è semplice innamoramento e non considerare amore quello che non corrisponde all’innamoramento.

Di qui la confusione, l’equivoco, di cui abbiamo parlato finora.

E’ importante dissipare questa confusione, chiarire questo equivoco?

Sì, se non si vuole andare incontro a inevitabili e, magari, continue frustrazioni e delusioni.

L’innamoramento è, infatti, un sentimento molto piacevole e intenso (specie quando – come in genere avviene – si accompagna all’attrazione sessuale), ma destinato fatalmente a durare poco.

E’ un sentimento (forse) necessario per avviare un rapporto, per spingerci gli uni verso gli altri. Se non scattasse dentro di noi questo sentimento, quasi sempre violento e improvviso, forse nessuno di noi riuscirebbe a vincere la pigrizia o la diffidenza che ci inducono a restare chiusi in noi stessi piuttosto che ad aprirci agli altri.

Ma l’innamoramento è anche una forma di infatuazione, se non di vera e propria allucinazione, che (quasi sempre) ci fa vedere nell’altro/a cose che (magari) non ci sono (le qualità, i pregi) e che non ci fa vedere, invece, cose che ci sono (i limiti, i difetti).

E’ un sentimento di tipo proiettivo, che ci fa vedere l’altro/a come ci piacerebbe che fosse, in base alle nostre aspettative, bisogni e desideri, e non come, invece, effettivamente è.

E’ un sentimento la cui intensità, come dice Fromm, segnala più la gravità della nostra solitudine, il nostro bisogno di compagnia, di attaccamento, di dipendenza, che il desiderio (reale e non fantasioso, genuino e non immaginato) di donarsi, darsi, dedicarsi a qualcuno/a.

E’ importante, anzi è necessario, quindi, che dall’innamoramento (che ha una indubbia funzione all’inizio di un rapporto per avviarlo, farlo partire) si esca e si passi ad un’altra fase del rapporto: quella viene definita dell’amore.

Questa fase nuova è caratterizzata innanzitutto da una presa di consapevolezza maggiore di chi è l’altro/a, di chi sono io, coi miei bisogni e i miei desideri.

Con essa finisce la fase dell’infatuazione, in cui vediamo l’altro/a (e anche noi stessi) con occhi un po’ deformati, e inizia una fase in cui vediamo l’altro e noi stessi con occhi un po’ più obiettivi.

In questa nuova fase dell’altro vediamo non solo i pregi e le qualità, ma anche i difetti e i limiti.

E questa evoluzione (è a mio avviso importante segnalarlo) avviene in qualsiasi tipo di rapporto, non solo in quello che siamo solito definire di coppia, il cosiddetto legame erotico.

Accade, ad esempio, anche nel rapporto di amicizia, che, dopo una prima fase di entusiasmi e di attrazione reciproca, vede emergere anche i contrasti e a volte i dissapori, se non i veri e propri conflitti.

Accade, perfino, nel rapporto genitori/figli.

Cosa è, infatti, il sentimento che provano i bambini (in genere) nei confronti dei genitori per una lunga fase (quella dell’infanzia) se non una forma di infatuazione, di allucinazione, di distorsione ottica, dovute alla dipendenza fisica, materiale, oltre che affettiva?

E non accade lo stesso anche nei genitori alla nascita dei loro figli? Se questa fase nei genitori dura meno a lungo, ciò è forse dovuto solo al fatto che i genitori sono persone adulte, quindi non dipendenti materialmente dai figli e meno dipendenti di loro dal punto di vista affettivo.

La fase che segue alla fine dell’innamoramento non ci vede più passivi, cioè mossi da una passione, ma esige che diventiamo attivi, richiede quindi una scelta. Si sceglie, infatti, si decide di amare. Mentre non si sceglie, non si decide di innamorarsi. Si è piuttosto scelti dal sentimento dell’innamoramento.

Ecco perché l’amore è un sentimento (ammesso che sia solo un sentimento) molto più maturo e adulto dell’innamoramento.

Si sceglie, infatti, si decide, di amare l’altro/a, nonostante se ne vedano i difetti, nonostante se ne siano conosciuti i limiti, nonostante che molte sue qualità e molti suoi pregi, che all’inizio ci avevano fortemente attratti, si siano più o meno grandemente ridimensionati ai nostri occhi.

Si sceglie, si decide di amare, perché si prende consapevolezza che in natura, nelle cose umane non esiste la perfezione, che questa è un feticcio, un fantasma, e che la sua ricerca spasmodica e ossessiva ci condannerebbe alla solitudine, a un triste isolamento.

Si sceglie, decide di amare, perché si diventa consapevoli, che l’Altro rappresenta la nostra ombra, che insomma non è mai totalmente Altro, ma è anche una parte di noi. Che, attraverso l’Altro, possiamo entrare in contatto con la parte di noi che è in ombra e, quindi, crescere, evolvere, arricchirci di nuove dimensioni.

Cosa che ci sarebbe impedita, se restassimo prigionieri del nostro narcisismo. Narcisismo che non viene per nulla intaccato dalle esperienze (per quanto molteplici) di innamoramento. Anzi queste semmai lo rinforzano e gli danno alimento ulteriore. Ma può essere messo in crisi e vinto in maniera significativa solo da reali esperienze di amore.

Giovanni Lamagna