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Mediocrità, tranquillità, irrequietezza.

C’è chi sceglie la mediocrità per stare tranquillo, senza farsi venire tanti grilli nella testa.

E chi ha in odio la mediocrità, che lo mette addirittura in agitazione, perché lo rende insoddisfatto.

Stanno meglio i mediocri tranquilli, nascosti tra la folla?

O stanno meglio gli irrequieti che non si accontentano della mediocrità, che non vogliono appiattirsi nella massa, omologarsi ai più?

© Giovanni Lamagna

Benessere e fatica.

Mi convinco ogni giorno di più che nella vita abbiamo bisogno di modelli di riferimento più alti di noi, che ci elevino, ci innalzino al di sopra di noi.

Modelli ai quali tentare di assomigliare, facendo uno sforzo, trascendendo noi stessi, gettando il cuore oltre l’ostacolo.

Questo vuol dire realmente esistere; da “ex-sistere”: stare fuori, uscire da sé.

Chi, invece, cerca solo il riposo, chi nella vita si accontenta di poco, di avere come modelli di riferimento coloro che gli assomigliano o, addirittura, stanno spiritualmente, psicologicamente, ad un livello inferiore al suo, sarà destinato a vivacchiare nella mediocrità ed a provare dunque un senso di vuoto, di mancanza, che lo renderà perennemente insoddisfatto.

Confonderà il desiderio di riposo, tranquillità, conforto con quello di benessere e di felicità, che invece – paradossalmente – esigono una certa tensione, una qualche fatica.

Un po’ come colui che vorrebbe provare il benessere, la gioia, di camminare o andare in bicicletta senza muovere le gambe o senza pedalare, senza fare cioè alcuno sforzo o fatica.

© Giovanni Lamagna

L’uomo tra bisogno di sicurezza e desiderio di avventura.

La vita di noi si uomini si muove tra due opposte polarità, un bisogno e un desiderio tra di loro opposti eppure complementari.

Il bisogno di sicurezza, di cura, di assistenza, di serenità e tranquillità. E il desiderio opposto di mettersi in gioco, anche a costo di sottoporre a rischio le proprie sicurezze, per provare il brivido eccitante, adrenalinico, del pericolo, dell’avventura.

Ce lo insegnano anche le favole. Cappuccetto rosso poteva starsene tranquillamente a casa sua a giocare con le sue bambole o a coltivare il suo giardinetto.

Ed invece sentì il bisogno di andare a trovare la nonna (anche qui ancora un bisogno di affetto e di sicurezza; e però evidentemente un affetto altro rispetto a quello che le garantivano già i suoi genitori).

Ma per soddisfare questo suo bisogno doveva affrontare il bosco, col pericolo di incontrare il lupo, con le incognite che questo comportava.

Eppure non ebbe esitazioni: si avviò, decisa a non farsi paralizzare dall’ansia per i rischi che il tragitto avrebbe comportato.

Ho pensato a questo e mi è apparso ancora più chiaro di altre volte, appena qualche giorno fa, quando giocando con la mia nipotina di due anni e mezzo, ad un certo punto Ludovica mi ha chiesto di disegnarle, sul foglio bianco che avevamo davanti, un lupo.

Guarda un po’: è evidente che il lupo è un archetipo!

Allora io gliel’ho disegnato, così alla buona come ne sono stato capace. E lei subito ha messo il ditino vicino alla bocca dell’animale che avevo disegnato.

Ne è nata una piccola (ma significativa) sceneggiata. Ha cominciato a lamentarsi, quasi piangendo, che il lupo le aveva dato un morso.

E allora io le ho baciato il ditino e poi con una mano ho fatto per picchiare il lupo. E lei è diventata subito tutta sorridente: il lamento si è trasformato in gioia.

Questa situazione si è poi ripetuta svariate volte, fino a che il gioco non le è venuto a noia e siamo passati ad altro.

L’episodio racconta bene a mio avviso quello che ho provato a teorizzare all’inizio e che ben prima di me avevano già teorizzato ben più illustri pensatori.

Quello che lo ha fatto con più chiarezza è stato sicuramente – come tutti sappiamo – Sigmund Freud.

L’uomo è animale domestico e stanziale, ma è anche animale randagio e nomade, è contadino ma anche cacciatore, anzi è stato prima di tutto cacciatore e poi è diventato contadino.

In lui quindi ci sono le stigmate di entrambe le situazioni da lui primordialmente vissute: c’è lo stigma della sedentarietà e della sicurezza e quello della movimentazione e del rischio.

La sua vita è un’oscillazione continua tra queste due polarità. Non sta bene, non sta veramente bene, se si ferma, se si blocca, in una soltanto di essa.

Per stare bene ha bisogno di oscillare tra le due diverse situazioni: in questo modo si crea e si ricrea in continuazione.

Le alternative sono la noia, se si accontenta delle sicurezze e dei confort; o l’ansia, perfino l’angoscia, se eccede nel mettersi alla prova e nel sottoporsi ai rischi.

Entrambe, da sole, non gli fanno bene; se si alternano, invece, con sapiente equilibrio, gli assicurano l’agognato benessere.

Giovanni Lamagna

Una testa ben fatta e una testa ben piena

17 gennaio 2016

Una testa ben fatta e una testa ben piena.

C’è, indubbiamente, un nesso tra “l’atto del leggere” e “l’esercizio del pensiero”. Il primo non potrebbe avvenire senza una qualche partecipazione del secondo. E in qualche modo e misura il secondo è certamente favorito dal primo.

Ma nesso e (potremmo aggiungere anche) interdipendenza non sono sinonimo di coincidenza o equivalenza.

Ci sono, infatti, persone che hanno letto e leggono molto, ma hanno pensato e pensano poco.

Sono quelle persone per le quali ciò che leggono non affonda nel loro pensiero, non scende in profondità, ma resta in superficie e talvolta scivola via nella dimenticanza più totale, tal altra resta come bagaglio nozionistico, che non diventa però carne della propria carne, sangue del proprio sangue, non si trasforma cioè in vita. Soprattutto non modifica, non trasforma, non migliora, non eleva la loro vita.

Al contrario, ci sono altre persone che hanno letto poco nella loro vita, ma hanno pensato molto e soprattutto vanno in profondità quando pensano.

Sono persone che leggono ed hanno letto poco, perché non ne hanno avuto e non ne hanno le possibilità economiche o perché svolgono attività lavorative che non lasciano loro molto tempo per leggere o, semplicemente, perché sono lente nella lettura, hanno bisogno di tempo per assimilare e meditare ciò che leggono. Ma che traggono tesoro da ciò che leggono, lo masticano e lo assimilano come se fosse cibo, che si trasforma in carne della loro carne e sangue del loro sangue. Che fanno di ogni lettura un incontro con l’autore del testo che leggono. E da quel testo si fanno trasformare o con esso si confrontano per dissentire e polemizzare (se è il caso).

Una persona di grande cultura è indubbiamente una persona che ha entrambe le caratteristiche: ha letto molto ed allo stesso tempo ha meditato molto. E’ una persona che è a conoscenza delle molte cose che altri prima di lei hanno pensato e scritto. In questo modo se non altro si evita di aprire porte che sono già state aperte da altri. Ma allo stesso tempo ha esercitato molto il pensiero critico. Ovverossia non ha accolto in maniera acritica le cose che ha letto, ma le ha filtrate alla luce del suo pensiero originale e creativo. Non le ha accumulate dentro di sé come se fossero altro da sé, ma le ha assimilate, elaborate, trasformate, ricreate, rese nuove ed originali.

Il desiderio di ognuno di noi dovrebbe essere quindi quello di leggere molto ed allo stesso tempo di pensare molto; soprattutto, di pensare bene.

Ma dovendo scegliere, essendo costretti a scegliere (in base a quello di cui siamo capaci e alle condizioni di vita in cui siamo messi), io credo sia meglio optare per la seconda qualità. Infatti, come diceva Montaigne e come ha ribadito di recente Edgar Morin, “è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”.

Giovanni Lamagna

Io sono io. Tu sei tu.

20 maggio 2015

Io sono io. Tu sei tu.

Leggo il testo (per me quasi una poesia o una specie di preghiera laica) di Fritz Pearls, il fondatore della “gestalt”, una delle più importanti correnti della psicologia moderna:

“Io sono io. Tu sei tu.

Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.

Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative.

Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa.

Se ci incontreremo sarà bellissimo;

altrimenti non ci sarà stato niente da fare.”

E mi chiedo: ma questo vale per tutti i rapporti? Anche quello tra un marito e una moglie? Anche quello tra una compagna e un compagno? Anche quello tra un padre e una figlia? Anche quello tra una madre e un figlio?

Mi dico: non sarà questa affermazione un po’ troppo estremista e manichea? Un po’ troppo drastica e radicale? Forse, nelle intenzioni del suo autore, voleva essere solo un po’ paradossale, da non prendere proprio alla lettera…

Poi ci rifletto ben bene e mi dico: no, una tale affermazione o è vera tutta, alla lettera o non è vera per niente, neanche in parte. E propendo per la prima ipotesi.

Perché?

Innanzitutto perché è vero (in maniera assoluta, anche nel rapporto tra due amanti, anche nel rapporto genitore/figlio) che in qualsiasi rapporto (anche il più forte, il più intenso, il più antico) si rimane in due. O, meglio, si dovrebbe rimanere in due.

In un rapporto sano, vero, felice, nessuno dei due assorbe l’altro/a, ma si rimane distinti, anche quando c’è una profonda unità.

Nel caso che ciò non succeda e che i due diventino una unità simbiotica, nella quale ciascuno dei due perde i suoi confini per fondersi con l’altro, il rapporto è malato, insano. E destinato inevitabilmente (prima o poi, se non da subito) all’infelicità.

In secondo luogo, nessuno dei due, in qualsivoglia rapporto, viene al mondo per soddisfare le aspettative dell’altro. Neanche un figlio o una figlia per soddisfare le aspettative del padre o della madre.

Figuriamoci un marito nei confronti della moglie o una moglie nei confronti del marito!

Semmai ciascun essere umano viene al mondo per adempiere a un compito, come sosteneva Victor Frankl, il padre della logoterapia.

E il compito sta nella realizzazione di se stessi, del proprio potenziale, dei propri talenti (a voler utilizzare un linguaggio evangelico).

Per cui – è proprio vero quello che sostiene Perls; e non solo in forma figurata o metaforica, ma proprio in senso letterale – ciascuno di noi deve fare la sua cosa, il compito per il quale è stato chiamato a vivere.

E questo di solito ognuno di noi lo capisce, individua e lo realizza (perfino) in perfetta solitudine (psicologica). Anche quando non è solo dal punto di vista fisico.

Poi, se incontra degli altri, “l’Altro/a”, sul suo cammino, perché i loro cammini si incrociano o diventano comuni o paralleli, sarà una bellissima cosa e si starà insieme, mantenendo ognuno la propria autonomia e libertà.

E, in questo caso, il cammino comune, l’uno a fianco dell’altro, sarà bellissimo, perché il rapporto soddisferà le due esigenze umane fondamentali, allo stesso modo e nello stesso tempo: quella della sicurezza e quella della libertà; e quindi sarà fonte di gioia e di felicità.

Se, invece, non incontrerà “l’Altro/a”, allora dovrà rassegnarsi, senza voler imporre all’altro (o anche a se stesso) una comunanza o una vicinanza che evidentemente il destino (che è poi nient’altro che la loro natura, la loro storia) non ha/aveva previsto.

Imposizione che (forse) garantirebbe un po’ di sicurezza, un po’ di perbenistica tranquillità e apparente serenità. Non certo la felicità e la gioia.

Giovanni Lamagna